
di FRANCISCU SEDDA
No, la stracitata frase “Sono sardo, italiano, europeo” – che ha risuonato anche nelle giornate di celebrazioni dei 30 anni dalla morte di Sergio Atzeni – non rappresenta ciò che si crede e che molti vogliono dare a credere quando la pronunciano. Come se chiudere Atzeni in quel malizioso virgolettato, come in un grande atto di esorcismo sociale, garantisse lo scampato pericolo: ovvero che qualcuno possa leggere nell’opera del nostro più grande scrittore contemporaneo ben altro messaggio. Ben più destabilizzante. Diversamente sardo. Come lo stesso Atzeni invita a fare e come vi mostrerò.
No, se dalle parole che Atzeni consegnò all’articolo giornalistico “Nazione e narrazione” del 9 novembre 1994 se ne volesse estrarre quella sintesi così facilmente virgolettata, il suo significato non sarebbe di certo quello di un gioco di scatole cinesi fra “orgoglio regionale, appartenenza nazionale, spirito cosmopolita”. Come spesso la si è intesa. E come normalmente, ancora oggi, la si vuol passare.
In quell’articolo dell’Unione Sarda, apparso poco meno di un anno prima della sua morte nelle acque dell’Isola di San Pietro il 6 settembre 1995, Sergio Atzeni compie in verità un potente lavoro di scavo.
Lo fa distinguendo un discorso del Noi, che riguarda la storia dei sardi, e un discorso dell’Io, che riguarda il suo personale sentire, il discorso di chi sente “che il mio modo di essere più antico, profondo, ineliminabile, è intrecciato alla vita passata dei sardi”, di chi di questa appartenenza ha fatto “oggetto e scopo” del proprio lavoro, ma proprio per questo si trova a dover dipanare una matassa di contraddizioni e paure che rischiano di causare alienazione. Perché, come dice Atzeni, “Credo che non possa esistere scrittore alienato dalla propria nazione”.
Da qui la domanda centrale dell’articolo: “I sardi. Una nazione?”. La risposta sembra essere contenuta già nel discorso del Noi che parte ricordando come siano esistiti dei papi – si noti il riferimento alle figure più alte della sfera religiosa – che erano riconosciuti come “natione sardus”.
Ma Atzeni non si accontenta. Percepisce che la frammentaria realtà culturale della Sardegna a lui contemporanea può giocare contro la chiara identificazione dei sardi come nazione. Lui stesso da giovanissimo, a metà degli anni Settanta, l’ha negata, convinto che i sardi non avessero una storia politica unitaria. Che fossero rimasti allo stadio di popolo senza essere divenuti per davvero una nazione. Per questo scava dentro di sé, dentro la complessità del suo Io.
È in questo discorso dell’Io che appare una triade di riflessioni tortuose divise che iniziano rispettivamente con le parole “Sono sardo…”, “Sono anche italiano…”, “Sono anche europeo…”. Queste identificazioni, diciamolo subito, a volerle rendere con un minimo di fedeltà ai ragionamenti di Atzeni equivalgono a “Sono di etnia sarda, di lingua italiana, di religione cristiana”.
(Se voleste rendere la triade ancor più aderente al ragionamento-dichiarazione sviluppato da Atzeni sarebbe: “Sono di etnia sarda, di tradizione linguistico-letteraria italiana, di religione giudaico-cristiana”)
È interessante capire meglio quel “Sono anche italiano…”. Atzeni rivendica di inserirsi nella grande tradizione letteraria italiana, ovvero rivendica la sua scelta di scrivere in italiano. Nonostante proprio laddove dica “Sono anche italiano…”, sia proprio lui a spiegare che questa radice (così la chiama) è stata imposta attraverso un processo di tipo coloniale, che ha portato fra le altre cose, fra i sardi, atteggiamenti camorristici. Non ci vogliono studi di semiotica per capire che, per Atzeni, mentre il dato dell’etnia è “antico, profondo, ineliminabile” (come lui stesso scrive), quello legato all’italianità linguistica è un dato acquisito, se non imposto, dall’esterno.
Perché allora questa rivendicazione personale?
La risposta è semplice.
