di Marco Sarti
Nelle sue indagini la commissione parlamentare di inchiesta sull’uranio «ha scoperto le sconvolgenti criticità che in Italia e nelle missioni all’estero hanno contribuito a seminare morti e malattie tra i lavoratori militari del nostro Paese». È un’accusa dura, drammatica. Il testo della relazione finale approvata punta il dito sulle carenze che troppo spesso hanno messo repentaglio la salute e la sicurezza dei nostri soldati. E questo nonostante «le rassicuranti dichiarazioni rese dai vertici dell’amministrazione della Difesa e malgrado gli assordanti silenzi generalmente mantenuti dalle autorità di governo pur esplicitamente sollecitate». Il documento segue le due relazioni intermedie già pubblicate negli scorsi mesi. Centinaia di pagine che raccontano le dolorose vicende dei militari che si sono ammalati durante il servizio. Esposti all’uranio impoverito, all’amianto e ad altri gasi nocivi. Senza dimenticare i rischi ambientali che continuano a interessare i poligoni di tiro nel nostro Paese, con buona pace di chi vive e lavora nell’area circostante. La legislatura è finita. La commissione di inchiesta, presieduta dal deputato Pd Gian Piero Scanu, conclude i suoi lavori con un duro monito. Il testo finale descrive uno scenario sconfortante. «Nell’amministrazione della Difesa continua a diffondersi un senso di impunità quanto mai deleterio per il futuro, l’idea che le regole c’erano, ci sono e ci saranno, ma che si potevano, si possono e si potranno violare senza incorrere in effettive responsabilità». E questo nonostante i tanti militari italiani che in questi anni hanno pagato sulla propria pelle l’impegno al servizio del Paese. «Quel che è ancora peggio – prosegue la relazione – dilaga tra le vittime e i loro parenti un altrettanto sconfortante senso di giustizia negata».
Il documento parte dal racconto di un luogo simbolo. La penisola Delta del Poligono di Capo Teulada. Un pezzo d’Italia che da oltre 50 anni è diventato un enorme bersaglio. Tra artiglieria pesante, missili e razzi, solo nel periodo tra il 2009 e il 2013 la penisola è stata raggiunta da 24mila colpi. Zona a rischio e, per questo, interdetta permanentemente al movimento di persone e mezzi. Il risultato è quello di una vera e propria discarica incontrollata, scrive la commissione. Un’area mai interessata da operazioni di bonifica né di recupero degli ordigni inesplosi. Dalle immagini satellitari si individuano 30mila crateri. Solo considerando le munizioni di calibro superiore, il documento parlamentare stima che sul terreno si potrebbero trovare residuati per un peso totale che va da 1.750 a 2.950 tonnellate. «Sulla superficie tonnellate di residuati contenenti cospicue quantità di inquinanti in grado di contaminare suolo, acqua, aria, vegetazione, animali. E l’uomo». La commissione di inchiesta racconta il dramma di chi vive in prossimità del poligono. Nelle aree di Sa Portedda e Gutturu Saidu, ad esempio, si rilevano eccessi per patologie respiratorie e digerenti, del sistema urinario e tumorali. Nella frazione di Foxi, dal 2000 al 2013, «si registra un raddoppio della mortalità per tutte le cause e un rischio almeno tre volte maggiore di mortalità e morbosità per le malattie cardiache».
Poligoni dove per anni si sono gravemente sottovalutati i rischi cui erano esposti militari e cittadini. La commissione di inchiesta cita l’utilizzo dei missili anticarro Milan, «il cui sistema di puntamento include una componente radioattiva, consistente in una lunetta di torio, che, dopo il lancio, ricade sul terreno». Solo a Capo Teulada sarebbero stati lanciati quasi 1300 missili di questo tipo. E altri 500, almeno, nel poligono interforze Salto di Quirra dal 1986 al 2000. «Le indagini svolte – ha spiegato in audizione Biagio Mazzeo, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Lanusei – hanno fatto emergere la presenza del torio sia nel bestiame, sia in alcune persone, e in particolare è stata fatta una riesumazione di salme di pastori deceduti per malattie oncologiche o linfomi e si è visto che c’era una componente di torio nelle loro ossa». In passato il poligono di Perdas de Fogu è stato scelto per la distruzione di materiali obsoleti. In particolare arsenali di pertinenza dell’aeronautica militare: bombe d’aereo e munizioni di artiglieria antiaerea. Operazioni non sempre prive di rischi. Una volta fatti esplodere con cariche di tritolo, «si verificava una proiezione di materiali combusti, incombusti, terra, tutto quello che possiamo immaginare, che formava colonne alte diverse decine di metri, dopodiché si aveva per un periodo di tempo abbastanza lungo una ricaduta di queste polveri, di questi materiali sul territorio circostante. La cosa più grave è che il personale militare che interveniva immediatamente dopo ogni brillamento per verificare che non ci fossero degli ordigni rimasti inesplosi, che potessero costituire un pericolo per la sicurezza delle persone, interveniva senza adeguate protezioni, alcuni testi ci hanno detto che non portavano niente, altri dicevano che usavano delle mascherine del tipo di quelle che usano le infermiere o gli imbianchini quando lavorano, venivano usati i guanti di pelle di dotazione militare e portavano le loro uniformi da lavoro, senza nessuna particolare protezione».
