di Paolo Pulina
Al XXIX Salone Internazionale del Libro di Torino, presso lo stand della Regione Autonoma della Sardegna, che ha presentato il tema “Grazia Deledda, Antonio Gramsci, Francesco Masala Visionari sardi. Omaggio al futuro”, il 14 maggio si è svolto l’incontro “Migrazioni e contaminazioni. Il senso delle radici in Francesco Masala e altri visionari sardi”, a cura dell’Associazione Editori Sardi (AES).
Moderati da Salvatore Tola, sono intervenuti Ugo Collu (su Grazia Deledda), Giovanni Manca (su Francesco Masala, del quale ricorre il centenario della nascita), Annalena Manca (su Vincenzo Manca, anche lui nato nel 1916).
Si veda su questo sito web l’articolo sui loro interventi:
Al sottoscritto è spettato il compito di soffermarsi sulla “visionarietà” di Antonio Gramsci e di Francesco Masala.
Mi attengo alle parole usate dall’AES per presentare questo dibattito: «Si vuole dare ospitalità alle esperienze di chi ha la capacità di guardare lontano, di darsi e vincere sfide che sembravano impossibili, di lavorare nel futuro e per il futuro attuando progetti forti, basati su una conoscenza vera. […] Al centro dell’edizione 2016 saranno dunque i visionari che, nei rispettivi rami di attività, si sono distinti per la lungimiranza del progetto, le capacità d’innovazione, l’originalità dei metodi operativi, ma anche la sapienza divulgativa e comunicativa».
Faccio questa precisazione perché, se si consulta il vocabolario on line della Treccani, sono definiti “visionari”: «quelli che hanno delle visioni, delle apparizioni soprannaturali o delle allucinazioni visive»; «quelli che immaginano e ritengono vere cose non rispondenti alla realtà, o elaborano disegni inattuabili; sognatori»; «artisti, per lo più autodidatti, schizofrenici o comunque affetti da disturbi psichici». Meno male che almeno «nella critica cinematografica, invece, il termine è usato con riferimento a registi particolarmente dotati della capacità di creare situazioni e immagini fantastiche, irreali e di forte impatto visivo (Fellini)».
Vediamo dunque in che senso Antonio Gramsci e Francesco Masala sono state personalità “visionarie”. Volendo ovviamente significare con questo termine: che hanno avuto una chiara visione del futuro; che hanno guardato e visto lontano; che sono stati profetici, in quanto possessori di non comuni doti di percettività, quindi di capacità di interpretare, decifrare, prefigurare la complessità del reale.
Antonio Gramsci, “visionario” nel campo della teoria politica e dell’analisi della narrativa popolare
1) Per inquadrare Gramsci come “visionario”, come decifratore dello sviluppo futuro nel campo della teoria politica, anticipatore di una situazione italiana (e non solo italiana) degli ultimi decenni, basta questa citazione dai “Quaderni del carcere”: faccio riferimento all’edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975; si veda il “Quaderno del carcere” n. 6 (1930-1932), paragrafo 97, pagina 772.
«Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull’ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla così detta demagogia. Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera “costituente” costruttiva, allora si ha una “demagogia” superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati “culturali”. Il “demagogo” deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato “capo carismatico”). Il capo politico dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili “concorrenti” ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo».
2) Per inquadrare Gramsci come “visionario”, come anticipatore della necessità di attrezzarsi con adeguati strumenti culturali per l’analisi dei fenomeni delle comunicazioni di massa, della letteratura popolare, bastano queste citazioni dai “Quaderni del carcere”: faccio sempre riferimento all’edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975. Contrapponendosi anche in campo letterario alle teorie di Croce, Gramsci non ha dubbi che bisogna prendere in considerazione non solo la letteratura popolare artistica o alta ma anche la letteratura d’appendice, bassa o popolare. Data la mancanza in Italia di una letteratura d’arte legata alla vita popolare nazionale – scrive Gramsci – «viene preferita la letteratura d’appendice che, a modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura degradata quanto si vuole, ma sentita vivamente» (dal “Quaderno del carcere” n. 21 [1934-1935], paragrafo 4, pagina 2113).
