AL TERMINE DEL 1918, QUANDO FINALMENTE EBBE A CESSARE LA GRANDE GUERRA, LA SARDEGNA SEMBRAVA NON APPARTENERE ALL’ITALIA

di Dario Dessì

Del gran flusso di denaro per le forniture belliche, si è risaputo, ne avevano beneficiato soprattutto le regioni a Nord, quelle che in seguito avrebbero formato il  così detto triangolo industriale, che comprenderà il Piemonte, la Liguria e la Lombardia.

In Sardegna   arrivava  solo qualche briciola proveniente dall’industria estrattiva, carbone e altri minerali, la quale, come noto, era completamente gestita da capitali stranieri e continentali.

Qualche profitto si ricavava dall’esportazione di bestiame, lana, pellami, formaggio.

Per quanto attiene l’agricoltura, i sardi non avevano mai potuto trarre dal loro lavoro una disponibilità finanziaria degna di rilievo e per loro  era abituale  pagare i debiti  in natura, cioè al momento in cui venivano raccolti i cereali e quando era tempo di vendemmia o di bacchiatura delle olive.

Carlo Emanuele III di Savoia Torino 1701  –  1773, forse l’unico sovrano del casato, dei Savoia che meriti rispetto e riconoscenza da parte dei sardi, aveva rifondato le Università di Cagliari e di Sassari e aveva creato i monti granatici.

I monti  granatici o frumentari non erano altro che  magazzini, dove venivano accumulate quantità di granaglie e questo  permetteva di anticipare  ai contadini, privi di quattrini, quanto era  necessario per la semina. 

I cereali ricevuti  si restituivano al momento del raccolto e si eliminava in tal modo  qualsiasi forma di usura.

Longu che s’annara mala:  Lungo come un annata cattiva era un detto una volta assai ricorrente in Sardegna.  

Il trascorrere lento e implacabile del tempo portava alla mente quelle annate terribili di carestia dovute alle condizioni metereologiche avverse che comportavano la penuria o l’eccesso di piovosità, il gelo e la grandine, l’arrivo delle cavallette dall’Africa, la filossera e la peronospora con gravi conseguenze per i raccolti, che erano di natura prevalentemente cerealicola.

A parte lo spettro della fame che metteva a rischio la sopravvivenza della popolazione a volte un’annata cattiva e la mancanza delle semenze, compromettevano  anche la semina  negli anni a seguire.

Quei prolungati periodi di carestia furono, una piaga dolorosa per i sardi, soprattutto quando si verificarono  in concomitanza con l’insorgere della peste nei secoli  XIV, XV, XVI e XVII. 

Durante la Grande Guerra, inoltre, lo svuotamento delle campagne causato  dagli arruolamenti massicci (100.000 su meno di 900.000  abitanti), la mancanza di manutenzione delle opere di irrigazione e la non cultura delle terre abbandonate  aveva favorito  un abnorme  sviluppo della zanzara anofele e quindi della malaria e di altre patologie endemiche.   

Ai numerosi caduti, ai mutilati ai dispersi si aggiunsero quindi i morti per malaria, per tubercolosi ed infine, nell’ultimo anno di guerra, a causa dell’ influenza spagnola.

Le glorie nelle trincee erano state ripagate con tante retorica,  croci e ciondoli, che però non  comportarono alcun beneficio ai fini di migliorare le condizioni di vita dei sardi. Gli interventi in termini d’opere pubbliche, già inadeguate prima del conflitto, erano in sostanza inesistenti.

Esisteva, pertanto, una situazione incredibilmente deficitaria in termini d’acquedotti, fognature, cimiteri e scuole; mentre si contavano 366.000 analfabeti su una popolazione che era poco più del doppio. 

In Sardegna, nonostante la distanza dai fronti giuliani  e veneti,  gli anni della guerra non erano stati  per niente facili. 

Le donne e gli uomini anziani avevano condotto una vita grama, aggravata da certe situazioni d’imposizione e di requisizione al limite del sopruso, dalla mancanza assoluta di certi generi di prima necessità e dal continuo aumento del costo della vita. 

