TUTTO IL MIELE E’ FINITO: I VIAGGI IN SARDEGNA DELLO SCRITTORE CARLO LEVI FRA IL 1952 E IL 1962

In copertina del libro di Carlo Levi:“Tutto il miele è finito”, dell’edizione per i “Saggi” di Einaudi 2025, c’è una foto di Fosco Maraini (Giovane pastore sardo, 1946-53 circa) a “barritta” ben calata in testa, il ragazzo soffia “unu sulittu” di canna, le guance piene d’aria che non riescono a deformargli il viso, gli occhi fissi in un aldilà che deve sembrargli irraggiungibile e che gli scava rughe profonde sulla fronte. Capolavoro di un grande giornalista e scrittore quale è stato Fosco Maraini, un “clic” della sua Leica e ti fa passare da una porta che più iconica non si può, impossibile sbagliare, questa che vedi e che vedrai se apri questo libro, può essere solo Sardegna.

Marcello Fois tra le pagine di una sua prefazione ricca d’acrimonia, d’altro canto scrive che : “Qualunque visione, a noi sardi, appare distorta. Non c’è scrittore, non c’è storico, non c’è cronista che sia autorizzato a rappresentarci adeguatamente. Nemmeno un cronista “sotto tono”, in punta di piedi, come Carlo Levi…Siamo stati i più strenui nemici dei nostri scrittori. Siamo talmente avvitati nella consolazione di noi stessi da pretendere, costantemente, conferme anziché motivi di riflessione. Questo ci ha resi tutt’altro che resistenti” (pag.VIII). Con Marcello non sono in grado di competere quando argomenta con questa furia su quello che i sardi sono o vorrebbero essere, c’è troppo amore barbaricino neanche troppo nascosto che sorregge le sue invettive, quel volere pervicacemente vedere i “suoi sardi” che in cerchio ballino ancora in “pratza ‘e cresia” e non si accontentino, in mano un bicchiere di birra che va scaldandosi,  di guardare gli altri in costume che su di un palco si esibiscono per i turisti: Folklore e non Memoria, dice lui.

Eppure di Carlo Levi mi fido, a cinquant’anni dalla morte e a ottant’anni dalla pubblicazione di “Cristo si è fermato a Eboli”, “il suo pensiero torna a imporsi con una chiarezza che sfida ogni tentazione celebrativa (Riccardo Gasperina  Geroni, sul “Manifesto” dell’11 maggio scorso: La Lucania e i viaggi di un intellettuale che custodì la libertà)…Attraverso Gobetti, morto prematuramente a Parigi dopo un pestaggio subito da una squadraccia fascista, Levi riconosce nel federalismo, nell’autogoverno, in una rinnovata etica della responsabilità individuale gli unici antidoti alla malattia storica dell’Italia: l’abdicazione alla libertà, la tentazione della delega, il culto dello Stato come surrogato del sacro. Scrittore, pittore, testimone, Levi si pone come custode della soglia tra ciò che muore e ciò che può nascere, tra la fine della politica come ideologia e il bisogno di restituirle un’anima” (ivi). Quali motivi più attuali per rileggerlo, per leggere lui che “vede” la Sardegna del primo dopoguerra, e la rivede dieci anni dopo. Fortunato chi ancora non ha letto “Cristo si è fermato a Eboli” perché, se deciderà di farlo, ha la grande opportunità di affacciarsi a una finestra da cui potrà scorgere, con una chiarezza davvero singolare, cosa abbia rappresentato il fascismo italiano per larga parte dei contadini meridionali, gli analfabeti e affamati di sempre.

Così li vede Levi nel 1936 a fascismo dominante, lui confinato politico a Gagliano, dalle parti di Matera, quando ancora gran parte della sua popolazione viveva nelle grotte, senza acqua né servizi, la luce che entra in quelle misere case solo dalla porta d’ingresso, in una stanza che fa da cucina, camera da letto per tutta la famiglia, gli animali domestici compresi. “Don Luigino, il podestà del paese, si affaccendava a convocare le sue adunate, la guerra d’Abissinia era cominciata…Questa guerra non interessava i contadini. La radio tuonava, don Luigino (che era maestro, ndr.) adoperava tutte le ore di scuola concionando ad altissima voce (lo si sentiva dappertutto) ai ragazzi, e facendogli cantare “Faccetta nera bella abissina”, e raccontava a tutti, in piazza, che Marconi aveva scoperto dei raggi segreti, e che la flotta inglese sarebbe presto saltata tutta per aria.