In primo luogo, perché Atzeni non può e non vuole negare che “negli ultimi duecento anni molte abitudini e modi di vita italiani hanno attecchito nell’isola, prima in città, fra i colonizzatori e i domestici isolani, poi dappertutto”. E una delle cose che ha attecchito di più è certamente la lingua. Qui sta il nodo della rivendicazione “positiva” dell’essere “anche italiano”. Una rivendicazione che va compresa avendo in mente la polemica che Atzeni porta avanti fin dagli anni Settanta contro chi, in ambiente neo-sardista, sostiene che per essere sardi, per appartenere alla nazione sarda, bisogna necessariamente parlare e scrivere in sardo. O, in altri termini ancora, che non ci può essere una vera letteratura sarda in italiano.
Atzeni proprio non ci sta. Ritiene questo atteggiamento sia chiuso e regressivo. E, piaccia o non piaccia, ci si scaglia contro anche a costo di enfatizzare l’incomprensibilità fra diverse varietà del sardo, di sottovalutare la tradizione letteraria in sardo, o di entrare in contraddizione con la sua stessa ammirazione per i poeti ed artisti sardi, Peppino Marotto e Maria Carta in primis, o i riferimenti all’importanza e all’uso della lingua sarda che emergono nella sua opera di scrittore.
Ma tant’è. La battaglia è ideologica. La questione è: si può essere appartenenti alla nazione sarda parlando, scrivendo, producendo letteratura in italiano? Sì, per Atzeni sì. Ed è questo che egli rivendica quando nelle “radici e tradizioni” che compongono la sua singolare personalità pone anche l’essere “italiano”.
Una conferma? La più clamorosa si trova nello stesso articolo “Nazione e narrazione”, quando Atzeni passa nuovamente al discorso del Noi, alla ricapitolazione della storia dei sardi, cercando di rispondere alla domanda che apre il suo articolo: “Noi sardi. Una nazione?”.
Atzeni, da tempo emigrato dalla Sardegna, mette in parallelo la sua vicenda con quella di Giovanni Maria Angioy, il capo della Sarda Rivoluzione, e così scrive: “Si può vivere una vita lontana dalla propria nazione, per costrizione maledetta, gli esuli insegnano, o per scelta individuale, per desiderio di conoscere il mondo. Si può cambiare lingua e attitudini ma l’anima resta radicata nella nazione lontana. Giovanni Maria Angioy, sardo esule, scrisse in francese una storia di Sardegna”.
“Si può cambiare lingua e attitudini ma l’anima resta radicata nella nazione lontana”.
Più chiaro di così. Si può cambiare luogo, lingua, attitudini. Ma non nazione. A patto che la presenza storica di tale nazione la si sappia riconoscere, scegliere e raccontare. A patto di avere un racconto della propria storia, della propria storia di libertà realizzata o quantomeno cercata, che tenga insieme i tanti “Io” con le loro tante misture di radici e tradizioni. È questo il compito dello scrittore nazionale.
Insomma, la complessità di radici e tradizioni che abita ogni sardo – per scelta, per eredità, per costrizione subdola o violenta – diventa non blocco ma sfida per chi vuole (deve!) narrare la propria nazione. Proprio come scrive Atzeni in chiusura di “Nazione e narrazione”:
“La complessità di radici e tradizioni (sardo, italiano, europeo) rende arduo il compito dello scrittore nazionale, ovvero di chi narra la propria nazione cercando un linguaggio personale ma comunicativo. Arduo ma non impossibile, vale la pena di tentare, è la risposta dei sardi che in questi anni tentano la via della narrazione e della letteratura”.
E quale è la risposta che Atzeni dà – sta dando proprio in quel momento – attraverso la sua letteratura? La risposta è il binomio “Passavamo sulla terra leggeri” e “Bellas mariposas”, il suo vecchio e nuovo testamento, in cui la storia di libertà dei s’ard incorniciata fra il nuragico e la morte di Eleonora (e dei suoi falchi) riprende (e vince, conquistando Casteddu!) quando la giovanissima Cate invoca Gesù e ad apparire – per salvare e redimere un mondo che appariva ormai senza più senso e speranza – sono Aleni, la coga di Arbarei, e un uomo dal profilo di falco.
La libertà, e la nazione, non sono mai perse. Finché le si sa raccontare. E la complessità delle nostre radici invece di diventare scusa ipocrita ed alienante per la subalternità e l’inazione viene invece messa al servizio di nuove sintesi e creazioni. Diviene linfa per ridar vita all’albero che sembrava bruciato.
Views: 41






































































































cuore