La storia di due coniugi, entrambi maestri elementari, apparsa  su  “Il Risveglio dell’Isola”, quotidiano socialista di Cagliari, del 5 luglio 1918 può forse dare un idea della difficile situazione economica nell’isola. 

Un nucleo familiare di nove persone risiedeva a  Sanluri,  uno dei comuni più prosperi della Sardegna, e disponeva di ben due stipendi per la sopravvivenza di: “due persone anziane, due adulti, tre giovani, due bambini “. 

Dopo l’eliminazione del vino, della carne, dello zucchero e del caffè dalla dieta quotidiana, i loro consumi comportavano una spesa mensile di lire 8,80 per quattro libbre di sapone, di 21 lire per l’illuminazione (una candela stearica ogni notte), di quindici centesimi per due chilogrammi di carbone, di 10,50 lire per 1/2 litro di latte al  giorno, di 4,50 lire per l’approvvigionamento di acqua potabile. 

Il costo per la loro alimentazione consisteva in   86 lire per l’acquisto giornaliero di 4 Kg. di pane, 24 lire per l’acquisto di due libbre di pasta, 18,40 per 4 litri d’olio, 4,80 per 2 libbre di conserva, 7,50 per la verdura, 55,80 per un uovo pro capite  ogni giorno. 

La spesa giornaliera per ciascun membro della famiglia risultava pari a 95 centesimi, quella mensile a 257,60 lire. Rimaneva pertanto un passivo di 21,10 lire essendo l’entrata dei due stipendi  pari a  236,60 lire, senza contare 30 lire di pigione. 

E cosa ci sarebbe da dire poi delle linee telegrafiche che non funzionavano e delle strutture ferroviarie equivalenti a un cumulo di ferri arrugginiti, che consentivano ai treni di sferragliare alla impressionante velocità di 20 – 25 chilometri all’ora. 

Il sistema ferroviario era ridotto in uno stato indescrivibile sia perché per anni non si era più provveduto al rinnovo del materiale sia perché per tutta la durata della guerra la  manutenzione era stata quasi inesistente. 

Sulle linee principali, marciavano, alla media di venti, venticinque chilometri  l’ora, due o al massimo tre copie di treni, e il trasporto delle merci, assicurato da appositi convogli, era a completa discrezione dell’ azienda. 

Il logoramento del materiale era tale che, quando nell’agosto del 1919 fu notificato alla Compagnia Reale il preavviso di riscatto, sugli 13.999.468 da corrispondere quale prezzo del materiale  mobile e d’esercizio, fu deciso di defalcare la somma di lire 2.333.930 per spese di riparazioni conseguenti alla mancata manutenzione. 

Drammatica era la situazione sul settore sanitario impotente, per mancanza di mezzi, di attrezzature e di personale adeguato, a far fronte alla dilagante epidemia di spagnola e all’aggravarsi dell’infezione malarica e della tubercolosi.

Così, ad esempio, i morti per malaria, che già rappresentavano nel 1915, quando erano 549, oltre il 25% del totale nazionale  (4220) continuarono a crescere durante gli anni di guerra salendo a 1.137 nel 1916, a 1.987 nel 1917, a 1.872 nel 1918. 

Dai 1.918 morti per tubercolosi nel 1914 si passò a 2.693 nel 1918. 

E’ da ritenere che la febbre spagnola abbia fatto in Sardegna circa 12.000 vittime. Alle difficoltà create dall’aumento del costo della vita si aggiungevano quelle causate  dal passaggio dell’economia di guerra a quella di pace, mentre stavano per rientrare nell’isola centomila soldati che avevano varcato il Tirreno per difendere la patria in terre lontane e sconosciute e che adesso bisognava inserire in un tessuto produttivo del tutto inesistente, quando  la crisi era in continuo aumento e i treni correvano alla velocità di 15 chilometri all’ora, impiegando anche 15 ore per percorrere la distanza tra Sassari e Cagliari. Questo, come già detto prima, era da attribuire al pessimo stato delle ferrovie isolane. 

