DEPISTAGGI, INTERESSI, SUPERFICIALITA’: MORIRONO 140 PERSONE, MA LA VERITA’ A 23 ANNI DI DISTANZA E’ ANCORA AVVOLTA NELLA NEBBIA. MOBY PRINCE, LA STRAGE DELLE MENZOGNE

la tragedia nel porto di Livorno del 10 aprile 1991


 
di Marco Pratellesi

Una partita di calcio, la nebbia, i depistaggi. Tante menzogne, poche verità. E  una certezza: 140 morti. E’ quanto resta a 23 anni dalla tragedia del Moby Prince, scontratosi con la petroliera Agip Abruzzo al largo di Livorno, la notte del 10 aprile 1991. Non sono bastate due inchieste, l’ultima chiusa nel 2010, a fare chiarezza. La verità giudiziaria parla di un “tragico incidente”, determinato in parte da “errore umano” e in parte da “fattori casuali concomitanti”, a cominciare dall’insorgenza di un “particolare tipo di nebbia”. Tutti assolti. Non ci sono colpevoli per quei 140 morti, in viaggio da Livorno a Olbia, inghiottiti da un rogo che i soccorsi non sono riusciti a domare: la più grande tragedia della Marina mercantile italiana dal dopoguerra. Tutto rimane avvolto nella nebbia, sulla cui effettiva presenza si sono divise le testimonianze, ma che è stata l’ipotesi investigativa su cui è incardinata la “verità giudiziaria”. A diradare le nebbie che ancora avvolgono la storia del Moby Prince ha provato un giovane regista fiorentino, Manfredi Lucibello, che all’epoca della strage aveva solo 7 anni. “Avevo un vago ricordo di quei fatti”, racconta oggi. “Poi, nel 2009, vidi un servizio che mi colpì. Tutto era molto più grave di quanto pensassi e ancora molto confuso, con tante menzogne e poche verità. Mi appassionai alla storia”. Cominciano le ricerche negli archivi Rai, tra le tante televisioni private che all’epoca arrivarono per prime sul posto, tra video amatoriali e i documenti desecretati dalla procura a conclusione delle indagini. Nasce così “Centoquaranta – La strage dimenticata”, il documentario di Manfredi Lucibello, prodotto da Pulse Media di Roberto Ruini e presentato in anteprima mondiale alla 54esima edizione del Festival dei Popoli di Firenze.

La partita Ore 20,45, Camp Nou. Barcellona e Juventus si giocano l’andata di semifinale della Coppa delle coppe. Al fischio di inizio il Moby Prince è ancora nel porto di Livorno per le operazioni di imbarco. Finirà 3-1. Per i bianconeri segna Casiraghi (13′). A difendere i pali c’è Stefano Tacconi. Davanti la coppia Baggio-Schillaci. All’indomani della tragedia i media formulano la prima ipotesi: errore umano. In plancia di comando erano distratti, guardavano la partita e non si sono accorti della petroliera. Ipotesi che poi sarà smentita dall’unico superstite, il mozzo Alessio Bertrand: comandante e ufficiali erano al loro posto, dove si sono fatti portare alcuni panini per la cena. L’ipotesi della distrazione per la partita, battuta dai media, resterà tuttavia incardinata nell’immaginario collettivo, senza peraltro trovare alcuna conferma ufficiale.

