E’ A CAPO DELLA PIU’ GRANDE ORGANIZZAZIONE IN ITALIA A CUI ADERISCONO LE PRINCIPALI ASSOCIAZIONI REGIONALI DEGLI EMIGRATI: INTERVISTA ALL’ONOREVOLE FRANCO NARDUCCI

nella foto l'on. Franco Narducci


di Elisa Sodde

L’UNAIE (Unione Nazionale Associazioni Immigrati Emigrati), la più grande organizzazione in Italia a cui aderiscono le principali associazioni regionali espressione di oltre cinquecento circoli di italiani nel mondo, lo scorso 25 ottobre a Comano Terme (TN), ha proceduto al rinnovo delle cariche sociali riconfermando come Presidente l’On. Franco Narducci ed eleggendo alla carica di Vice Presidente Vicario Aldo Aledda, un nostro corregionale assai noto nel mondo dell’emigrazione. Posto che le idee e le attività dell’autore del fondamentale libro sull’emigrazione sarda – I sardi nel mondo. Chi sono, come vivono, che cosa pensano, Ed. Dattena, 1991sono spesso comparse su queste colonne e avremo sicuramente occasione di tornarci in futuro, oggi vogliamo focalizzare la nostra attenzione sul Presidente  Narducci che, da storico segretario del Consiglio Generale degli italiani all’estero e, per due legislature, parlamentare eletto nel collegio estero, costituisce una delle punte di diamante dell’associazionismo italiano nel mondo.

      On. Narducci, parliamo dunque dell’emigrazione italiana verso il continente europeo e, più in generale, verso i paesi esteri: può spiegarci qual è la reale entità di questo fenomeno e quale apporto possono dare al nostro Paese gli italiani all’estero in questo momento di forte criticità economica e sociale? La diaspora italiana nel mondo è quantificata dagli esperti in circa 4,5 milioni di cittadini italiani a tutti gli effetti e oltre 60 milioni di persone, ma occorre precisare che quest’ultimo dato è sicuramente sottostimato. Se ieri occorreva spiegare in che cosa esattamente potesse consistere il vantaggio che questa comunità significa per l’Italia, a parte le rimesse degli emigrati, oggi – nel mondo globalizzato – è sufficiente riflettere che gran parte di queste menti pensano all’Italia ancora con affetto e orgoglio. Il recente esempio del neoeletto sindaco di New York, Bill Di Blasio – prodigo nel richiamare le sue ascendenze italiane – dovrebbe dimostrarlo. Oppure Massa, che ha ottime chance di succedere alla Kirchner come presidente dell’Argentina e non dimentica mai le sue origini italiane, conferma come i nostri connazionali all’estero non sono più gli emigrati della prima metà del Novecento, e per certi fino alla fine degli anni ‘70, ma una realtà profondamente cresciuta e dalla quale possono giungere importanti investimenti e prestigio all’Italia, a patto che la politica e le Istituzioni sappiano cogliere la predetta opportunità.

      Qual è il suo giudizio sulle politiche attuate ora dallo Stato italiano verso i nostri connazionali all’estero e, di contro, sull’emergenza immigrazione che nuovamente si trova ad affrontare il nostro paese? Sembra che l’umanità, da quando è divenuta stanziale, abbia problemi a stabilire un giusto rapporto tra coloro che si muovono per andare fuori e quelli che cercano di entrare in una determinata nazione. Quindi il problema è generale e riguarda molti paesi, pensiamo al dibattono negli Stati Uniti – creato, non dimentichiamolo, da emigrati – e la Cina davanti a questo problema: entrambi tendono a chiudere sempre più le proprie frontiere, facendo eccezione solo per chi arriva con capitali o con elevate professionalità. La caratteristica dell’Italia, tuttavia, è che non riesce a scorgere in questo campo un’opportunità per realizzare politiche di più largo respiro. Per esempio, la Cina trae l’ottanta per cento dei suoi investimenti dalle aree del mondo in cui sono più consistenti e ben inserite le proprie comunità di emigrati. È evidente che il governo lavora in quella direzione. I nostri governanti, invece, già quando si recano all’estero in missioni economiche, mostrano una forte propensione a scordare gli italiani del posto o si limitano a incontri puramente formali, senza mai assumere impegni precisi e riscontrabili. Probabilmente ciò è parte della miopia della nostra classe politica non solo in questo settore.

