A BURGOS, LA LOTTA ALLA MAFIA E’ CULTURA ED IMPEGNO CIVILE: NEL RICORDO DEL SACRIFICIO DI BONIFACCIO TILOCCA, UN VIAGGI NELLA MOSTRA DEL PITTORE GAETANO PORCASI

Parlare di mafia in Sardegna, fino a qualche tempo fa’, era un tabù. Terra conosciuta come “Anti- Stato” per eccellenza per via della sua “costante resistenziale”, esplosa nel banditismo sette- ottocentesco e nelle famose “retate” di fine XIX° secolo. Con il triste “corollario” dell’ Anonima Sequestri della seconda metà del XX° secolo, ora, nel XXI° secolo, deve “fare i conti” con il proliferarsi anche di una criminalità di stampo e matrice mafiosa. Perché in Sardegna la mafia c’è, esiste, e fa affari. Da tempo. E con diversi sistemi. E metodi. Ed alcune delle più recenti inchieste condotte dalla DIA nazionale lo stanno ad evidenziare. Ed a testimoniare. Non solo intimidazioni o traffico d’armi, “tipici” anche della criminalità locale, per cui l’isola ha il suo negativo primato. Ma, soprattutto, “terra- colonia” fiorente del traffico di stupefacenti, controllato direttamente da sodalizi criminali per lo più, ora, facenti parte di cosche ‘ndranghetistiche. Che hanno trovato il loro fertile humus non solo in Gallura e Costa Smeralda, ma anche nella Riviera del Corallo di Alghero e, soprattutto, in tutta l’area vasta dell’ Alto e Medio Campidano. Con “propaggini” importanti nelle storiche aree interne delle Barbagie e del Goceano. Laddove l’Anonima la faceva da padrona. Ed i cui “vecchi arnesi”, ora, si sono ben “prestati” al servizio delle cosche ultratirreniche. Rinsaldando, comunque, antichi “sodalizi” che vi sono sempre stati. Perché il crimine, qualunque sia la sua origine, “non ha confini”.

Ed è in questo senso che vanno lette tutte una serie di iniziative che Burgos, piccolo centro del dimenticato Goceano, “isola nell’isola”, ha messo in atto per il 2024, proclamato dall’ amministrazione locale “anno della Legalità” per eccellenza. Per vari ordini di motivi. Culturali e storici. E per non dimenticare. Ma ricordare. E tramandare. Alle nuove generazioni. Scriviamo di uno dei pochi comuni che, in un territorio, dilaniato da spopolamento, delinquenza e crisi economica, fa cultura. Il comune, guidato dall’ attenta sensibilità del sindaco Leonardo Tilocca, sostenuto dalla passione e dedizione del vice Salvatore Sechi, ha allestito, per il corrente anno 2024 un degno programma sulla legalità. 

