Angela Fresu aveva tre anni il 2 agosto 1980. Oggi sarebbe una donna di 38 anni. Mi sono chiesto, da sempre, chi poteva essere oggi Angela ed altre persone uccise non solo a Bologna ma nelle altre grandi stragi di Stato o in circostanze misteriose. Questa storia è stata rappresentata in teatro, con il titolo “anime in panchina”. In questi giorni anche La Repubblica ha avuto la stessa incredibile idea e ha lanciato un Dvd che racconta la vita immaginaria proprio di Angela Fresu. Non credo abbiano mai letto questo racconto (anche se, a dire il vero si trova su internet da qualche anno) e non credo abbiano visto “anime in panchina”. Ve lo ripropongo così, per ricordare una strage impunita e perchè io, quel giorno, il 2 agosto 1980, avevo solo 21 anni e una vita davanti. La stessa vita che è stata negata ad Angela e a tanti altri. Così, senza nessuna ragione.
Dio, la paura e l’ansia di mia madre. Che mi cerca al cellulare e mi manda il messaggino e mi richiama e fa un bip e poi aspetta. Non credo sia paura di perdermi, ma, probabilmente, lo stupido terrore che io non mi possa ricordare di lei. E per me questo è impossibile. Il suo volto quotidiano, dolce, rassicurante è fin dall’infanzia che mi accompagna. Ce l’ho scansionato nella memoria. Fa parte del mio DNA.
Sarà per quello che è successo a Bologna. Che io stento sempre a ricordare, ma è accaduto e mia madre è stata, per così dire, una protagonista. Anzi, mi ha salvato la vita. E ha deciso di condurmi – credo da quel giorno – sempre al suo cospetto, sempre attenta a capire dove sono cosa faccio chi incontro di chi mi sono innamorata. “Se ti ho salvato la vita a tre anni”, dice sempre, “sarebbe assurdo che tu la butti via inconsapevolmente”. Questo dice mentre mi guarda. Ha acquistato, per Natale, due videofonini e pretende che io risponda sempre alle sue videochiamate. “Ti voglio vedere, devi stare attenta, la vita è un attimo”. Un attimo. Che per me, avvocato penalista fa sorridere. Nella giustizia, il conteggio degli attimi è un’eternità visto dalla parte da chi subisce l’ingiustizia e troppo veloce da chi ha invece il terrore per la condanna. Un attimo. Mia madre – dice lei – aveva notato quella borsa di cuoio appoggiata sul tavolino della sala d’aspetto di seconda classe, e aveva notato, soprattutto, che quella borsa nessuno la osservava. Viveva quasi di vita propria. Tutti la scansavano ma tutti, quel giorno, avevano altro cui pensare. Io, per esempio, avevo caldo e, come tutte le bambine di tre anni che si rispettino, non stavo mai ferma. Giocavo in mezzo alla stanza, come avrebbero potuto fare tutti i bambini il due agosto di qualsiasi anno in tutte le parti d’Italia. E a Bologna, quel giorno, alle dieci del mattino faceva davvero caldo. Tanto da fuggire verso il Sud. Verso Civitavecchia dove ci saremmo imbarcati sulla Tirrenia. E poi Olbia e poi zio Marcello che ci avrebbe aspettato e baci e abbracci perché la Sardegna sa abbracciare forte i propri figli e poi di corsa verso il mare, Villasimius dove i miei nonni avevano acquistato una piccola casa al mare che adesso ho ereditato, ma posso andarci solo con mia madre e mai da sola. Il telefonino da quelle parti non “prende”. Un attimo. Perché mia madre così la racconta e decide, alla dieci e diciotto – dice sempre diciotto perché lei ricorda che sono sette i minuti che ci hanno permesso di aver salva la vita – di uscire da quella stanza e mi prende per un braccio e io che strillo e sfioro quella borsa tanto che rischia di cadere. “E se fosse caduta?” Dico io. “Saremmo saltate in aria”, risponde mia madre mentre mi guarda come si può guardare un amore forte e indefinibile. Esce, cerca qualcuno, un poliziotto ma, probabilmente non lo trova e poi non sa cosa raccontare. Ha un presentimento e i presentimenti non sono storia e non entrano nelle stanze dei tribunali aggiungo io, poteva avere al massimo un convincimento, un libero convincimento, ma non era un giudice. Era la mia giovane madre.
