BREVE CRONACA DELLA PRESENTAZIONE DELLE RAPSODIE SARDE DI UGO MAGNANTI AL GREMIO DEI SARDI DI ROMA


di Antonietta Tiberia

Si è messo in grembo ai Sardi, nella bella sede di via Aldrovandi a Roma, Ugo Magnanti, per la presentazione della sua ultima fatica, Di Allegorico Miele. Scelta non certo casuale, per una silloge di poesie sottotitolata Rapsodie Sarde, con prefazione di Leonardo Omar Onida (di Sassari), saggio di Efisio Cardoni (di Villacidro), con belle tavole di Stefania Sergi (di Barumini) e introdotto da Francesca Farina (di Bitti) e Antonio Maria Masia (di Ittiri).

Tra gli ospiti venuti ad ascoltare, alcuni poeti amici: Francesca Lo Bue, Terry Olivi, Roberto Piperno, Marzia Spinelli. Ma ce n’erano molti altri che non conosco, nella sala piena. Anche se Dona e Ugo avevano avuto la precauzione di portare con loro anche Dalì (il cagnetto trovatello che conosco dal giorno del suo abbandono nel giardino di Dona): non si poteva certo dire che non ci fosse neanche un cane!

Suggestiva la lettura delle Rapsodie a voci alternate di Ugo Magnanti e Dona Amati. Con Dalì che non mancava di sottolineare a zampate la sua presenza quando Dona, che lo teneva al guinzaglio, mostrava di prestare più attenzione ai versi di Ugo che a lui.

A chiudere la serata, un’ennesima gradita sorpresa: Dona Amati, romana de Roma e testaccina verace, ha cantato alcune strofe della canzone sarda Nanneddu meu, tradotte in italiano da Ugo Magnanti. Il ritornello in lingua sarda lo abbiamo cantato tutti in coro.

Ad allargare i confini aveva provveduto il bravo chitarrista Fausto Ciotti, con i suoi intermezzi scelti tra i ritmi spagnoli e sudamericani di valzer e  ninne nanne.

E per finire, non poteva mancare la degustazione di delizie come pane carasau, formaggio di vera pecora e salame genuino, innaffiato da un generoso Cannonau, offerta dal Gremio dei Sardi, un grembo davvero accogliente.

Non tocca a me esprimere giudizi sulle poesie di Ugo; l’hanno già fatto molto bene i  relatori. Ma lo ringrazio per averci raccontato ancora “il mito isolano”, “la malattia che sa violare il sogno”.

Il suo libro caldo e dorato come il miele mi ha fatto compagnia durante il viaggio di ritorno a casa, a bordo del tram n. 3; arrivata alla fermata della Piramide l’avevo già letto tutto. È stato solo un assaggio, la prima cucchiaiata di quel corroborante, allegorico miele. Ne seguiranno altre.

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