Iniziativa tesa a ricordare il sacrificio, nel 2004, di Bonifacio Tilocca, padre dell’allora primo cittadino Peppino Tilocca, vittima, ai tempi, di una serie di attentati come amministratore. “Colpa” di Peppino, quella di essere stato, fra il 2000 ed il 2005, a capo di un’amministrazione, con una serie di  iniziative culturali di rilievo (tra cui l’aver ospitato, per l’associazione Sardegna- Palestina, nientemeno che padre David Jaegher, israeliano “pro” due Stati, docente di Diritto Canonico alla Pontificia Università Antonianum di Roma e consultore della Congregazione per le Chiese Orientali, per il Clero e del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, n.d.r.). Iniziative che avevano “animato” anche tutto il Goceano. Non dimenticando lo storico gemellaggio con la città spagnola di Burgos, rinnovato per più anni. La sensibilità culturale di quell’ amministrazione era, poi, stata accompagnata da un’incisiva azione amministrativa che andava a “colpire” certi interessi di “camarille” locali dedite a preservare lo status quo. Ed iniziarono gli atti intimidatori verso il sindaco. Colpendo prima le cose. E cercando di “fare capire” che anche in Sardegna, sebbene sotto altre modalità, iniziavano a farsi sentire anche i “sintomi” del malaffare legato alla criminalità. Prima le bombe e gli attentati dinamitardi al patrimonio di chi, in questo caso, era “d’intralcio”, come il sindaco Peppino Tilocca, che aveva denunciato tutto in procura a Nuoro. Individuando anche possibili “piste”. Poi le persone, i suoi familiari. E, soprattutto, il padre, Bonifacio che, per conto suo, condurrà delle indagini, giungendo, molto probabilmente, ad individuare i veri responsabili degli atti intimidatori contro il figlio amministratore. E, proprio per questo, ucciso da una deflagrazione ad alta intensità innescata proprio sull’ uscio della propria abitazione di Burgos. Questa volta senza alcun intento intimidatorio. Ma con l’unico scopo di uccidere. Per dare un segnale chiaro. Era il 29 febbraio 2004. E Burgos, ma non solo, l’intero Goceano, “cadevano” nuovamente in una fitta “coltre” di omertà e silenzi. Per nascondere la vera matrice di un atto criminale. Che ha portato alla morte. Di una persona perbene. Bonifacio Tilocca, “vittima di mafia”. Si, in Sardegna, vittima di mafia. Cosi è stato definito e così è. Come nella biografia raccolta da “Libera”, che ne delinea la storia. In cui le vicende sue s’intrecciano imprescindibilmente con l’attività amministrativa condotta dall’ allora giunta guidata da suo figlio Peppino. Chi era, dunque, Bonifacio Tilocca? Una persona perbene, abbiamo scritto. Un ex operaio che, qualche decennio prima, per garantire un futuro ai figli, aveva deciso di trasferire la sua famiglia ad Oristano. Senza, però, recidere del tutto i legami con il suo paese di origine, Burgos, in cui ritornava ogni fine settimana. E motivo per cui suo figlio Peppino deciderà, nella tornata amministrativa del 2000, di impegnarsi in prima persona. Alla guida di una lista civica fortemente connotata ed impegnata. A sinistra. Nel partito della Rifondazione comunista. Saranno, quelli, gli anni di una “primavera” civile, culturale e sociale, bruscamente interrotti dal sanguinoso attentato dinamitardo del febbraio 2004. Ma che non faranno arretrare di un centimetro le battaglie civili e sociali di Peppino Tilocca. Una volta concluso il mandato elettorale, nel 2005, abbandonerà la politica. Vincerà il concorso da dirigente scolastico nell’ Oristanese. Ed andrà a testimoniare anche la sua passata esperienza amministrativa negli istituti della Provincia. Dalla parte della legalità. 

A vent’anni di distanza, ora, una nuova amministrazione, portatrice di una ventata di “primavera culturale”, propone un ricco ed articolato programma. Per riflettere. E riportare il Goceano e la Sardegna a “fare i conti” con la propria storia. Che è anche questa. La mostra di Gaetano Porcasi, pertanto, ci aiuta anche in questo. Oggi è conosciuto come “il pittore antimafia”. Termine che, però, lui stesso, ha rifiutato per non ricadere nel comune cliché dell’antimafia di facciata. Purtroppo, ora, diventato un atteggiamento conformista dominante di tutta la società odierna.  Per lui, ritornare in Sardegna, in Gocéano (dove ha vissuto anche ad Anela), è stato quasi un “ritornare a casa”. Prima di passare di ruolo come docente di discipline artistiche nella sua terra fra Monreale e Partinico, il maestro Porcasi, negli anni Novanta, è stato, infatti, docente ad Alghero, Tortolì, Olbia, Anela, Bono, Benetutti. Conoscendo, nel più profondo, la bellezza, la ricchezza, la povertà, le problematiche e le mille contraddizioni che rendono unica la Sardegna. Ed è per questo che, il 31 Luglio, nell’ inaugurare la mostra (rimasta esposta eccezionalmente per due mesi), l’artista palermitano ha omaggiato l’amministrazione comunale del piccolo centro del Governo di un suo quadro su Giovanni Maria Angioy. Per rinsaldare un legame, anche con la Sardegna, che non è venuto mai meno. Anzi, nel corso degli ultimi anni, si è nuovamente rinsaldato anche grazie al conferimento all’artista, nel 2012, da parte del comune di Sestu, del premio Emanuela Loi. Ma anche per portare i sardi a riflettere ed a conoscere da vicino il fenomeno criminale mafioso. E Burgos, grazie all’ impegno di Salvatore Sechi, vicesindaco, e del sindaco Leonardo Tilocca, ha colto al volo l’opportunità. Inserire la mostra ed i quadri di Porcasi nell’ambito delle iniziative dell’anno della Legalità dedicate al compianto Bonifacio Tilocca. Perché anche in Sardegna si continui a parlare di legalità e di mafia. La mostra, la prima del suo genere nella nostra isola.

