IL LIBRO “QUASI GIALLO” TRA REALTA’ E FANTASIA DI IGNAZIO SALVATORE BASILE: IL SEQUESTRO DI FABRIZIO DE ANDRE’, LA STORIA MAI SCRITTA

Ignazio Salvatore Basile

Mischiando momenti diversi della nostra storia patria è nato un romanzo pieno di suspence e di riferimenti intriganti. Nel racconto – Sicuramente ligure, ma anche un poco sardocartaginese. Tra realtà e fantasia, storia del sequestro di Fabrizio De André (Dei Merangoli Editrice, 2024) – scritto da Ignazio Salvatore Basile, l’espediente letterario ha un suo fascino, perché la vicenda del sequestro del cantautore genovese e di Dori Ghezzi, avvenuto in Sardegna nel 1979 per mano dell’Anonima sequestri, si incrocia volutamente con la storia delle Brigate Rosse e di Barbagia Rossa. “Mi piace la definizione di quasi–giallo. In effetti c’è un mistero attorno a certe vicende delle Brigate e ai loro agganci con Barbagia Rossa: tu hai mangiato la foglia del mio espediente letterario. Io ho sfruttato in qualche misura il mistero che avvolge questa pagina oscura della storia del terrorismo sardo per i miei obiettivi letterari. Il motivo è complesso da spiegare. Una volta ho letto che certi personaggi, dopo che gli scrittori li hanno creati, vanno quasi per la loro strada, lungo i sentieri della storia, ribellandosi perfino all’impronta originaria che noi abbiamo inteso imprimere sulla carta per loro”, ha detto Basile.
Per molto tempo, dalla fine degli anni sessanta, sono agli inizi degli anni ottanta, la gioventù italiana sembrava essere giunta ad un bivio: stare dalla parte dei comunisti rivoluzionari o con i simpatizzanti delle brigate nere? “In realtà, quando ero giovane e inesperto, mi affascinavano le Brigate Rosse (e anche Barbagia Rossa), anche se il mio convinto e profondo pacifismo mi hanno impedito di aderire a delle organizzazioni che sembravano pronte a scatenare una guerra violenta per il potere. Se fossi nato in una realtà industriale della Liguria, magari sarei diventato come Dario (il protagonista del racconto ndr). Invece sono soltanto un reduce di una guerra che ho combattuto a modo mio, sulla mia pelle”, afferma lo scrittore.
C’era fra i giovani sessantottini la voglia di cambiare il mondo con un bagno di sangue. La rivoluzione sembrava il modo giusto per cambiare pagina. Essere riformisti in quel tempo voleva dire – per i pseudo rivoluzionari – essere di destra, eppure le grandi conquiste sociali In Italia Paese sono il frutto di battaglie combattute giorno per giorno nelle aule del Parlamento. “La mia generazione, quella nata negli anni “50 – conferma Basile – sentiva di dovere cambiare il sistema: ma molti di noi hanno preso delle strade diverse, da quelle della via pacifica, del riformismo dall’interno e con i sistemi democratici e non violenti”. In quel tempo c’era fermento, ma spesso questo attivismo politico ha favorito interessi criminali. “Molti di noi sono diventati terroristi, altri hanno preso la via della droga, magari sui sentieri dell’Oriente”.
In buona sostanza, la voglia di rivoluzione prende altre strade. Brutte strade. “Mi vengono mente – dice l’autore – i versi di Allen Ginsberg, ripresi poi da Guccini nella sua canzone Dio è morto: “Ho visto le menti migliori della mia generazione morire, lungo le strade che non portano mai a niente, annichiliti dagli acidi e dalla droga…”. Io non saprei dire davvero se invece siamo noi, i sopravvissuti, i migliori della nostra generazione, e non quelli morti a causa della droga o sulle vie del terrorismo”.