La nebbia E’ il vero manto che tutto avvolge e tutto nasconde in questa storia ancora puntellata sulle incertezze. Anche nei processi emergono testimonianze a favore e contro questa ipotesi. La nave è salpata dal porto di Livorno alle 22,03. Il primo “Mayday” partito dalla Agip Abruzzo è delle 22,25. Si parla di collisione, di una “bettolina” che si è schiantata con la petroliera, di un incendio furioso a bordo. L’avvisatore marittimo portuale di quella notte parla di mare calmo e visibilità discreta. Poi c’è il video D’Alesio, ripreso da una terrazza da un cittadino, che dimostra che la nebbia, se c’era, non era evidente. Un mistero che non è mai giunto a una conclusione certa. “La nebbia è la grande giustificazione di questo caso”, dice il regista. “Le indagini e i processi sono state incardinate sul presupposto che c’era. Ma se proviamo a togliere la nebbia cambia tutto. Un mantello che ha protetto tante persone, tante cause diverse ma accomunate dall’obiettivo di coprire o minimizzare le responsabilità”. Inoltre, anche ammettendo la presenza di un banco di nebbia, quali giustificazioni si potrebbero imputargli? Non occorre essere marinai esperti per sapere che la nebbia in mare non è un vero ostacolo, non almeno da quando la navigazione è strumentale. Ci sono radar, segnalatori visivi e acustici. Attrezzature sofisticate in dotazione sia alle petroliere sia ai traghetti di linea.
Il terrorismo E’ uno degli aspetti più clamorosi e inquietanti della vicenda. Secondo la ricostruzione ufficiale, quella notte, la Moby Prince, complice un improvviso banco di nebbia, affonda la prua nella Agip Abruzzo, alla fonda 2,7 miglia a largo del porto di Livorno. Il petrolio fuoriuscito dalla nave investe la prua del traghetto e si incendia trasformando il Moby in una tomba galleggiante. Ma in una delle tante ispezioni successive alla tragedia, i periti trovano tracce di Semtex, sotto la linea di galleggiamento, nell’area sottostante la plancia di comando. Il Semtex è l’esplosivo delle stragi di Stato. Utilizzato per l’attentato al treno Italicus nel 1972 e in via D’Amelio a Palermo, è il simbolo della strategia della tensione che ha segnato la storia della Prima Repubblica. Ma, nonostante le tracce, i periti non sono riusciti a stabilire se ci fosse esplosivo a bordo della nave. Così le ipotesi si riducono a due: 1) C’era il Semtex all’interno del traghetto; 2) Se così non era, bisogna capire chi lo ha messo in un secondo momento e perché. Uno dei tanti depistaggi che, come vedremo, hanno inquinato i venti anni di indagini sul Moby. Un tentativo di spostare la responsabilità dei risarcimenti sullo Stato? Domande che ancora non hanno trovato una risposta né responsabili.
La “bettolina” e le posizioni variabili Il “Mayday” parte alle 22,25 dalla petroliera Agip Abruzzo. Ed è un Mayday forviante per tre motivi: 1) Indica in una “bettolina” l’imbarcazione entrata in collisione con la nave; “E’ stato come scambiare un insetto con un elefante”, dichiarerà poi Angelo Chessa, figlio del comandante del Moby. 2) Il comandante dell’Agip concentra quindi le richieste di aiuto sulla petroliera, “siamo in fiamme”, contribuendo ai ritardi nei soccorsi alla nave passeggeri, individuata solo un’ora e venti dopo la collisione. 3) Indica la posizione della petroliera con “la prua a sud”. Una circostanza che, secondo la ricostruzione dei periti, in base alle coordinate, posizionerebbe la nave alla fonda in un cono d’acqua protetto dal divieto di ancoraggio e pesca per non intralciare il canale di uscita dal porto. In un secondo momento, la nave viene posizionata con la prua a nord. Dove sta la verità? Impossibile accertarlo. Anche perché, in seguito, il comandante Renato Superina, si avvale della facoltà di non rispondere. Inoltre, la petroliera non aveva le luci accese, circostanza che, di nuovo, pone più di un dubbio sull’effettiva presenza della nebbia quella notte.
I sabotaggi e i depistaggi Siamo così giunti ai depistaggi. Le manomissioni, che saranno costanti, cominciano fin dalle ore successive il ricovero in porto del Moby. Il giorno dopo la strage, il comando del pilota automatico della Moby viene modificato da manuale a automatico. Il colpevole di questa manovra, poi individuato, si dichiarerà reo confesso. Dal traghetto spariscono l’orologio, la scatola nera, vengono sostituiti vari pezzi, comprese alcune valvole in plastica (una vera e propria offesa all’intelligenza trattandosi di una nave completamente bruciata). Dopo sette anni, la nave, semiaffondata nel porto di Livorno, viene recuperata e portata in Turchia per la demolizione. Un ultimo viaggio su un mare di misteri. Tra le ipotesi emerse per spiegare il caos ingiustificabile di quella notte, c’è anche il traffico d’armi. Una tesi emersa nel 2006. Mentre il Moby usciva dal porto, l’attività in quello specchio di mare era talmente intensa da far perdere il controllo dei radar. Si era parlato di tre navi americane di rientro dalla Guerra del Golfo. Ma, come poi è stato accertato, le navi americane in navigazione in realtà sarebbero state sette. E c’era la October 2, nave italo-somala che doveva fare la spola per il pesce, e sulla quale avrebbe poi indagato la giornalista Ilaria Alpi per presunti commerci di rifiuti tossici e armi. E c’era la nave “fantasma” Theresa, mai rintracciata, salvo poi accertare che si trattava della Gallant 2, nave militare Usa che dopo l’allarme si allontanò dalla zona.