Partiamo, quindi, da lui, dal pittore- artista e testimone e dalla sua opera per arrivare alla mostra ed ai quadri esposti a Burgos. Innanzitutto, l’autore. Un uomo che ha capito, anche sulla sua pelle, cosa vuol dire “fare didattica dell’arte nella scuola di oggi”. Uno che, dopo aver formato alla disciplina studenti sardi e siciliani, ha vissuto una parabola artistica che lo ha portato a collaborare con artisti di fama internazionale ed a varcare, per notorietà, i confini nazionali.

Parliamo di un uomo che, fin da piccolo, è stato seduto a raccontare ed a “scrivere con il pennello”. Ed, allo stessi tempo, di un pittore in erba sempre interessato alla realtà, in particolare quella tinta di mafia. E, con questa realtà, fin da subito, ha iniziato ad imparare, ad interagire ed a decodificare il codice mafioso rilasciato da chi aveva colto il valore di denuncia della sua opera. Con tanto di intimidazioni e minacce alla sua famiglia. “Perché sento quello che devo fare”, è stata la sua prima risposta alla madre che lo aveva interrogato. Questa mostra è, sostanzialmente, una visita virtuale al Museo della Legalità di Corleone, attraverso la figura e la testimonianza di Cosmo Di Caro, giornalista del “Giornale di Sicilia”, conosciuto anche dal sottoscritto nel lontano maggio 2005. Una “Casa della Legalità” costruita su un edificio confiscato alla mafia. Per essere chiari. Non una mafia qualsiasi. Ma quella di Bernardo Provenzano a cui quel palazzo apparteneva. Il giornalista corleonese gli offre l’opportunità di “ravvivare” il luogo confiscato con la sua “pittura di denuncia” del sistema mafioso. Porcasi, dopo un momento di titubanza iniziale, dovuto alle minacce ed alle forti pressioni subite, decide di aderire al progetto, facendolo suo. E lo fa alla sua maniera: inserendo le sue opere dove racconta le vicende di vittime e carnefici. È per questo che il quadro dell’autore “si apre” subito alla vera e propria “questione artistica”. L’opera ed i quadri sono dirette. Anche quelli esposti a Burgos. Essi fanno parte, nello specifico, di un volume importante curato dallo storiografo siciliano Giuseppe Carlo Marino, “La Sicilia delle stragi” (2007, Newton Compton). Circa dieci tele che raccontano e denunciano. In cui l’artista richiama la sua voce immediata e l’impatto incisivo. Ecco perché la definizione di “pittore antimafia” diventa, per lui, qualcosa di “stretto” e poco adeguato. Oggi, infatti, l’antimafia non è più qualcosa di reale. È “facciata” e rito. L’antimafia si è smaterializzata. È diventata “parola flatua”, utile solo a quelli che Leonardo Sciascia definiva “i professionisti dell’antimafia”. Egli preferisce parlare di “impegno civile”. La sua produzione, complessiva di ben 1800 opere, proprio per questo, “racconta” una lunga storia. È la storia unitaria italiana che affronta non solo la questione mafiosa, sempre centrale nella sua produzione artistica. Una storia complessa e tragica fatta di lotte sociali e di rivendicazioni soffocate. Opere in cui emerge il valore civile dei leader che hanno guidato o promosso quelle battaglie. Con il risuono, inequivocabile e netto, della condanna della violenza, del sopruso del potere, della collusione e dell’omertà. E sono questi i temi che accompagnano la splendida mostra di Burgos, che ora ripercorriamo.

