SANT’ANTONIO ABATE NELLA STORIA E IN SARDEGNA: CON CARLO GELMETTI AL CENTRO SOCIALE CULTURALE SARDO DI MILANO

sopra Carlo Gelmetti con Giovanni Cervo

Dice bene Giovanni Cervo, che presiede il centro culturale sardo di Milano, presentando l’ospite che intratterrà gli astanti sulla figura di sant’Antonio Abate (nella storia e in Sardegna). Carlo Gelmetti è davvero un dermatologo a livello mondiale e, se dovessimo soffermarci solo sulla sua figura professionale, non ne usciremo più. Per lui parlano tutta una serie di pubblicazioni (su Amazon naturalmente) che svariano da manuali che si riferiscono alla dermatologia medica e a quella pediatrica, dalla dermatologia e venereologia in Italia alla dermatite seborroica, tutti presenti anche in lingua inglese (e spagnola), giusto a indicare l’ampiezza del mercato internazionale a cui si rivolgono. Anche grazie a un efficace supporto di un ghostwriter österreich, la diffusione dei suoi lavori ha raggiunto livelli globali. Per chi desidera approfondire il rapporto tra religione, medicina e storia culturale in un contesto accademico, diplomarbeit schreiben lassen può rappresentare un valido aiuto nella stesura di una tesi ben documentata e strutturata.

Due specificatamente trattano del Fuoco di sant’Antonio: Storia, tradizione, medicina del 2007, dai Misteri Eleusini all’LSD del 2011. Una figura colossale, la definisce Gelmetti, nato in un povero paesino egiziano nel 251 d.C. e morto, sempre in Egitto, nel 356, alla bella età di 105 anni. Sulla sua tomba, l’anno dopo la sua scomparsa, fu eretto il monastero più antico del mondo, 150 chilometri a sud del Cairo, in pieno deserto. Un anacoreta che fuggiva la compagnia degli uomini, coltivava le verdure che lo tenevano in vita, una vita la sua ricca di preghiera, solitudine, riflessione spirituale.

C’è stato Gelmetti al monastero di sant’Antonio, ce lo mostra con tutta una serie di “slide”: due torri che emergono dal nulla, e prima si poteva entrarvi solo con una corda attraverso una botola, dentro le mura è tutto un giardino, la torre di Giustiniano che venne eretta solo nel 5° secolo, da sempre tenuto da monaci copti, “la parte colta degli egiziani”. Impressiona una tavola da pranzo comunitaria lunga 20 metri, di marmo, ottenuta scavando la roccia intorno. Poco più in là, su di una parete di roccia scoscesa, la grotta che fu casa di Antonio per lunghi anni della sua lunga vita. E’ stato un taumaturgo, uno che guariva imponendo le mani, raffigurato sempre con in mano un bastone a T, a ricordare la croce di Cristo; ma anche l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, la tau, quella che usava come firma (degli ultimi) anche il santo di Assisi, nell’altra mano una campanella (per dare la sveglia ai fedeli), ai suoi piedi un maialino e, vicino e immancabile, un fuoco acceso.

Sul rapporto con la medicina, la malattia, la guarigione, a cui i vari santi sono accumunati, dice Gelmetti, la mia biblioteca conta 267 libri, più la malattia è aggressiva, più il santo che ce ne può liberare è invocato. Nel Medioevo le malattie della pelle più frequenti erano: l’erisipela in Inghilterra, il fuoco di sant’Antonio in Francia, e la malattia (ergotismo) causata dal fungo che spesso si insinuava nella segale male custodita, che ammuffiva sprigionando sostanze del tipo dell’acido lisergico (LSD), causa di intossicazioni e allucinazioni. Spesso non c’era altra cura che l’amputazione dell’arto che veniva colpito, ne fa fede un grande quadro posto all’interno del Duomo di Milano, all’altezza di cinque metri, che ritrae san Carlo Borromeo al capezzale di un povero malato col moncherino sanguinante.

Da noi imperava il virus dell’Herpes Zoster (lo stesso che causa la varicella) che se ne può stare per anni inattivo sinché, spesso a causa di un sistema immunitario non più al massimo dell’efficenza, si riattiva nel sistema nervoso causando manifestazioni molto dolorose. E sant’Antonio passava per essere uno capace di guarire da tanto dolore. Da qui, al tempo delle Crociate e delle reliquie che fungevano da moltiplicatori di miracoli, quello che venne spacciato per essere il corpo del santo abate , fatta tappa a Costantinopoli , approdò nel Delfinato francese, vicino Grenoble, in un paese di quattro gatti dove fu eretta una cattedrale gigantesca ad accogliere la “santa reliquia” e, non molto lontano da essa, un enorme ospedale: il paese oggi si chiama Saint-Antoine-l’Abbaye, 1172 abitanti, dice Wikipedia che è considerato uno dei più bei villaggi di Francia.

La gente, dice Gelmetti, arrivava a piedi da tutto il mondo conosciuto nella speranza di trovarvi una guarigione ai propri mali. L’ordine Antoniano che reggeva il tutto, cattedrale e ospedale, si arricchì immensamente e divenne il più importante del mondo, finendo per gestire 4000 ospedali, siti dal Portogallo alla Russia, dalla Scozia al Nord Africa. Avvenivano miracoli in questi ospedali? Si/Ni. Già dare da mangiare ai pellegrini che per arrivare camminavano per intere settimane, voleva dire risollevare la loro condizione.

