UNA VITA TRA POLITICA, MISSIONI UMANITARIE E RALLY: CLAUDIA ZUNCHEDDU SI RACCONTA

Claudia Zuncheddu


di Eleonora Bullegas *

Per anni è stata l’unica donna pilota in Italia a partecipare a numerose corse automobilistiche nei deserti della Terra, come la Parigi-Dakar, il Rally dei Faraoni, la Parigi-Città del Capo, il Rally di Tunisia, la Parigi-Pechino.  Claudia Zuncheddu, classe 1951, è nata a Burcei, in provincia di Cagliari, e può essere definita una donna dalle mille risorse. Laureata in Medicina e Chirurgia a Milano, è specializzata in Malattie tropicali. Svolge l’attività di medico di base e specialista a Cagliari, dove opera nei quartieri di Castello e Sant’Elia, occupandosi, oltre che dei residenti, anche di cittadini immigrati extracomunitari. È giornalista pubblicista ed è stata anche consigliere comunale a Cagliari nella consiliatura 2006-2011 e poi regionale nella XIV legislatura.  Tra gli anni ‘80 e ‘90 si è fatta conoscere, a livello nazionale e internazionale, come pilota di Rally-Marathon.

Quando e come è nata la sua passione per le competizioni rally? Avevo circa 9 anni e giocavo con una Jeep Willys, una macchina americana di mio padre. Io mi piazzavo al volante e i ragazzini si divertivano a spingerla. Sono stata sempre una donna molto controcorrente. Il mondo maschile l’ho sempre sfidato in modo naturale, nel senso che non mi sono mai sentita inferiore agli uomini. E quando è capitato di occuparmi di qualcosa che, per questioni storiche, era riservato esclusivamente a loro, ho cercato di farlo sempre ai massimi livelli.

C’è qualche aneddoto particolare e curioso legato a una sua gara? Ricordo un soccorso tecnico che feci a un Rally dei Faraoni a un pilota della casa automobilistica Peugeot, che poi vinse la gara. All’epoca il team manager della Peugeot, e poi della Citroën, era Jean Todt. In quell’occasione a una loro auto mancava uno pneumatico. Non ne avevano più di scorta e la loro assistenza veloce andò in panne. Pilota e navigatore erano fermi lungo la pista. Nessuno li avrebbe soccorsi perché era una competizione. Io, invece, mi fermai e chiesi di cosa avessero necessità. Mi dissero che occorreva uno pneumatico che solo io potevo dare loro, perché avevo la stessa macchina. Suscitando le ire del mio navigatore, non esitai neppure un attimo e cedetti la ruota di scorta della mia auto. Per me il soccorso è sempre stato un atto normale. Da medico ho sempre assistito feriti, adulti e bambini, anche durante una gara. Davanti a una situazione di emergenza per me la competizione è sempre passata in secondo piano. Comunque, dimenticai questo fatto. Due mesi dopo però, alla Parigi-Dakar, ci rincontrammo tutti. Ero reduce dalla tappa più temibile, quella del deserto del Ténéré, che successivamente fu abolita per le difficoltà. In questo percorso avveniva una selezione naturale: il 50% dei mezzi si fermavano nelle grandi sabbie. La mia macchina aveva avuto anche un principio di incendio. Non funzionavano più gli estintori e l’auto sarebbe potuta esplodere da un momento all’altro. Con il mio navigatore incominciammo a spalare sabbia per buttarla sopra la macchina, per evitare che le fiamme aumentassero. A un certo punto, arrivò in moto un giornalista giapponese. Aveva un piccolo estintore e ci risolse il problema. Continuai la gara. Arrivai ad Agadez (in Niger), al traguardo, all’una del mattino con l’auto ridotta malissimo. Una volta lì, ci diedero un giorno di pausa per rimettere a posto il mezzo, in modo da poter continuare la gara. A parte il mio navigatore, non avevo meccanici, né assistenza. In quel momento mi occorreva una pinza freni che aveva solo la Peugeot. Andai da Jean Todt per chiederla. Lui mi disse che non dovevo preoccuparmi di nulla e che avrebbe mandato i suoi meccanici a prendere la mia auto. Tremai al pensiero di affidarla ai meccanici di un colosso come la Peugeot, perché significava che avrei dovuto pagare cifre astronomiche. Mi portarono via l’auto e me la riportarono con tutti gli pneumatici nuovi di zecca. Pensai fosse un miracolo. Andai a chiedere quanto dovevo pagare. Lui mi sorrise e mi disse che loro erano miei debitori a vita perché li avevo salvati al Rally dei Faraoni. Un altro aneddoto riguarda Clay Regazzoni. In una gara mi aveva messo a disposizione la sua assistenza. Ricordo che poco dopo la sua partenza, lo vidi ritornare indietro. La sua auto l’aveva abbandonato. Con lui, ovviamente, si ritirò anche l’assistenza. Nonostante questo, mi classificai trentesima su 167 equipaggi. Per me era stato comunque un eccellente risultato, anche perché riuscii a terminare la prova speciale ventisettesima. Con Clay si instaurò una bella amicizia. Quando pubblicai il libro su “Parigi-Pechino sulle orme di Marco Polo”, venne a Cagliari per presentarlo.