L’analisi critica gramsciana si applica quindi ai prodotti dell’industria culturale del suo tempo, ai vari tipi di romanzo popolare (storico, ideologico-politico, sentimentale, tenebroso, scientifico d’avventure, geografico, poliziesco, d’appendice): si veda il “Quaderno del carcere” n. 21 (1934-1935), paragrafi 6-15, pagine 2120-2135.
A proposito del romanzo d’appendice Gramsci dà conto, dal punto di vista psico-sociologico, delle motivazioni dell’enorme fortuna presso il pubblico degli oltre cento romanzi scritti da Carolina Invernizio, «questa onesta gallina della letteratura popolare» (dal “Quaderno del carcere” n. 21 [1934-1935], paragrafo 5, pagina 2118).
Oggi fanno riferimento agli schemi critici gramsciani, in tutto il mondo, gli specialisti nel campo delle ricerche sulle strategie e sulle strutture narrative della letteratura di massa tradizionale (romanzo d’appendice, giallo, ecc.) e sulle sue trasformazioni nell’ambito della civiltà dell’immagine dominata dalla televisione: quindi le soap opera, le telenovelas, i prodotti della serialità, più o meno lunga, a struttura aperta o chiusa (di norma la soap opera non giunge ad una conclusione narrativa, per questo viene anche definita serial aperto, elemento che la distingue dalla telenovela che, pur avendo molte caratteristiche simili, giunge invece ad una conclusione narrativa nelle ultime puntate ed è per questo definita serial chiuso).
Ha scritto il critico televisivo Aldo Grasso: «Gramsci nei suoi “Quaderni del carcere” arriva a considerare il genere letterario del feuilleton, del romanzo d’appendice, come un moderno umanesimo in grado di raggiungere una prima embrionale unità tra élite e masse popolari. La telenovela come forma di alfabetizzazione delle coscienze?».
Per la diffusione internazionale dell’approccio gramsciano ai moderni prodotti dell’industria culturale, solo per fare un esempio, si veda il saggio “Telenovelas brasileiras: balanços e perspectivas”
http://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0102-88392001000300005
di Silvia Helena Simões Borelli (Professora do Departamento de Antropologia e do Programa de Estudos Pós-Graduados em Ciências Sociais da PUC-SP, Pesquisadora do Núcleo de Telenovelas da ECA-USP) che cita numerose volte Gramsci.
Nessuno stupore quindi se oggi Gramsci è in tutto il mondo una autorità nel settore degli studi sulle culture subalterne, i “cultural studies” (particolare indirizzo di studi sociali che ha origine in Gran Bretagna come ampliamento del settore della critica letteraria verso i materiali della cultura popolare di massa).
3) Per il senso delle radici in Gramsci, non posso che rimandare al mio ampio scritto intitolato “Gramsci emigrato sardo” e pubblicato nel volume “Dibattito sull’attualità di Antonio Gramsci: un sardo protagonista del Novecento ricordato nei circoli dei sardi a sessant’anni dalla scomparsa” (cfr. pp. 40-56), che contiene gli atti di due convegni organizzati a Brescia e a Padova dalla FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia) nel novembre-dicembre 1997.
Qui mi limito a ricordare come, nelle “Lettere dal carcere”, Gramsci ben descrive come un emigrato (un po’ speciale, per la verità) apprezzi il sapore del pane fatto nell’isola di origine.
Il 29 dicembre 1930 scrive alla sorella Grazietta: «Il giorno di Natale ho ricevuto il pacco. Di’ alla mamma che tutto era in ordine e che nulla si è guastato; il pane era ancora fresco e l’ho mangiato con molto gusto: si sentiva il sapore del grano duro sardo molto buono».
Gramsci rimpiangeva anche le leccornie sarde: «kulurzones, pardulas, zippulas, pippias de zuccuru e figu sigada – di quella famosa zia Maria di Tadasuni –, pirichittos» (si veda la lettera del 26 febbraio 1927).
Francesco Masala, scrittore e poeta “visionario” in italiano e in sardo
Sulla “visionarietà” (intesa anche come la sopracitata «capacità di creare situazioni e immagini fantastiche, irreali e di forte impatto visivo») di Francesco Masala basta proporre qualche passo da “Il Dio Petrolio”, Cagliari, Edizioni Castello, 1986; ripubblicato con il titolo “Il parroco di Arasolè” (a cura di Giancarlo Porcu), Nuoro, Il Maestrale, 2001.