Oggi molto è cambiato. Dal primo gennaio, grazie all’attività della commissione di inchiesta, sono in vigore nuove norme che regolano l’attività dei poligoni militari. Eppure per anni i nostri militari sono stati esposti a gravi rischi per la salute, denunciano i parlamentari. Nei poligoni e non solo. «Rischi minacciosi gravano persino su caserme, depositi, stabilimenti militari: sia deficienze strutturali (particolarmente critiche nelle zone a maggior sismicità), sia carenze di manutenzione, sia materiali pericolosi come l’amianto». L’amianto merita un discorso a parte. Stando ai lavori della commissione, la presenza di questo materiale ha caratterizzato per lungo tempo le strutture di navi, aerei ed elicotteri militari. La relazione finale cita la procura della Repubblica di Padova e l’accertamento di 1.101 decessi o malattie per patologie asbesto-correlatesolo nell’ambito della Marina Militare. «Ed allarmano le prospettive di ordine generale – si legge – delineate dal direttore del RENAM Alessandro Marinaccio, audito il 19 ottobre 2017: “Il picco dei casi di mesotelioma, sia il numero di casi sia il numero di tassi, è presumibile sia nel periodo tra il 2015 e il 2020”».
E poi ci sono le missioni internazionali. Come spiega la relazione, la situazione dei teatri operativi all’estero «desta allarme». La commissione ha dovuto constatare l’esposizione di tanti nostri militari all’uranio impoverito. Da questo punto di vista la relazione finale mette nero su bianco un passaggio destinato ad avere conseguenze rilevanti in tema di indennizzi. Gian Piero Scanu lo definisce una pietra miliare. Si scrive che «le reiterate sentenze della magistratura ordinaria e amministrativa hanno costantemente affermato l’esistenza, sul piano giuridico, di un nesso di casualità tra l’accertata esposizione all’uranio impoverito e le patologie denunciate dai militari o, per essi, dai loro superstiti». E scoppia la polemica. Già nella serata di ieri lo Stato maggiore della Difesa ha replicato duramente, definendo «infondate e inaccettabili» le accuse della commissione di inchiesta. «Abbiamo sempre tutelato la salute dei militari offrendo la massima collaborazione alle attività di inchiesta». In ogni casi, spiega, su suolo italiano non sono mai state utilizzate munizioni ad uranio impoverito.
Intanto dalle indagini della commissione di inchiesta sulle missioni internazionali emergono inquietanti vicende sull’esposizione dei nostri soldati ad altri inquinanti ambientali «in più casi nemmeno monitorati». Colpisce la testimonianza del tenente colonnello medico Ennio Lettieri, che durante la missione in Kossovo, in qualità di direttore dell’infermeria del comando KFOR, è stato testimone della presenza di una fornitura idrica altamente cancerogena cui era destinatario il contingente italiano. «In un contesto – denuncia la commissione – di scarsa o inefficiente sorveglianza sanitaria sui militari italiani ivi impiegati e di grave pericolosità ambientale, del tutto sottovalutato o ignorato dai comandi in carica». Ecco perché adesso la commissione di inchiesta lascia una pesante eredità al prossimo Parlamento. In particolare per quanto riguarda la missione militare in Niger appena approvata. «Sulla scorta della documentazione acquisita – si legge -si raccomanda di vigilare con il massimo scrupolo sulle modalità di realizzazione della missione, anche per quanto attiene alla valutazione dei rischi, all’idoneità sanitaria e ambientale dei luoghi di insediamento del contingente».