Da oltre 15 anni lei è impegnata in azioni di sostegno umanitario a fianco del Popolo Tuareg del Niger, del Burkina Faso e del Mali. I Tuareg del Mali li considero come la mia seconda famiglia. Alcuni anni fa, il capo Tuareg, Aboubacrine, era gravemente malato. Venne in Sardegna per curarsi e poi rimase per diverso tempo ospite a casa mia. Era una persona attentissima e intelligentissima. Per me, lui è stato un uomo straordinario. Io tendo ad avere un’alimentazione ricca di verdure e di frutta. Nel periodo in cui era a Cagliari, lo notò e si preoccupò molto perché da loro, invece, mi sono sempre dovuta adeguare a un’alimentazione molto più grassa. Quando tornai in Mali, decise di chiedere alla sua prima moglie, Maryam, dalla quale aveva divorziato e che non vedeva da circa 26 anni, di ritornare nell’accampamento per cucinare per me. Tra me e Maryam è poi nato un bellissimo rapporto di amicizia. Un giorno, lei mi confidò che mi aveva vista in un’intervista fatta in occasione di una gara. Mi disse che era rimasta colpita dal fatto che una donna corresse in un rally.

Nel 1981 lei ha fondato il “4×4 Sardegna Club”, la prima associazione di “fuoristradisti” in Sardegna. È stata istruttore nazionale della Fif, la Federazione nazionale fuoristrada. Intuivo che con l’avvento dei fuoristrada anche la nostra natura sarebbe stata a rischio. Se non si preparano le persone a un uso adeguato dei mezzi, questi possono arrecare dei danni all’ambiente. Il club è nato con un’impronta naturalistica. La scuola è stata un motivo per insegnare a utilizzare i fuoristrada non solo per il divertimento, ma anche per effettuare soccorsi e interventi in occasione di incendi e calamità naturali.

Lei ha iniziato a viaggiare in giro per il mondo fin da giovanissima. A quanti anni ha fatto il primo viaggio e quale è stata la sua prima meta? Prima dei vent’anni ho compiuto il periplo del Mediterraneo con un maggiolone Volkswagen, la mia prima macchina di proprietà. Il viaggio durò un mese e mezzo.

Esperta di deserti, lei è anche una conoscitrice delle popolazioni nomadi del Sahara e del loro ambiente. Cosa l’attrae della loro cultura? Credo che il genere umano abbia, fondamentalmente, due radici. Ci sono gli appassionati dell’Oriente e quelli che hanno un forte richiamo per l’Africa. Ho un senso di appartenenza fortissimo. Quando sono in Africa è come se mi sentissi a casa, nei miei percorsi. Il rapporto che ho con i Tuareg è di tipo familiare e loro si rapportano nei miei confronti come se fossi una di loro”.