Soccorsi inefficaci E’ l’ultimo aspetto, il più drammatico, di questa intricata vicenda. Un’ora e venti per rendersi conto che c’era una nave alla deriva, in fiamme e carica di persone (66 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri). Una “colpa” che si è cercato di cancellare  sostenendo che dopo 30 minuti a bordo erano tutti morti. Circostanza smentita  dalle analisi dei periti. Nonostante l’incendio, la vita a bordo sarebbe durata per ore, come dimostrerebbe anche un video ripreso da un elicottero dei Carabinieri con l’immagine di un passeggero. Il suo corpo, sdraiato sulle lamiere, nel filmato è ancora integro. La mattina sarà ritrovato nella stessa posizione, ma carbonizzato.

Commissioni parlamentari Il documentario di Lucibello, “Centoquaranta – La strage dimenticata”, mette in fila con distacco tutte le ipotesi: le poche certezze e le tante menzogne, certe, di questa storia. Un racconto filmico, senza pregiudizi, senza sposare alcuna tesi, dal quale emerge con forza un quadro di responsabilità molteplici. In tutti i pezzi rimessi insieme da Lucibello c’è un po’ di verità. Verità che chi doveva giudicare non ha saputo cogliere, forse, con tutta l’evidenza dei fatti. Adesso due richieste pendono in parlamento per la riapertura del caso. Una commissione di inchiesta è chiesta dai deputati di Sel alla Camera e una dal Movimento 5 Stelle al Senato. Sono forse l’ultima speranza di fare luce sulla strage e dare un minimo di giustizia ai familiari delle vittime. “La verità è che chi doveva cercare giustizia aveva gli elementi per farlo, ma non l’ha fatto”, racconta Manfredi Lucibello. “Arando gli archivi ci si rende conto che ci sono piccoli sprazzi di verità, ma sono stati affrontati con troppa sufficienza”. Esempio eclatante di come sono state condotte le indagini è il caso della nave Theresa che, dopo essere apparsa nei canali di soccorso, “This is Theresa moving out”, è sparita nel nulla. Per anni si è cercato di rintracciarla inutilmente. Bastava confrontare la registrazione della Theresa con la voce che proveniva dalla Gallant 2, nave americana che operava nella zona, per rendersi conto che si trattava della stessa unità. Adesso restano il dolore dei familiari delle vittime, che hanno dato vita a due associazioni: “140”, presieduta da Loris Rispoli, e “10 Aprile” di Angelo Chessa, figlio di Ugo Chessa, comandante del Moby Prince. Restano i 74 minuti del documentario di Manfredi Lucibello, frutto di due anni di lavoro, e un video molto più breve. E’ il “video Canu”, sopravvissuto al rogo: vi si vede la piccola Ilenia Canu, un anno, sgambettare nel salone del Moby Prince poco prima della collisione. Il video amatoriale, girato dal papà, doveva testimoniare il viaggio verso la Sardegna dove il nonno, che non l’aveva mai incontrata, aspettava di fare la conoscenza della nipotina.

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