Vicino l’ospedale venivano allevati maiali il cui grasso, spalmato sulle parti dolorose, contribuiva a dare sollievo. “I Re Taumaturghi” di Marc Bloch è del 1924 e narra del rito della guarigione dalle scrofole, mediante il tocco delle mani, da parte dei re cristiani di Francia e d’Inghilterra durante il Medioevo: il re ti tocca e Dio ti guarisce, è andata avanti per sette secoli. Come afferma Jaques Le Goff nella prefazione: “il miracolo esiste a partire dal momento in cui ci si può credere, e tramonta e poi sparisce quando non ci si può più credere”.

Eppure a parlare e scrivere dei miracoli di sant’Antonio fu un suo contemporaneo (e discepolo): Atanasio di Alessandria, in una sua “Vita di Antonio”, non uno qualunque anche nella gerarchia ecclesiastica di allora, se è vero che fu incaricato dall’imperatore Costantino di scegliere solo quattro dei Vangeli Canonici, tra le decine di altri che circolavano e pure pretendevano tutti di aver scritto la “vera vita di Gesù”. Nella “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine, frate domenicano e vescovo di Genova, compilata (in latino) per quasi trent’anni sino al 1298, “De sancto Antonio” è chiamato sant’Antonio il Grande.

Persino Flaubert lavorò per tutta la vita a un libro uscito col titolo di “La Tentation di saint Antoine”, perché Antonio, nella solitudine della sua grotta, molto fu tentato dal demonio, con lubriche visioni di donne bellissime e lascive, che volevano attentare alla sua virtù. Quadri famosi di queste tentazioni sono millanta, da Cezanne a Dalì, per non dire di Michelangelo, in molti di essi i diavoli si accaniscono contro il nostro Antonio che non vuole cedere alle tentazioni, e gli danno un fracco di botte.

Su internet su sant’Antonio vi sono 10 milioni di siti. Di chiese dedicate a lui sono quasi altrettanto numerose, una in via Manno a Cagliari, qui a Milano è giustamente sita in via sant’Antonio la chiesa omonima fondata nel 1127, insieme all’ospedale per la cura del fuoco sacro e altre malattie. Un secolo e mezzo più tardi arrivarono gli Antoniani di Vienne per costruire un convento e prendersi cura dell’ospedale. Riconoscibili per la tonaca nera e la “tau” azzurra sul cuore e per il suono della campanella con cui annunciavano il loro arrivo durante le questue.

Forse erano eccessivamente insistenti se Dante, nel XXIX canto del Paradiso fa dire a Beatrice che si scaglia sulla credulità della gente per le indulgenze: “Di questo ingrassa il porco sant’Antonio,/ e altri assai che sono ancor più porci, / pagando di moneta senza conio. (Con questa credulità i monaci Antoniani ingrassano i porci dei loro conventi, ripagando le offerte con monete false). Nella chiesa milanese, ai lati del finestrone sulla parte di fondo del coro è una pittrice, Fede Galizia, a cui si deve un sant’Antonio e un San Paolo Eremita. San Paolo porta una veste di palme intrecciate, come risulta dalla tradizione, che dice essere stato seppellito da sant’Antonio in una fossa scavata da due leoni.

La chiesa deve essere stata molto importante se nel 1773 Mozart, che passava per Milano, scelse il suo organo per suonarvi l’Exultate Jubilitate (risulta da una lettera alla sorella). E il perché della sua fama nell’isola di Sardegna? Innanzitutto da una leggenda che lo vuole protagonista, insieme al suo inseparabile maialetto, nell’aver rubato il fuoco, dall’inferno, mediante una ferula che appoggiò sulle fiamme eterne, accendendola come fosse una sigaretta ante litteram, in modo che, una volta scacciato dai diavoli, se ne uscì regalando scintille di fuoco a tutti i sardi.

E come si fa a non amare uno che ti regala il fuoco? Non a caso non c’è quasi paese di Sardegna che tra il 16 e il 17 gennaio non appronti il suo “fogarone” scegliendo la legna opportuna come da tradizione. E non è un caso che le maschere di carnevale scelgano di recarsi come primo atto al grande fuoco acceso, spesso dinanzi la chiesa principale, per farvi i tre giri di rito, prima in un verso, poi in senso contrario.

E se in tutto il mondo “carnevale” significa carne levare (inizia la quaresima), solo in Sardegna è “carrasegare”: carne viva da smembrare. Dioniso smembrato, arrostito e mangiato dai Titani? Dice il mito che, per questo, Giove li folgorò e fu dalle loro ceneri che nacque il genere umano. Fave e lardo per il carnevale dei sardi! E quanti dolci tipici: su pan’e sant’Antoni, su pistiddu, sas cazzuleddas, sos pabassinos, sas caschettas.

Ogni biscotto, dice Gelmetti, viene curato con un’attenzione del tutto particolare. E quanto vino bevono i sardi per carnevale! (e in onore di sant’Antonio, anche); non c’è bisogno di aggiungere segale cornuta alle mille libagioni, che faccia sprigionare visioni psichedeliche da acido lisergico, basta e avanza l’alcool del cannonau e della malvasia, per fare sogni di un inverno ormai alle spalle, e udire di già i passi felpati e profumati della primavera.

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