Nel 1985 ha effettuato un trekking sulle Ande Boliviane attraverso i ghiacciai perenni sino alla foresta equatoriale. Che ricordi ha di quella esperienza? La ricordo come un viaggio straordinario. Sulle Ande ci rimasi un bel po’ di tempo. Avevo amici in Bolivia. Se ci penso oggi, ho come la sensazione di avere vissuto un sogno. Ricordo un dimagrimento progressivo e veloce, e la “fame” d’aria. Nell’antico cammino degli Inca, ricordo che ogni tre metri c’era un gradino e che ogni volta, ad ogni gradino, dovevamo fermarci per respirare. L’unico incontro fu con un cercatore d’oro, al quale avevamo chiesto quanto tempo occorreva per arrivare alla miniera di San Francisco. Lui ci rispose che era vicina. A noi, quella miniera sembrava fosse irraggiungibile: ci mettemmo tre giorni di marcia. Con il gruppo, passammo dalla zona dei ghiacciai perenni, attraversando un fiume. Un’amica boliviana scivolò e finì in acqua. Pensai che si sarebbe ammalata. Invece, all’improvviso, attraversando quel fiume, siamo passati incredibilmente da un clima freddo a uno molto caldo, al punto che l’abbigliamento di questa amica si asciugò velocemente.

Nel 1986, con lei, per la prima volta una donna entra nelle selezioni del Camel Trophy, sfatando l’immagine dell’avventura rigorosamente maschile. Lei arrivò, addirittura, alla finale nazionale. Cosa accadde? Le scelte vennero fatte su 24mila curricula. Dopo una serie di selezioni ulteriori arrivammo in 120 e, tra questi, arrivai anche io tra i primi 8. Eravamo tutti di pari livello. Lì però si creò un problema perché, per un veto internazionale dell’organizzazione del Camel, nessuna donna, neppure giornalista, poteva arrivare in finale. I giornalisti che seguivano la fase mondiale erano solo uomini. In quel periodo l’uomo immagine del Camel Trophy era un bellissimo modello tedesco e biondo. La giuria non riusciva a bocciarmi perché ero brava anche alla guida. Al Motor Show di Bologna mi diedero un fuoristrada. Aveva un difetto alla frizione. Eppure, andai avanti. C’erano 20mila spettatori del Motor Show che aspettavano le mie prove. I giornalisti mi cronometravano anche sul passaggio nella corda. L’organizzazione internazionale del Camel era impaziente e in difficoltà. Io ero ancora lì, ma a un certo punto arrivò il momento del verdetto. Dissi chiaro e tondo che mi ero divertita e che sapevo bene che il loro giudizio era insindacabile. Tra i fischi del pubblico presente, scelsero, come previsto, un equipaggio maschile. La Camel decise poi di sponsorizzarmi una spedizione scientifica antropologica sullo studio dei popoli dei massicci sahariani che erano i Tebu.

Tra mille avventure, la sua professione di medico e gli impegni sociali e umanitari, lei ha trovato il tempo per dedicarsi anche alla politica. Attualmente è segretario del movimento indipendentista Sardigna Libera. Di tutto ciò che ha fatto fino ad ora, c’è qualcosa di cui si è pentita? Vanto un’ingenuità politica: aver fatto gruppo con Sel nella XIV legislatura del Consiglio regionale. Il banco di prova, dopo 5 anni, è stata la mia candidatura da indipendente nelle loro fila. Ho assistito a un uso cinico e spregiudicato di questa esperienza politica, da parte del gruppo dirigente sardo di questo partito italiano che, nella prassi politica, ha purtroppo dimostrato di non essere migliore di altri.

* La Donna Sarda

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