Esce, usciamo. In un attimo siamo sotto i portici. Dice per acquistare una bottiglia d’acqua. Il treno sarebbe partito alle undici. C’era tempo. Non erano attimi. C’era tempo. E poi, poi mia madre mi guarda sempre prima di parlare e prima di dire l’ennesima storia da ventotto anni. Sempre uguale, sempre quella. Legata all’attimo. All’attimo che non c’è. Perché lei non ricorda più che cosa è successo. Non ha più l’attimo davanti. E parla senza accenti, senza emozioni, senza nessuna pausa contemplativa. Senza attimi di attesa. Parla senza mai guardare,come se stesse rivolgendo lo sguardo ad un orizzonte lontano indefinibile e indefinito. Io avevo tre anni e lei ventiquattro che sembrano pochi per una madre, ma sono tanti se quella donna che io ho accanto, ha deciso che dovessi proseguire oltre i miei tre anni. Perché bisogna un po’ crederci al destino oppure alle occasioni che passano come treni in corsa che si fermano solo per un attimo. L’attimo che ti permette di salirci o non salirci su quel maledetto treno. L’attimo che ti permette di uscire da quella stazione perché hai visto una borsa in cuoio e non ti è piaciuta. Dentro quell’Italia sorda e dura non ti è piaciuta, dentro quella stazione che sembra più un forno di pane per il caldo e l’afa e il sudore, una borsa di cuoio, da sola, non ha molto senso, ma occorre trovare l’attimo per tradurre i sensi e le vertigini che un attimo può produrre. Mia madre racconta ma non sa raccontare, ha solo visioni e quel giorno è un imbuto enorme della mia memoria. Avevo tre anni ma è l’unica cosa forte che ricordo. Neppure la mia prima comunione a Ferrara, neanche la cresima e la madrina che era la mia migliore amica e adesso non ci parliamo più, e il primo bacio con Alessandro, ricordo il luogo: Pisa, piazza dei miracoli, gita di classe, lui con maglietta a strisce io gonnellina bianca e maglietta con un seno tutto da immaginare. Lui mi guarda e mi sorride, ma non ho più il ricordo forte di quando le labbra si schiudono e non ricordo neppure il sapore. La maturità con il mio 54/60 e mia madre in prima fila ad ascoltare gli orali e io che avevo un’emozione piccola ma felice ma non ricordo che diavolo di domande possono avermi fatto e dove, soprattutto, ho sbagliato per non meritare il massimo. E la mia prima volta, così evanescente con Massimo in Sardegna, in un campeggio a Cala Gonone. In una tenda. Ricordo solo le mie risate perché non mi ero accorta che era già tutto finito. Anche quello era durato un attimo. Insomma, di Massimo non ho una foto nitida nella memoria. E la mia laurea, la tesi sull’incidenza del sequestro di persona in Toscana, un tentativo di scagionare i sardi decisamente mal riuscito: 100 su 110. Forse perché ero sarda e non mi sarei dovuta occupare di queste cose. Mentre il due agosto 1980 è un ricordo forte, a colori, costruito dentro il mio piccolo orizzonte della memoria. E’ il mio unico ricordo vivo, fatto di gente che si muove, che si agita. Tutto il resto, quello che è venuto dopo e quello che vivo quotidianamente è solo un ammasso di fotografie in bianco e nero. E telefonate di mia madre. Penso, comunque che il due agosto del 1980 sia finito dentro la mia vita perché mia madre, distillandomi la storia quotidianamente me lo abbia reso terribilmente vivo, anche se io non ero d’accordo. Il mio compagno, per esempio, dice che devo lasciare perdere, che sono passati tanti anni, che il destino ha deciso in questo modo e che mia madre non c’entra niente. Ho sempre pensato che gli uomini non avessero abbastanza dimestichezza con le emozioni e lui, Gian Carlo è uno di questi. Un magistrato sempre attento a non sbagliare camicia nei processi, ma sbaglia terribilmente approccio con gli avvocati e gli imputati. Mia madre, con la sua inconsapevole storia quasi quotidiana mi ricorda che anche quei primi tre anni valevano la pena di essere vissuti, che quel giorno noi eravamo lì a prendere un treno verso il mare e abbiamo rischiato di finire dentro la storia, la storia oscura di questo paese.
Angela Fresu, uccisa, a tre anni il 2 agosto 1980, all’interno della stazione di Bologna. Angela oggi, avrebbe 38 anni.