LA GRANDE GUERRA, IL RITORNO DEGLI EROI: GIUSEPPE CORRIAS

di DARIO DESSI’

Stanno per trascorrere cento anni da quando, con questo barchino, la notte tra il 13 e il 14 maggio 1918, Mario Pellegrini, Antonio Milani, Giuseppe Corrias e Francesco Angelino, decorati per la bella impresa, con la medaglia d’oro, superarono le prime ostruzioni del porto di Pola.

Furono destinati a rimorchiare il Grillo i M. A. S. 95 e 06, reduci della Beffa di Buccari, sotto la direzione di Costanzo Ciano, organizzatore dell’audace impresa, coadiuvato dal tenente di vascello Bernardinelli.

Le torpediniere nove e dieci avevano il compito di scortare la piccola spedizione fino a uno specchio d’acqua prestabilito, dove sarebbero rimaste ad attenderla.

 

”Stamane è giunto il marinaio cagliaritano, decorato di Medaglia d’Oro. 

Egli fu compagno del Comandante Pellegrini  nell’impresa di Pola. 

Alla stazione di Cagliari c’era una gran folla, fra cui i sodalizi con bandiere. 

Porsero saluti all’eroico marinaio Il Commissario regio Manno, il presidente della deputazione Provinciale Sulis, il deputato On. Congiu, il Segretario Generale delle Opere Federate Carboni Boj, il Presidente della camera di Commercio Pernis, i membri della Società Dante Alighieri e del Comitato di resistenza.

Una folla plaudente accompagnò il Corrias, che fu fatto salire in automobile insieme con la sua vecchia madre e altri congiunti”.

Cagliari 25 dicembre 1918 per telegramma”.

 

Corrias nell’impresa di Pola.

 

“Nel giorno in cui alla Spezia  fu varata la Corazzata Sardegna, e precisamente nel giorno in cui la superba nave prendeva il moto accelerato di discesa le dolci note dell’Ave Maria di Gounod  furono interrotte da un grido che commosse tutti, particolarmente i sardi i quali assistevano alla grandiosa cerimonia. 

Il grido fu questo:  ‘ Va a vendicare Lissa’! E, fu ripetuto anche a Cagliari, a Sassari, alla Maddalena quando ufficiali e marinai visitarono le città dell’isola.

Malgrado la triplice alleanza,  fu questa sempre l’idea fissa dei sardi: che cioè sull’Adriatico un giorno dovesse splendere il sole di Lepanto…

E il giorno venne, dopo inauditi sacrifici e tante prove di valore. 

A Lissa ritornammo vittoriosi, dopo aver violato tutte le piazzeforti austriache! Navigare necesse est. Fu legge suprema anche per i sardi, i quali come nel 1849 entrarono nel golfo di Trieste e nel 1866 si distinsero anche per la sventura, così nei pesanti anni di questa guerra  –  come dimostra Raffio Muffii in un suo interessante libro sulle azioni dell’armata  –  solcarono tutti i mari, con le siluranti e i sommergibili e sfidarono ovunque il nemico e il pericolo”.

 

Sulla diga si leva lo stelo luminoso del segnale lanciato dal comandante Mario Pellegrini per indicare alle navi di scorta e d’appoggio quel che è accaduto. ‘ho silurato una nave ’. Segnale cui segue l’altro. ‘Distruggo  la mia imbarcazione.

Ogni opera di soccorso è inutile.

La prodigiosa avventura così è raccontata da Giuseppe Corrias, nato a Cagliari nel 1893, in una visita  che, dopo le splendide accoglienze ricevute dai suoi concittadini, fece a Ottone Baccaredda,  per moltissimi anni sindaco di Cagliari.

Il comandante Pellegrini  –  cominciò il valoroso marinaio  –  ci aveva detto  –  Ragazzi! Si tratta di fare un bel colpo, una bell’improvvisata a quegli altri, ma si rischia la pelle.  O di saltare in aria, o di andare sott’acqua o di essere fatti prigionieri.  Chi ha fegato mi segua!  E, da tre mesi giorno e notte stavamo allenandoci attorno a un piccolo coso che pareva un giocattolo. 

L’azione doveva farsi contemporaneamente da diverse  navicelle. 

Poi si partì noi soli. Quattro volte tentammo prendere il mare, ma il tempo avverso non ci lasciò proseguire. 

Finalmente il 14 maggio,  il viaggio di piacere, poté compiersi felicemente. 

Eravamo partiti da Venezia alle ore 13.00 rimorchiati da due motoscafi velocissimi, che ci lasciarono  a mezzanotte, a poche miglia da Pola.  Quivi ci avrebbero atteso… se ci fosse stato possibile il ritorno.

Un’ora dopo all’incirca eravamo all’imboccatura del porto, tutto intermittentemente  illuminato da innumerevoli proiettori. 

Scivolammo facilmente sopra un primo ostacolo di reti metalliche a fior d’acqua.  Più oltre  saltammo lestamente altri ostacoli di cavi e di travi.

 Fuoco da ogni parte, fuoco d’inferno.

