di Mario Cubeddu
Se il mito “de s’accabadora” avesse fondamento di verità, non sarebbe molto lusinghiero per i sardi. Tanto incapaci di affrontare il dolore e il precipizio degli ultimi istanti di vita da aver inventato una figura sociale deputata a dare la morte. Il contrario dei kamikaze, eroi insulari per definizione, e di tutti quelli disponibili a sacrificare la propria vita per la causa in cui credono. Chi da credito a questo mito deve supporre che i sardi abbiano una tale paura della morte da aver bisogno di qualcuno che li aiuti ad affrontarla. O che ce li porti direttamente, come nel caso dei nostri “eroi” di guerra. All’origine di questa favola c’è forse la passione per l’etimologia, passata e presente, che ha prodotto la paccottiglia sotto culturale che doveva rendere conto dell’espressione “riso sardonico”. Può esserci anche l’abbaglio di chi si avvicina all’immensa letteratura cattolica dell’accompagnamento alla morte, dell’”aiuto a morire” affidato ai chierici che stazionavano accanto al letto dei moribondi. Sino alla soglie dell’età contemporanea nella società sarda, come nell’Europa cattolica in genere, il numero dei chierici era enorme. Nei nostri paesi e città si può calcolare un consacrato ogni 50 persone. Se si pensa ai loro parenti, si può concludere che tutti facevano parte per coinvolgimento personale o familiare della società cattolica. Dove la morte ha i suoi riti di accompagnamento e una presenza assidua del sacerdote, anche perché alla morte si accompagnava un’intera economia di lasciti pii, strumento essenziale per il sostentamento di quella pletora enormi di chierici, maschi e femmine, regolari o secolari. Non è credibile che in questi momenti cruciali dell’esistenza potesse quindi inserirsi la figura ingombrante dell’”accabadora” senza che lasciasse tracce nella letteratura ecclesiastica. Ma i sardi preferiscono ignorare la storia che rende la Sardegna simile al resto dell’Europa. Essi amano inventarsene una speciale. Non lo fanno solo i semplici, lo fanno anche i migliori scrittori. Impressiona il fatto che Grazia Deledda nei tanti romanzi e tantissime novelle che ha scritto ignori del tutto l’esperienza dei sardi nella Grande Guerra che si svolge davanti ai suoi occhi nel periodo della sua maturità artistica. Solo in una novella c’è un riferimento retorico al sangue chiesto ai sardi dalla “Patria”. Vicenda troppo fresca e quindi da elaborare, si dirà. Ma altrettanto assente è un’altra grande vicenda, in questo caso tutta sarda: la costruzione della “proprietà perfetta” nel corso dell’Ottocento. Essa ebbe aspetti economici, sociali, culturali, e coinvolse in una lotta senza esclusione di colpi la generazione dei suoi genitori. Il banditismo di fine Ottocento ha lì le sue radici. Evidentemente a casa di Grazia, il cui padre era impegnato nella distruzione delle foreste dell’isola, non se ne parlava. Se si considera che Emilio Lussu cancella dai soldati e dagli ufficiali di “Un anno sull’altipiano” ogni aspetto che serva a identificarli come sardi, ci si renderà conto di come anche lui sia portato a ignorare una vicenda storica specifica e a leggerla solo nel quadro della vicenda nazionale italiana. Un luogo senza storia dove tutto è effimero e ogni vicenda singola o collettiva è già dimenticata appena la si considera conclusa. Nessuno ha detto e applicato meglio questo principio di Salvatore Satta che traccia un quadro affascinante, e mitico, delle origini della famiglia e del paese d’origine. La storia non è fatta per i sardi. E gli scrittori sardi non sono fatti per il realismo. La realtà e la storia sono dettagli fastidiosi. In essi non si riesce a collocare i destini singoli e collettivi degli uomini e delle donne inventati dagli scrittori. La vita che vi si immagina, per essere interessante, deve essere colorata di tinte più fosche, o se ne deve cancellare ogni colore. A leggere un romanzo interessante come “Accabadora” di Michela Murgia, appena pubblicato da Einaudi, chi è abituato a cercare lo sfondo storico in cui lo scrittore immagina la vicenda umana che racconta rimane perplesso. Siamo nel paese tipo di tanta letteratura sarda. Civiltà agricola, sembrerebbe, vigne e seminativi, nessuna bestia da allevamento sullo sfondo. Si potrebbe pensare alla volontà di lasciare tutto in una temporalità vaga e indeterminata, nel tempo del mito appunto. Il 1955 degli otto anni della protagonista è ingannevole. Per altri aspetti il romanzo sembra immaginato nella contemporaneità: il ragazzo di famiglia contadina che va in auto a bruciare il campo del vicino, il televisore in camera quando è a letto ammalato non si possono collocare nei primi anni Sessanta. Né in quegli anni una ragazza sarda sarebbe stata tenuta in una famiglia torinese a fare la bambinaia per “bambini” di 11 e 15 anni, una damina di compagnia per adolescenti cittadini, ma avrebbe dovuto provvedere a molti altri compiti meno dignitosi. Ma tutto questo non importa, sono dettagli trascurabili per capire, interpretare un libro interessante per altri aspetti. Volevamo prima precisare cosa non ci si deve aspettare da questo libro e in genere dai libri degli scrittori sardi: un’immagine fedele e attendibile della Sardegna. Lo scrittore ci propone un mondo che è suo, fatto delle storie che ha immaginato e soprattutto delle parole con cui le racconta. E’ lo stile a identificare lo scrittore, che per questo non è né sardo, né italiano, né altro, è un artefice di parole. E l’efficacia con cui Michela Murgia descrive situazioni, momenti di vita, atmosfere, condizioni psicologiche è spesso stupefacente. Ci sono nel libro veri pezzi di bravura che non è consueto trovare nella narrativa italiana di oggi. Una capacità di associazione fantastica esatta e pertinente. Talvolta poco più adatta forse al linguaggio e alla psicologia della voce narrante che a quella del personaggio, ma sempre sorprendente e intrigante. Con un pericolo di lasciarsi prendere la mano da un eccesso di bravura che rischia di diventare maniera. “Il silenzio si prese la risposta, e Bonaria non ritenne di doverlo infrangere”; è uno dei pochi casi in cui avremmo voluto leggere semplicemente: “Bonaria non rispose”.