      Cosa può dirci dei sardi nel mondo: ha potuto rilevare la presenza di profili problematici specifici fra i nostri isolani che decidono di stabilirsi oltre i confini nazionali? Particolari profili problematici non direi; piuttosto, posso sicuramente affermare di avere – sia all’estero che nel paese in cui vivo, la Svizzera – un gran numero di amici sardi con cui ho continue relazioni e con i quali ho sempre lavorato con piacere perché trovo in loro tanti valori comuni a quelli della mia terra d’origine, il Molise: l’amicizia, la tenacia, l’importanza della parola data, la serietà, l’attaccamento al lavoro, ecc.

      Lei è stato più volte in Sardegna, anche in veste privata: quali sono le caratteristiche della nostra Terra e dei sardi che più la colpiscono o l’affascinano? Intanto quelle che ho appena detto. Apprezzo molto anche la loro discrezione e il sincero attaccamento per la loro terra che mi ricorda quello che disse un grande scrittore di cui ora non mi sovviene il nome, e cioè che non si può essere cittadini del mondo se non si ha un profondo legame con la propria terra. Un pensiero che io interpreto in questi termini: solo chi mostra un profondo attaccamento alla propria terra può capire e apprezzare quello che provano i residenti nei paesi stranieri per il loro suolo, e perciò è in grado più di altri di rispettarli, capirli ed essere anche capace, attraverso loro, di amare quella che, anche per lui, è diventata la sua nuova terra.

      In base alla sua esperienza, quali suggerimenti si sente di dare ai sardi che pensano di andare a cercare lavoro all’estero e alle associazioni che li rappresentano? Per quanto l’Onu calcoli in oltre duecentocinquanta milioni la popolazione mondiale che si muove alla ricerca di migliori condizioni di vita, a causa di guerre, povertà, mancanza di lavoro, cambiamenti climatici, ecc., la possibilità d’inserirsi in un paese straniero è legata sempre a grandi sacrifici e sofferenze. Non a caso le statistiche ci dicono che, tirando le somme in tutti i grandi flussi migratori, la metà di chi è uscito rientra nel paese di origine. Le possibilità d’inserirsi in un paese straniero sono inversamente proporzionali a quelle d’inserirsi nel proprio. Più si è “costretti” a stare fuori, più si troveranno la forza e la determinazione a sistemarsi in tutti i modi nel paese di destinazione. Oggi chi vuole espatriare dai ricchi paesi del primo mondo, come il nostro, per quanto si trovi in momentanea difficoltà, non è nelle condizioni degli emigrati italiani dell’Otto e Novecento. Oggi c’è sempre una famiglia che può risolvere i problemi primari e, se si ha buona volontà, una sistemazione prima o poi la si troverà nel proprio paese. Il fatto è che, paradossalmente per un mondo che si definisce globalizzato, le frontiere dei paesi che un tempo ricercava la forza lavoro nell’immigrazione tradizionale europea si chiudono sempre di più. I governi sono sempre più avari di visti, accolgono solo determinate professionalità oppure imprenditori con capitali. Tutto ciò rende arduo trasferirsi all’estero per periodi di breve durata e, per giunta, competere con un mondo di immigrati provenienti dai vecchi paesi del terzo mondo che, come i nostri vecchi emigranti, si adattano maggiormente a svolgere i lavori più umili, accettano qualsiasi condizione di vita e di alloggio e salari estremamente bassi. La competizione, pertanto, si sposta sui livelli sia accademici sia professionali, anche se lì si scontra con quella dei residenti. Che cosa fare allora? Studiare e prepararsi professionalmente sempre di più perché, anche in una logica europea di libera circolazione sul territorio, sarà più semplice inserirsi negli altri paesi dell’Unione. Il problema, poi, è aggravato dalla particolare situazione italiana che, non investendo nella ricerca scientifica, non avendo un sistema di formazione professionale alternante scuola-lavoro e scoraggiando l’ingresso di capitali e imprenditori esteri a causa dei mai risolti nodi strutturali e amministrativi, non favorisce la circolazione di cervelli e professionalità ma solo la loro perdita a favore degli altri paesi. 

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