Fare raffronti è difficile, ma Basile ha delle certezze: “Quello che però è certo, e lo stigmatizzava anni fa Umberto Eco, in una rubrica che teneva sul settimanale L’Espresso” (La Bustina di Minerva, mi pare si chiamasse), è che se si osserva la classe politica italiana, notiamo un vuoto: nella leadership politica, ai massimi livelli, intendo dire, si è passati dai nati negli anni venti, trenta e quaranta, direttamente ai nati negli anni sessanta e settanta”. Una constatazione dolorosa, un punto interrogativo che lascia sgomenti. “Dove sono quelli nati negli anni cinquanta? Si chiedeva Eco. La mia idea su De André coincide con quello che ho scritto nel romanzo. In fondo Dario, il personaggio principale, è un alter ego di Fabrizio. Il cantante, lo scrivo anche nel romanzo, ma lo dichiarò anche lui in molte interviste, era d’accordo con le teorie dei brigatisti sulla società capitalistica e in particolare sull’immobilismo catto-democristiano che dominava ancora negli anni settanta e che Aldo Moro aveva inutilmente cercato di spezzare aprendo ai comunisti di Berlinguer. Soltanto che il democristiano era pacifista e contrario alla violenza. Dario, nel romanzo, dice che era troppo comodo per un borghese straricco come lui fare discorsi pacifisti”, ragiona lo scrittore, riportando alla luce uno dei più grandi fallimenti politici di quella generazione.
De André comunque non era un brigatista, la sua cultura, di formazione borghese, preferiva assenza di governo o di autorità imposta. Avrebbe preferito un mondo senza leader. “L’anarchia di De André? Fabrizio si sentiva, per certi versi, più vicino ai cattolici che non ai comunisti. Lui in realtà detestava il comunismo, con tutto quello di bigotto e di retrivo c’era nel loro modo di essere e di pensare. Dario è davvero emblematico di un certo atteggiamento di molti giovani. All’inizio aveva scelto una posizione di attesa di cui la nostra generazione si ricorda molto bene: “Né con lo Stato, né con le Bierre”, ricorda l’autore.
Negli anni settanta, lo Stato democristiano sembrava un po’ troppo arrogante. Dario, l’altro alias di De André, alla fine si unisce alle brigate rosse, anche se è non mai stato veramente convinto di farlo. “È stato quasi spinto dagli eventi, dalla forza e dall’impeto di quegli anni terribili, in cui tutto sembrava possibile e lecito: anche cambiare il mondo con la forza. In quella trappola è cascato anche il protagonista del libro. In quella bolla di illusioni. Si è fatto trascinare dalla marea della rivoluzione; o magari dai riflussi del sessantotto, che in Italia sono stati particolarmente violenti”.
Chi non ricorda la rivoluzione del 77? “Forse fu persino più cruenta dello stesso 68. Negli anni settanta – dice Basile – le mie idee erano simili a quelle di Dario. Io non volevo stare né con lo Stato ,né con le Bierre. Stavo ad aspettare. Non mi riconoscevo nello Stato forse a causa delle stragi che hanno insanguinato l’Italia sin dal 1969 (con la strage di Piazza Fontana, che ha dato il via alla stagione della strategia della tensione e del terrore), di cui vennero accusati gli anarchici che non c’entravano per niente. Magari avranno avuto altre colpe, non lo so. Ma di quelle stragi non erano colpevoli”.
Gli anarchici non erano colpevoli di quei delitti, oggi è chiaro che c’erano altri disegni, e questi segni chi li aveva tracciati? “Oggi parrebbe assodato che le responsabilità per quelle stragi siano da ascrivere ai servizi segreti dello Stato italiano. Seppure deviati, essi appartenevano comunque allo Stato. Ecco in quello Stato noi non ci riconoscevamo. Ma in fin dei conti penso che siano giuste le parole di De André che si trovano riportate nel dialogo che intrattiene nei primi capitoli con Dario: “Il giorno che i terroristi prenderanno il potere, semmai lo prenderanno, faranno esattamente quello che stanno facendo i democristiani. Forse anche peggio, in termini di arroganza, di censura e di repressione. In realtà è il potere che corrompe gli animi”. In questo sta la grandezza di Fabrizio De André: “E questa è la differenza tra un genio come lui e una persona normale come me: io mi ero illuso che la rivoluzione potesse cambiare e migliorare l’Italia; lui, Fabrizio, invece, aveva già capito tutto”. O quasi, di sicuro non aveva previsto l’ingresso nella politica internazionale il nuovo corso di Trump.

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Un commento

  1. Grazie a Massimiliano e a Tottus Impari per l’attenzione. Ad maiora

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