Citiamo da quest’ultima edizione (pp. 130-131): «Ma il passato è passato. Oggi, dove un tempo pascolavano i pastori di Arasolè, è sorto il polo petrolchimico di Sarrok, la raffineria più grande d’Europa. Un’altissima lingua di fuoco, notte e giorno che, secondo la legge del ciclo continuo del petrolio, illumina le antiche tanche: è la Fiaccola, la lunghissima torcia che brucia tutti i gas di scarico della Raffineria e li scaglia, simile ad un drago vampante fiamme, contro l’azzurra indifferenza del mare e del cielo. Il petrolio grezzo esce dal ventre delle navi petroliere, nero e giallo come l’occhio della vipera, scorre freddo dentro i tubi, va a scaldarsi le vene nei forni di distillazione, entra in orgasmo nei talami a serpentina, si accoppia come una bestia immonda dai mille sessi dentro le torri di frazionamento e, infine, partorisce migliaia di figli: benzina, vaselina, glicerina, paraffina, metano, butano, esano, ottano, etilene, acetilene, propilene, polistirene, alchilati, nitrati, clorati, solfonati, eccetera, eccetera eccetera. Il petrolio, ovverosia l’olio di pietra, come l’antico scongiuro delle dodici parole della gente di Arasolè, è buono a tutto: a curare la rogna, a uccidere pidocchi, ad eliminare il verme solitario, a concimare rape e cavoli, a fare neri i capelli bianchi e fare bianchi i denti neri, a produrre un incalcolabile numero di oggetti di plastica, dalle scarpe ai pantaloni, dalle mutande ai reggiseni, dai colapasta ai vasi da notte. Non è improbabile che un giorno o l’altro, dal petrolio, escano fuori buoi di bioproteina, per la bistecca agli operai di Sarrok o per tirare l’aratro ai contadini di Arasolè».
Le conseguenze catastrofiche (catastrofe antropologica) del “Dio Petrolio” erano già state profetizzate nella prefazione a “Il riso sardonico”, Cagliari, GIA, 1984. Masala aveva scritto: «È lecito accettare, almeno sul piano dell’ipotesi, l’affermazione di David Herbert Lawrence che l’uomo sardo identifica il proprio io umano nell’io cosmico e che conserva, a bella posta, il suo oscuro paradiso dell’ignoranza per lasciare che il resto dell’Italia si crogiuoli nel suo illuminato inferno. Ma è altrettanto lecito aggiungere subito che, oggi come oggi, c’è qualche difficoltà a realizzare tutto ciò, dal momento che ci stanno pensando tre moderne divinità ad illuminarlo: il Dio Petrolio, il Dio Cemento e il totem di Perdasdefogu, il missile dentro le pietre di fuoco».
Il concetto viene ripetuto: «D’altronde, la gente sarda, che non ha mai fatto “storia”, conosce bene la “morale della storia”, che è questa: il nemico viene sempre dal mare. Il male che viene dal mare sta dentro la memoria storica della sarditudine: […] fino all’ultimo nemico venuto dal mare, il piede nero di sporco caprone del Dio Petrolio».
Ma il Dio petrolio era già presente in italiano e in sardo («Deus Ozudepedra») nella poesia “Ballata nell’uomo del fosso”/ “Cantone de s’omine in su fossu” pubblicata in Poesias in duas limbas (poesie bilingui), Milano, Scheiwiller, prima edizione 1981, seconda edizione 1993; nuova edizione Nuoro, Il Maestrale, 2006:
Ballata dell’uomo nel fosso
Ehi, gente, prendete uno come me,
mezzo uomo e mezzo pecora,
al pascolo fra tombe di nuraghi,
e fategli questo scherzo:
mettetegli sopra la testa
una raffineria di petrolio
di un milanese pancia-piena./
Ehi, gente, prendete uno come me,
un uomo-bue che mugghia
fra le tanche di cisto e di lentischio,
e fategli questo scherzo:
mettetegli un cacciavite in mano,
a fare il sagrestano
nelle chiese del Dio Petrolio./
Ehi, gente, prendete uno come me,
un capraro con faccia da caprone
e fategli questo scherzo:
mettetegli un frac da cameriere
in un bar della Costa Smeralda,
dove si scaldano il culo
i proprietari musulmani./
Ehi, gente, prendete uno come me,
pescatore di muggini,
in zattere di giunco,
e fategli questo scherzo:
mettetegli al centro dello stagno
una fabbrica di nebbia,
carica di mercurio e di catrame./
Ehi, gente, prendete uno come me,
scortichino di sughere,
con le scuri di fuoco,
e fategli questo scherzo:
mettetelo in mezzo a mille missili,
fra le pietre di fuoco
di una base di tiro americana./
Ehi, gente, cosa credete che faccia,
allora, uno come me?