I quadri che sono stati esposti a Burgos ripercorrono, sostanzialmente, questi temi. A partire dalla lotta civile. Ben illustrata e rappresentata dal quadro citato omaggio su Giovanni Maria Angioy e la Sarda Rivoluzione del 1794. Regalo dell’artista all’ amministrazione comunale, certo. Ma anche “omaggio simbolico” a tutta la Sardegna. Anche con quelle frasi, appositamente scelte, e tratte da Procurade ‘e moderare, la “marsigliese sarda”, di Francesco Ignazio Mannu: “Custa populu est s’ora de istirpare sos abusos/  A terra sos malos usos/ A terra su dispotismu”. È il quadro contro il sopruso del potere. Che anche la Sardegna ha subito. Più volte. Nella sua storia plurimillenaria. Nel quadro donato, questo spaccato emerge chiaramente con l’Alternos in primo piano. E tutto un popolo al seguito. Come inizialmente fu.

La mostra, poi, prosegue, seguendo il tema, inesorabile e netto, della condanna della violenza. Partendo dai numeri, i cosiddetti “numeri civici” di Porcasi. Numeri che indicano l’anno in cui è stato commesso il reato. Ma anche numeri che indicano la progressione e la gradualità. E che uniscono la collettività.  Numeri che, poi, sono diventati, sostanzialmente, anche la sigla del suo operare. Anche per il fatto che le case siciliane, spesso, venivano colorate con l’azolo per allontanare gli insetti. Con lo sguardo dell’artista ricadente sempre su quel numero civico spiccante e dominante su quelle facciate così colorate. Ecco, quindi, che i “numeri- anni”sono diventati la “firma” del pittore Gaetano Porcasi e le facciate colorate delle case i suoi quadri. Tutti olio su tela, con linguaggio popolare, di tinte forti e violente. Come quelle dei carretti siciliani.

Il primo quadro “cronologico” di violenza che abbiamo trovato esposto a Burgos, è  “79”, rappresentante l’omicidio del giudice Cesare Terranova e del maresciallo Lenin Mancuso. Era il 25 settembre. Il giudice Terranova è stato uno dei primi magistrati a “fare paura” alla mafia alla fine degli anni Settanta. E come tale morirà, sanguinosamente freddato. In quel “chilometro quadrato di morte” in cui, saranno assassinati, poi, anche Boris Giuliano, Piersanti Mattarella e Rocco Chinnici. Il maresciallo Mancuso, invece, morirà dopo essere stato trasportato in ospedale. La tela di Porcasi è quanto mai realistica e d’impatto. Nel quadro, a sfondo bianco e blu, emerge la figura del giudice Terranova, prima in vita, sorridente. E poi senza vita, crivellato di colpi, accasciato sulla sua macchina dalla parte del volante di guida. E lo sfondo bianco e blu della tela, dominante.  Ad ogni indicare il tempo. Un tempo di una “mafia rudimentale”. Delle origini. Un tempo in cui le case siciliane venivano pitturate in sole calce ed azolo, i colori dello stato rudimentale per l’edilizia di allora.

Altro quadro cronologico e “d’impatto” è stato quello dedicato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con il numero “82” bene impresso nello sfondo bianco e blu. Con, in secondo piano, la vita rappresentata dal volto sorridente del generale che aveva debellato il terrorismo ed, in primo piano, la macchina ricoperta dal telo bianco con i corpi esamini del prefetto, della moglie Emanuela Setti- Carraro e dell’agente Domenico Russo.

Questa sezione è proseguita con il quadro raffigurante il martirio, perché tale fù, del giudice Rosario Livatino, morto in odore di santità, “90,” su sfondo bianco e blu e con in primo piano la macchina utilitaria, da lui utilizzata per recarsi al lavoro al tribunale di Caltanissetta, crivellata di colpi. Con la scritta emblematica, cronachistica: “Rosario Livatino, 21 settembre , Canicattì (Ag)”.

