A ROMA PER “COMUNISMO, ADDIO?”, L’OPERA TEATRALE SCRITTA E DIRETTA DA STEFANIA PORRINO (FIGLIA DEL COMPOSITORE ENNIO)


di Antonio Maria Masia

Con un gruppetto di amici del Gremio, ho avuto la fortuna di assistere alla prima di “Comunismo, addio?“ scritto e diretto da Stefania Porrino, al teatro Di Documenti. Ne siamo rimasti entusiasti. Il testo è al contempo divertente e riflessivo, gioioso e malinconico, di racconto e di poesia, sempre coinvolgente ed emozionante. 
Io non so se per Stefania è autobiografico, forse non importa averne la certezza, l’importante è pensare che lo sia, perché la storia che racconta è comunque il percorso di vita di tantissimi, milioni e miliardi di ragazze e ragazzi, che hanno incrociato abbracciandolo, quasi come fede, il comunismo. Credo politico sentito intimamente e moralmente come il riscatto della povera gente, delle classi sociali disagiate, come prospettiva sicura di una equa distribuzione della ricchezza e dell’affermazione della dignità e dei diritti umani. 
La realtà non fu quella attesa e creduta! Le delusioni e le amarezze presero, nel giro di poco tempo, il posto agli ideali iniziali dentro la mente ed i cuori di chi ci aveva creduto.  La ragazza che idealizza il credo politico, da adulta, al confronto delle tragiche esperienze confessate di chi ha vissuto e sofferto sulla propria pelle lo stalinismo, riflette e si ricrede. La ragazza-adulta è magnificamente interpretata da una Evelina Nazzari (figlia del mitico Amedeo), ispirata e commovente, la donna tartara vittima del comunismo reale è Nunzia Greco che poeticamente rievoca ricordi personali e familiari di sofferenza e speranza. Mirabile il contrappunto recitativo fra le due donne. 

Ma la protagonista che nella sua crociera lungo il fiume Dnieper in Ucraina, durante la quale racconta ad un suo amico, in forma di lettere, i momenti ed i sentimenti del viaggio e le emozioni che la memoria sollecita, è, in fondo, portata a non rinnegare completamente le sincere motivazioni dell’antica fede politica, che ancora regge bene nel mondo di oggi, malato di consumismo sfrenato, di egoismo e individualismo. Mondo privo di valori, che con risate amare, battute e banalità di modesto livello, viene dimostrato e reso palese da alcuni cinici compagni di viaggio. L’avvocato arricchito Silvio, interpretato alla grande da uno splendido Alessandro Pala (e in questo caso non mi trae in inganno e campanilismo la comune sarditudine). La moglie cresciuta, come ostentatamente ripetuto, in ambito religioso di orsoline, ma degna del marito in quanto a venature razziste da pervenuta all’abbondanza di beni e risorse, interpretata in maniera convincente e divertente da Carla Kaamini Carretti. Il maturo e buffo dongiovanni, Giannino il livornese, sempre alla caccia di avventure galanti, superficiale e fedifrago a tutto spiano, interpretato benissimo da Giulio Farnese. A fare da compagno musicale e canoro con Evelina, Giuseppe Pestillo con la chitarra e alcune famose canzoni degli anni 70.
Insomma uno spettacolo da non perdere, un opera di elevato spessore di Stefania, degna figlia del grande musicista sardo, il Maestro Ennio Porrino, e della pittrice Malgari Onnis. Applausi ripetuti e spontanei nell’intimo, piccolo e particolare teatro di Documenti al Testaccio di Roma, dove, veramente, ti senti a casa, con i protagonisti così vicini… che quasi li tocchi. 

La morale: prima di giudicare e condannare ricordarsi o leggere questo testo teatrale, ancora in scena fino al 5 novembre, unitamente all’indimenticabile motivazione di Giorgio Gaber: “Qualcuno era comunista, perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa”. Detto da uno che non è mai stato comunista (ma questo non è un merito) che però ha ammirato e amato Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer (anche in questo caso la comune sarditudine non influisce) e che avuto molti ottimi amici: comunisti degni di totale rispetto e stima.

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