Ci cade dentro al fosso!
Ci cade dentro al fosso!!
Ci cade dentro al fosso!!!
E andate tutti in malora.
Non solo il pane è nero (dopo “Poesie”, Roma, Gastaldi, 1951; “Pane nero” [prefazione di Giovanni Titta Rosa], Siena, Maia, 1956, tradotto in russo, jugoslavo e spagnolo; poi “Il vento. Pane nero”, Siena, Maia, 1960, tradotto in francese nel 1992) ma il mondo intero è nero per i lavoratori (malfatati) della Sardegna: pastori, contadini, mietitori, zappatori, minatori. E non solo per loro:
Da un blues della Louisiana
(da “Poesias in duas limbas/Poesie bilingui”)
Io ero un uomo bianco,
laggiù, laggiù, nel Sud
lungo i campi di cotone,
laggiù, laggiù, nel Sud,
sono diventato negro.
Nota finale
Il Consiglio Direttivo Nazionale della FASI, che raccoglie 70 circoli dei sardi nell’Italia continentale, riunito a Milano il 6 marzo 2016 ha approvato all’unanimità la mia proposta di ricordare nel 2016 nel centenario della nascita lo scrittore, poeta, saggista Francesco (Cicito) Masala (Nughedu San Nicolò 1916 – Cagliari 2007), studioso e difensore della lingua e della cultura sarda.
Sarà quindi mia/nostra cura cercare di farlo conoscere nei Circoli degli emigrati sardi nella penisola «italiota». Già questo aggettivo a lui polemista tanto caro al posto di “italiana” non aiuterà…; così come è difficile che raccolga condivisioni tra i non sardi il suo invito a dare colpi di frusta sopra le mani di tutti gli italiani che non parlano la lingua sarda («Pro cussu, como chi so bezzu, s’idea mia est custa: de atzotare subra sas manos a totus sos italianos chi no faeddant sa limba sarda»).
Sarebbe auspicabile che qualche Circolo di emigrati sardi in Francia proponesse le numerose traduzioni delle sue opere in francese e ripercussioni di queste traduzioni (Bruno Rombi ha scrupolosamente elencato le une e le altre nel suo saggio “Francesco Masala, uno ‘straniero’ in patria” nel volume “La fortuna degli scrittori sardi nel mondo; atti del convegno in onore di Michelangelo Pira, Quartu Sant’Elena, 1994; Cagliari, Tema, 1995, cfr. pp. 15- 27).
Nel caso, la prima persona da coinvolgere è lo scrittore francese Claude Schmitt, che così ha commentato l’iniziativa del Salone del Libro di Torino in omaggio a Francesco Masala (a cui è così affettivamente legato da evocare il titolo di un’opera masaliana anche nel suo indirizzo di posta elettronica…): «Sono lieto che finalmente (anche a Torino!) Francesco Masala sia considerato come uno “grande” della letteratura sarda. Lo traduco in francese da molti anni e posso dire che in Francia Masala è stato accolto con favore dalla critica (dal pubblico è più difficile a sapere!) Claude SCHMITT
Ho tradotto Storia dei vinti/Poesias in duas limbas; Il Dio Petrolio/Il parroco di Arasolè; Quelli dalle labbra bianche; Il riso sardonico; sto lavorando alla traduzione della sua Storia del teatro sardo. Di più sono l’editore d’uno “périodique littéraire gratuit diffusé par e-mail” intitolato “La Revue Sarde”, da ordinare presso: arasole@orange.fr».
Grazie per la citazione.
Una volta ero anche uno socio della DOMOSARDA, circolo di emigrati sardi a Parigi (pero non vivo piu a Parigi)! E non mi risulta che hanno diffuso la conoscenza dell’opera di Masala in francese. Speriamo che leggano Tottus in pari!
Claude SCHMITT