Dicevano anche, lui e l’altro maggiore maestro di scuola, il suo collega della radio (Mussolini aveva un diploma di maestro elementare, ndr.), che quella guerra era fatta proprio per loro, per i contadini di Gagliano, che avrebbero avuto finalmente chissà quanta terra da coltivare, e una terra buona, che a seminarla la roba ci cresce da sola. Ahimè, i due maestri parlavano un po’ troppo della grandezza di Roma perché i contadini potessero credere a tutto il resto. Scuotevano il capo diffidenti, silenziosi e rassegnati. Quelli di Roma volevano fare la guerra e l’avrebbero fatta fare a loro. Pazienza!” (Pag.122 di “Cristo si è fermato a Eboli”, Einaudi 1949). Il tricolore che sventola, ma “che cosa hanno a che fare con quei colori sgargianti i contadini? Il loro colore è uno solo, quello stesso dei loro occhi tristi e di loro vestiti, e non è un colore, ma è l’oscurità della terra e della morte. Le altre bandiere sono i colori variopinti di quell’altra civiltà, spinta al moto e alla conquista, sulle vie della Storia; e di cui essi non fanno parte. Ma poiché essa è più forte, e organizzata e potente, essi devono subirla: oggi si moriva, non per noi, in Abissinia, come ieri sull’Isonzo e sul Piave, come prima per secoli e secoli, dietro i più vari colori, in tutte le terre del mondo” (pag123). Costantino Cossu, giornalista professionista, laureato alla “Carlo Bo” di Urbino ( facoltà di Sociologia e Scuola di giornalismo) che cura le pagine di Cultura della “Nuova Sardegna”, e collabora col “Manifesto” ( ha anche scritto libri tipo: “Sardegna la fine dell’innocenza” Cuec 2001, “Gramsci serve ancora?”, edizioni dell’Asino 2009), scrive che c’è una linea di continuità tra “Cristo si è fermato a Eboli”(1945), l’opera maggiore di Carlo Levi e “Tutto il miele è finito” (1964) in cui lo scrittore torinese ricompone in un unico originale racconto i viaggi compiuti in Sardegna in tre occasioni ( nel 1952, nel 1955 e nel 1962) per altrettanti reportage apparsi sul mensile l’Illustrazione italiana e sul quotidiano La Stampa.

In ambedue i libri, scrive Cossu, centrale è la figura dell’osservatore. Centrale è la sua crisi dei riferimenti di valore, dell’intellettuale Levi, alla ricerca di un suo equilibrio esistenziale e di una sua funzione sociale nel rapporto con un’umanità arcaica in cui riconoscersi e dalla quale essere riconosciuto. Nel suo “Ripensare Carlo Levi e la Sardegna” in “Dialoghi Mediterranei” 2022, Cossu cita il saggio della storica Valeria Deplano: “Cristo non si è fermato a Cagliari. La Sardegna degli anni cinquanta e sessanta”, in cui dapprima richiama le perplessità e anche la critica radicale che, nel panorama nazionale, accompagnarono la pubblicazione del volume sull’esperienza lucana: “…l’immobilismo e la separatezza con cui i contadini venivano descritti-scrive Deplano-e ancora più la proposta emancipatoria che ne conseguiva e che non prevedeva la collaborazione con gli operai e gli intellettuali (cosa che teorizzò Antonio Gramsci nei suoi scritti dei “quaderni del carcere”,ndr.), nel dibattito del tempo valsero a Levi diverse critiche e prese di distanza, specialmente in ambienti marxisti”. Tra gli intellettuali sardi, e in particolare tra i collaboratori della rivista “Ichnusa” diretta e fondata da Antonio Pigliaru si aggiungeva un altro motivo di dissonanza.

Ritenevano infatti che la realtà sarda fosse molto diversa da quella lucana, descritta da Levi. “In Sardegna i contadini non erano mai stati slegati dal resto della società e gli intellettuali sardi, per le loro peculiari caratteristiche sociali, ben lungi dal rappresentare – come nel Meridione d’Italia-un fattore regressivo potevano essere al contrario un soggetto centrale nel processo di emancipazione dell’Isola”. Anche l’antropologo Alberto Maria Cirese, nel 1963 scriveva che: “Il carattere conservativo della fisionomia sarda e il suo profilo arcaico non nascono da un’assenza di storia: sono invece il risultato di un modo particolare di essere nella storia mediterranea…in Sardegna nulla è rimasto immutato nel tempo.

Ogni età ha aggiunto qualche cosa e ne ha cancellato o trasformato qualche altra; la vita interna ha accolto o rifiutato ciò che giungeva dall’esterno e ha sempre ridimensionato e adattato ciò che accoglieva, producendo inoltre forme e sviluppi propri. Non è quindi possibile appiattire ogni cosa sul livello più arcaico… Le ragioni della tipicità e della singolarità della tradizione sarda non vanno ricercate in una improbabile autoctonia o in una spesso incerta antichità. La fisionomia “sarda” nasce invece dal modo di reagire agli apporti esterni e dalle capacità di sviluppo interno (Mario Alberto Cirese, “Sardegna tra mito e realtà storica”, in “All’isola dei sardi”, 2006).

Il cuore del racconto dei due libri, fatto salvo che il “Cristo si è fermato a Eboli” è capolavoro assoluto della letteratura italiana, è, a parere di Costantino Cossu, la volontà di acceder attraverso la scrittura, a quella “regione ignota, prima dell’infanzia, piena di selvatica grandezza” di cui lo stesso Levi parla nelle prime pagine sul libro della Sardegna, che non a caso descrivono l’inabissamento del viaggiatore-osservatore nel grembo buio di un nuraghe millenario. “La narrazione dei contadini lucani e dei pastori sardi è il ritratto di un’alterità radicale. Radicale proprio in quanto astorica. Un’alterità che nel momento stesso che viene alla luce sulla pagina destruttura irrimediabilmente il soggetto che osserva imponendosi come la rivelazione di un assoluto che suscita, insieme, seduzione e orrore. La seduzione di un nuovo orizzonte di senso, l’orrore della perdita del sé Narciso dell’individuo borghese”. 

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