Storia e leggenda "de sa femmina accabadora": l'eutanasia nella tradizione popolare sarda

di Claudia Mameli

 

Dice Hans Jonas che "il diritto di vivere, inteso come fonte di tutti i diritti, in determinate, circostanze include anche il diritto di morire". Lo stesso principio ha forse guidato secoli prima inconsapevolmente, in Sardegna, quella austera e misteriosa figura che ha vissuto in quella terra di mezzo che ha i confini sfumati e i colori sfuocati della realtà mista alla fantasia, tradizione popolare, racconto tramandato oralmente e leggenda. È "sa femmina accabadora". Una donna moralmente ammantata di panni neri e luttuosi, chiamata da entità superiori non ben definite e riconosciute, al compito di soccorrere le persone agonizzanti da troppi giorni perché potessero rendere l’anima a Dio mettendo fine alle proprie sofferenze. In quell’entroterra sardo di transizione, che è geograficamente identificato in quell’area che va da Samugheo al Mandrolisai, si credeva fermamente che le persone che durante la vita si fossero macchiate di peccati gravi, quali ad esempio il furto del giogo, lo spostamento delle pietre di confine delle proprietà terriere, la distruzione dell’alveare o l’uccisione del gatto, fossero destinate a espiare queste colpe in punto di morte con un’agonia lenta e largamente sofferta. Insomma, coma dire: "dura lex, sed lex". Ed è a questo punto che entra in scena la figura de s’accabadora. Porta con sé, in visita dal morituro, un piccolo giogo. Attende silenziosa, come un gatto tra le balze delle tende, la dipartita del prete, convocato dai parenti per l’estrema unzione. Scivola fugace come un’ombra e svuota la stanza dai rosari, dalle immagini sacre e dai crocifissi, quasi che il Cielo non vedesse e non sentisse ciò che si va compiendo e il tutto fosse così taciuto e legittimato. Il passo successivo è celere quanto fitto di mistero. La femmina accabadora sistema con precisione il giogo dietro il collo dell’agonizzante, all’altezza della nuca, e in un istante lo finisce. Il moribondo trapassa, lasciando in maniera risoluta questa terra che lo tratteneva tra un gemito e un alito di vita catartico, causa delle sue colpe terrene, passando, si spera, a miglior vita. Come in un agghiacciante incantesimo. Perché, chi assiste e ne rende testimonianza, non si capacita di ciò che accade realmente. Dunque, una forma primordiale e altrettanto barbarica della più moderna, dibattuta e sofisticata eutanasia. Ma che passa per il sottile confine della leggenda, del demoniaco, del magico e sconcertante. Di quelle storie che si raccontavano un tempo davanti al camino, sussurrate con discrezione e riguardo mentre il vento spira forte e che, spesso, facevano accapponare la pelle per la loro trucidità di fondo alle orecchie indiscrete che le stavano avidamente ad ascoltare. Senza che fosse mai possibile un dovuto distinguo tra realtà e leggenda.

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