SETTEMBRE IN SARDEGNA E’ IL PRIMO MESE DELL’ANNO: CABUDANNI, L’INIZIO DELL’ANNO AGRICOLO

di GIULIO GAVIANO

Il nome sardo del mese trae origine dal calendario bizantino, in cui settembre era il primo mese dell’anno, Caput anni. Era l’inizio dell’anno agricolo secondo una tradizione che, in molti aspetti, è arrivata quasi ai giorni nostri.

Fino a pochi decenni fa settembre era il mese in cui si rinnovavano i contratti di affitto dei campi, ma anche i contratti con i braccianti che li lavoravano, con i pastori e perfino con le donne di servizio. Queste ultime, il giorno di Santa Croce, finivano il lavoro nella casa della vecchia padrona, in cui vivevano, ed entravano in un’altra casa.

I contratti degli altri lavoratori potevano anche decorrere da un altro giorno, ma quello de is tzeraccas durava da Santa Croce a Santa Croce.

I braccianti agricoli venivano chiamati is giornaderis perché lavoravano a giornata; quando erano fortunati facevano un contratto annuale con il padrone del campo fino al 31 di agosto. Il contratto era sulla parola: c’era una paga in denaro ma anche in natura, ad esempio una certa misura di grano, necessaria per la famiglia de su giornaderi, olio e, a volte, addirittura una o duas parigas de crapitas(uno o due paia di scarpe). Si coltivavano principalmente due tipi di grano, quello duro e quello tenero. Il grano tenero, che maturava in breve tempo, era chiamato trigu corantinu, quello duro, più pregiato, era usato per fare la pasta. Nell’ambito della pastorizia si faceva la stessa cosa, un contratto in cui si pagava in denaro e alimenti (latte, formaggio, ricotta). Quando ancora il riso non c’era, vicino al Tirso (bennaxi) si coltivavano pomodori, piselli, fagiolini, ceci, angurie, meloni. Si portavano le olive ai frantoi e si otteneva in cambio l’olio. Per evitare incendi si faceva sa doha, una fascia di terreno ripulita dalle erbacce, di cui troviamo attestazione già nella Carta de Logu. Altrimenti il fuoco avrebbe potuto saltare facilmente da un campo all’altro. Gli incendi c’erano ugualmente, e non c’erano vigili del fuoco né canadair. Ma c’era la mentalità de su pratu torrau, della solidarietà: “oggi dai qualcosa a me, domani io la darò a te”. Per cui a spegnere gli incendi ci andavano tutti, con le frasche, per cercare di evitare che andasse in fumo il grano o un oliveto. Nonostante l’incendio, a volte, fosse doloso (appiccato per invidia o vendetta) le campane suonavano a stormo: fogu fuìu, fuoco sfuggito al controllo. La solidarietà era forte anche perché allora non c’erano pensioni sociali o di invalidità e chi era povero andava a chiedere l’elemosina di casa in casa. Era stabilito che andasse il sabato perché il venerdì si faceva il pane. Al povero che bussava alla porta davano il pane, chi aveva un oliveto gli riempiva la bottiglietta d’olio.

A settembre si dava anche il bando per la raccolta dei fichi d’india: Est spassiada sa finugrabia. È aperta la raccolta dei fichi d’india. Dopo le prime piogge, nel periodo della Madonna del Rimedio, i frutti erano lavati e pronti per essere colti con sa cannuga, puliti con sa scovita e messi in su cadinu (un cesto di canne). I fichi d’india si sbucciano tagliando le estremità e facendo un taglio in longitudine; in sardo si dice crastai, notare l’analogia con la castrazione degli animali d’allevamento. Le piante recingevano i terreni (cresuras), sicché i fichi d’india che crescevano dalla parte esterna erano di tutti mentre quelli che crescevano dalla parte interna erano del padrone del terreno, il quale dietro compenso dava l’autorizzazione a prenderli a chi ne voleva in abbondanza per fare sa sabaSa saba è fatta con la polpa e il succo cotti ai quali si aggiunge la scorza d’arancia. Si usava, come quella fatta con l’uva, per fare dolci come i pabassinus o per fare merenda insieme al pane. I fichi d’india che avanzavano si davano al maiale per farlo ingrassare prima della macellazione, che avveniva d’inverno.

 

 

 

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