La parte si è chiusa con la “Quadrilogia del 1992”, quella triste e dolorosa: Capaci e Via D’Amelio, innanzitutto. Con l’aggiunta del quadro raffigurante il giudice Borsellino e Rita Atria (1974- 1992), ragazza di 17 anni di Partanna (Ag), vissuta in ambiente mafioso (fu ripudiata dalla madre) che, avendo fiducia nel giudice Borsellino, aveva deciso, assieme all’allora cognata, e futura deputata, Piera Aiello di collaborare con la giustizia, pur non essendo ancora testimone. Si toglierà la vita una settimana dopo “Via D’Amelio”. Quadro emblematico di questa sezione é quello  “19 Luglio 1992” con, in evidenza, il “divieto di sosta” per la criminalità. E la frase di Seneca, ben scolpita e reinterpretata in senso cristiano: “La Verità non muore mai” al cospetto dell’inganno mafioso.

Un quadro a parte é quello raffigurante il bambino Claudio Domino (1975- 1986) ucciso il 7 ottobre 1986 a Palermo dalla mafia forse perché testimone scomodo.  Un bambino di undici anni, vittima innocente.

Una parte centrale della mostra, profondamente legata a quella definizione che Porcasi preferisce di “pittore di cronaca”, che racconta con i quadri la lotta alla mafia e la società, è stata quella dedicata ai giornalisti vittime di mafia: dal quadro raffigurante Peppino Impastato e Mauro Rostagno, passando per quello “85” di Giancarlo Siani, “cronista del Mattino ucciso in un agguato”. E concludersi con quella generale rappresentazione e rievocazione, come un “puzzle”, di giornalisti uccisi e delle loro testate di appartenenza. Tutti da ricordare e scolpiti nelle nostre memorie: Mauro Rostagno, giornalista di Trapani ucciso nel 1988, Giuseppe Fava, mitico fondatore della rivista “I Siciliani”, ucciso nel 1984, Cosimo Cristina, fondatore di “Prospettive Siciliane” ed ucciso nel 1960 in una situazione di “apparente suicidio”.  Altri nomi “impressi” nella tela ricomposta come “puzzle” sono quelli, ovviamente, di Peppino Impastato, fondatore di Radio “Aut” ed ucciso nel 1978, di Mario Francese, cronista giudiziario di “grande fiuto”, ucciso nel 1979, primo ad avere individuato gli interessi dei “corleonesi” nei territori e nei fondi agricoli attorno a Palermo alla fine degli anni Settanta. Senza dimenticare ancora il già ricordato Giancarlo Siani, Beppe Alfano , insegnante e giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto ucciso  nel 1993. Ed il sacrificio di un giornalista sconosciuto, ucciso nel 1972, Giovanni Spampinato di Ragusa. Freddato proprio nella  ricca provincia iblea, allora definita “tranquilla” ma che, in realtà, proprio tranquilla non era mai stata, confermandosi fulcro di inequivocabili intrecci di interessi mafiosi e mondo eversivo legato alla destra. Di cui il giovane cronista ibleo fu vittima.

Infine, il percorso di Burgos ha raggiunto il suo culmine con le emblematica “tele” della mafia nelle istituzioni e  delle elezioni”.

E con un invito, quanto mai esplicito, ben rappresentato da quella forbice sovrastante la scheda elettorale: i cittadini possono “tagliare” con la mafia non votando i corrotti. Come diceva Paolo Borsellino, il potere stà proprio in quella matita copiativa attraverso cui l’elettore- cittadino, se libero, diventa artefice del proprio destino, recidendo con il passato. L’arte ferma il tempo. E l’artista siciliano lo ha ben descritto. Ma “non ferma” Munch e quel “suo urlo straziante” di disagio e di sofferenza al cospetto dell’ingiustizia mafiosa non ancora divelta dalla nostra società. Neanche da quella sarda.

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Un commento

  1. Adriana SABOURET

    Ottime iniziative culturali perché la mafia va sradicata anche tramite la conoscenza e la diffusione fra i giovani di fatti e misfatti che hanno dilaniato le nostre terre.

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