Una palla di cannone sfiora la poppa del nostro giocattolo. 

Una grandine di mitragliatrice bucherella lo scafo da parte a parte. 

E noi avanti,  avanti sempre, cercando fra le grosse  e piccole navi quella che fosse più degna del nostro saluto. 

Il fuoco era così frequente, così nutrito. ché, per lo spostamento dell’aria,  la nostra povera navicella faceva i salti di un delfino. 

Di più era già piena d’acqua.  Insomma eravamo in pericolo. 

Secondo le istruzioni si doveva dar fuoco a due bombe per distruggere il motore, e, tempo da 14 a 15 minuti lanciare i siluri e gettarci in mare per salvarci a nuoto. Ma ecco ché, appena lanciati i siluri, una formidabile cannonata investe il nostro bordo e manda in aria tutti quanti, giocattolo e giocatori. 

Già lo aveva detto il nostro bravo comandante! 

Deve essere stato un bel volo, ma io non n’ebbi coscienza che quando mi ritrovai in acqua, afferrato ad alcuni rottami di legno.

Passare fra l’estremità della diga e Punta Cristo  –  spazio di cinquecento metri e potentemente difeso  –  sa di prodigioso. 

La rada, all’interno, ha una larghezza che varia da 900 a 1666 metri. 

 Là stanno riunite decine e decine di navi. 

Per circa un’ora  pochi arditi al comando di Mario Pellegrini, rimangono inosservati entro il covo nemico, sotto la minaccia di centinaia di cannoni, fino al momento dello scoppio del siluro, che provoca l’allarme e fa convergere sui nostri fasci di luce e subito ha inizio il fuoco rabbioso delle artiglierie.

Al bagliore dei riflettori, scorsi vicino a me,  rotolando assieme il comandante Pellegrini e il mio compagno Angelici. 

Un cavo d’acciaio e un salvagente furono la nostra salvezza, finché non ci vennero sopra le scialuppe nemiche. 

Eravamo prigionieri e anche feriti, io leggermente alla fronte, più gravemente il comandante, il povero Angelici  con un braccio fracassato, penzoloni, e ben sedici ferite in tutta la persona. Ma, insomma avevamo fatto tutto il nostro dovere. 

Solo che mancava il quarto dei nostri compagni, il Milani.

Così il Corrias finì il suo racconto.

A bordo della nave ammiraglia fummo ricevuti con gli onori delle armi, vale a dire colle rivoltelle spianate. 

Ci perquisirono, c’interrogarono, ci spogliarono, ci rivestirono di sacco, con gli zoccoli di legno ai piedi.  Parlavano tutti italiano, anzi l’istriano. 

Volevano sapere chi eravamo, quanti eravamo, com’eravamo entrati, come pensavamo di uscire, dove fosse la flotta etc etc. Erano curiosi insomma e parevano storditi. 

Inteso che io sono  di Cagliari, in Sardegna, uno saltò su a dire: 

Non è vero! La Sardegna non esiste; tu sei un austriaco e sei un traditore!

E, come tale mi schiaffarono in carcere (il carcere di Sauro) a digiuno perfetto per tre giorni filati interrogandomi per ben 16 volte, promettendomi o la fucilazione o l’impiccagione e mandandomi anche un prete che mi voleva (diceva lui) confortare prima di  andare sottoterra!

Questo non era sta previsto dal nostro comandante. 

Quando  furono persuasi che la Sardegna esiste, che io non ero un austriaco, né un traditore, mi favorirono il rancio: una fetta di pane nero, piuttosto amaro, e un brodo di paglia d’orzo.

Ricordo che dallo spioncino della cella venivano a osservarmi signore e signorine eleganti, come se fossi una bestia feroce. 

Ricordo di qualche busta,  che non lascia senza risposta. 

Ricordo soprattutto la fame!  Questa  fu la sola confessione che mi strapparono di bocca.  Poi fui spedito a un campo di concentramento, poi a un altro presso il confine germanico, vicino a Lienz. 

Infine arrivò improvvisa  la liberazione: viva l’Italia! 

Ed  ebbi la gioia d’incontrarmi, al ritorno, col nostro bravo comandante e con il nostro quarto compagno d’avventura, il Milani e di sapere il povero Angelici, mutilato, già restituito alla patria. 

E, neanche questo aveva preveduto il nostro bravo, buono, valoroso comandante. E, così finisce il drammatico racconto del Corrias, al quale furono concesse la Medaglia d’Oro, le Palme Francesi e altre onorificenze.

 

Motivazione Medaglia d’Oro.

 

Corrias Giuseppe, da Cagliari, marinaio scelto.

 

“Con sublime spirito di sacrificio e sommo disprezzo d’ogni pericolo si offriva volontario per formare l’equipaggio di un motoscafo destinato a forzare il porto militare di Pola. 

Con ammirevole freddezza coadiuvava il suo comandante nel forzamento della base nemica, fulgido esempio di virtù militari e di devozione al dovere”.

Notte sul 15 maggio 1918.

 

 

 

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