Per anni non si era provveduto al rinnovo del materiale e alla sua manutenzione. 

Per l’isola non era stato stanziato nemmeno un centesimo, mentre 1.800 milioni erano  stati stanziati per le reti continentali. 

Unico compenso ai sardi, per le sofferenze patite nei tre anni di guerra, l’aumento delle tariffe entrate in vigore proprio in quei giorni.

Pochi erano comunque i treni viaggiatori, mentre la programmazione del trasporto delle merci era inaffidabile e lasciata alla disponibilità e agli umori dei dirigenti delle aziende ferroviarie che affidavano la conduzione dei treni  al personale del Genio Ferroviario Militare, anche se correvano voci insistenti di un’imminente statalizzazione.

Ecco, quindi, a guerra finita, quale disastrosa situazione stavano per trovare in Sardegna  i valorosi fanti della Brigata “Sassari”.

Eppure c’era chi riconosceva    I diritti della Sardegna.

 

Dalla prima pagina dell’Unione Sarda:  “E’ doveroso segnalare una serie di gravi inconvenienti cui da luogo la grave crisi delle comunicazioni ferroviarie e marittime nella Sardegna che pure ha tanto ben meritato dalla Patria durante la guerra.

I treni, provenienti dall’interno, a Golfo Aranci arrivano mezzora dopo la partenza del piroscafo.”

Dopo la prima  metà del mese di giugno  1918 il presidente del Consiglio Orlando comunicava alla camera l’inizio della grande offensiva austriaca di giugno, e la situazione di quasi tutto il fronte italiano impegnato tra l’Astico e il mare Adriatico dall’imponente  attacco nemico. In quegli stessi giorni, sempre alla camera, c’era stato un intervento  dell’onorevole Pala  col seguente ordine del giorno: La camera invita il governo a provvedere seriamente alla sollecita esecuzione delle leggi che interessano la  Sardegna che da troppi anni le attende”.

Rinnova le raccomandazioni ripetutamente fatte, ricordando gli affidamenti avuti tutte le volte dal governo e augurandosi che siano tradotti in atto.

Si deplorano le condizioni in cui versano le ferrovie sarde, condizioni alle quali non si è posto riparo affidandone l’amministrazione all’elemento militare: una sola è la soluzione del problema ferroviario sardo e consiste nell’esercizio di stato.

Raccomanda di migliorare il servizio della linea di  navigazione tra Civitavecchia e Golfo Aranci, per quanto riguarda le merci, specie nell’ultimo tratto tra Golfo Aranci e Terranova (Olbia odierna) che è porto di tanta importanza commerciale.

E’ tempo che anche per la  Sardegna sia  fatta quella giustizia di trattamento alla quale ha diritto, che sia considerata alla stregua delle altre regioni.

La  Sardegna ha dato nobili prove di patriottismo, se si vuole che questa fiamma si mantenga viva, dimostri il governo che la  Sardegna non è dimenticata e abbia un trattamento pari a quello delle altre regioni italiane: faccia il Governo  che i sardi non abbiano a pentirsi di avere compiuto tutto intero il loro dovere”.

 

Rispondeva Nitti, Ministro del Tesoro, dichiarando che la  Sardegna non deve dubitare dell’affetto del governo per essa e del fermo proposito che lo anima di corrispondere alle sue necessità.

“Lo stato ha un gran dovere verso la patriottica isola, ma la Sardegna è anche ricca di  infinite risorse naturali tuttora inesplorate.

 Provvedere alla  Sardegna  sarà dunque nello stesso tempo  l’adempimento di un dovere e un eccellente affare per il nostro paese”.

 

Uno dei primi doveri sarebbe stato quello di dichiarare l’isola Zona Franca.

 

Intanto in prossimità del fiume Piave i  fanti sardi della Brigata “Sassari” stavano combattendo, come al solito con tutte le loro energie e il loro entusiasmo,  tra mucchi di cadaveri e interi reggimenti distrutti, per arginare il disperato furore austriaco nel tentativo di dilagare nella pianura veneta.

 

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