L’EMIGRAZIONE SARDA E LA STORIA DI LUCIANO SARIGU DA DECIMOMANNU: QUANDO SI DICE, IMPARA L’ARTE E METTILA DA PARTE

Luciano Sarigu

Ci sono storie di vita che racchiudono spaccati di storia che ci fanno viaggiare a ritroso nel tempo. Sono storie vissute da uomini che hanno percorso strade polverose affrontando viaggi, di cui non ne conoscevano i contorni, ma si ritrovavano nel loro fluire, quando la mente andava troppo lontano ed il cuore stava accanto agli affetti più cari. Ma non è nella distanza labile e nemmeno nei limiti che potevano perdersi, ma piuttosto in quella mezz’ora che precedeva il pensiero prima della partenza, in quel frangente o scampolo di tempo dove il confondersi generava la brezza che conduceva alla meta. Il protagonista di questa storia ha percorso infinite strade, dietro l’ansia di scoprire nuovi cieli e nuove terre, dove si celava quella inquietudine di trovarsi errante dello spirito.

Luciano Sarigu nacque a Decimomannu il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre 1922. Secondogenito di sei fratelli, da bambino amava aiutare il padre Attilio nella bottega di sartoria di famiglia. Il padre era il sarto del paese (su maistu ‘e pannus) e a quei tempi lavorava tantissimo in quanto oltre a confezionare abiti maschili, si occupava anche del confezionamento e sistemazione delle divise dei militari, soprattutto le divise dei carabinieri residenti nella caserma locale, ma anche quelle degli avieri che soggiornavano presso l’aeroporto Militare di Decimomannu. Luciano apprese l’arte del cucito dal padre, ma non volle mai intraprendere il mestiere del sarto.

Subito dopo il percorso delle scuole elementari, il padre Attilio gli propose di scegliere se continuare gli studi o intraprendere il percorso lavorativo. Luciano in un primo momento scelse di lavorare, vigilando sul bestiame di un amico del padre. Ma ben presto, si rese conto che non era una mansione che gli s’addiceva. Riprese così gli studi, portando a termine a pieni voti la scuola di avviamento professionale, dove apprese l’arte dell’antico mestiere del muratore. Nel 1939, in base alle leggi vigenti del regime fascista, al compimento del diciassettesimo anno, Luciano fu chiamato ad espletare il servizio militare e dopo un anno si ritrovò in guerra, inviato in Jugoslavia.

E’ in un paesino lungo la costa Adriatica della Jugoslavia che Luciano vivendo a contatto con la comunità locale, fece del suo antico mestiere da muratore, un’arte per aiutare le famiglie nella ricostruzione, ristrutturazione interna ed esterna delle case distrutte dalla guerra e soprattutto nella realizzazione dei caminetti a legna per interni e forni per la panificazione. Utilizzava materie prime semplici ed essenziali, come la pietra, terracotta e cruda. Con grande maestria insegnò alla manodopera del posto, a realizzare mattoni di piccole-medie dimensioni di terra cruda, “su ladiri” che ben conosceva, perché utilizzati per erigere le mura delle case tradizionali in molte parti della Sardegna, soprattutto del Campidano, da dove lui proveniva.

Con l’evolversi del conflitto, fu trasferito in patria, dove durante l’avanzata degli alleati contro i tedeschi, si ritrovò a combattere sul fronte di Montecassino dove, nel febbraio del 1944 fu fatto prigioniero dai fascisti e consegnato ai nazisti che lo portarono in un campo di transito presso Fiumicino. I prigionieri in buone condizioni fisiche venivano deportati a lavorare in Germania. Luciano fu destinato a quel campo di smistamento, circondato dal filo spinato con l’alta tensione, dove i prigionieri vivevano in un totale degrado umano.

La grande fame annientava non solo il fisico, ma anche la mente, tanto da causare allucinazioni visive. Nel mese di Giugno del 1944, ormai stremato dalla fame e in condizioni disumane, Luciano fu ritrovato ancora vivo, semisepolto da altri commilitoni trucidati dai tedeschi in fuga.

Prima di riuscire a far rientro nella sua amata Sardegna, trascorsero diversi mesi tra il suo ricovero negli ospedali delle retrovie e il trasferimento per la riabilitazione, presso l’ospedale di Messina. Luciano alla fine del 1944, al sopraggiungere del Natale, con una nave mercantile riuscì finalmente a rientrare in Sardegna. Il viaggio durò tre giorni e tre notti.

La guerra non era ancora del tutto conclusa, ma lui fortunatamente non venne più richiamato al fronte. L’anno successivo, rincominciò a lavorare, portando avanti quell’antico mestiere che aveva appreso da adolescente. La sua passione e maestria era tale che divenne capomastro, creò una ditta individuale e assunse manovali apprendisti come collaboratori.

Con i suoi operai ogni sabato sera, si ritrovavano presso una piccola osteria del paese, dove durante l’inverno era usanza cucinare i tordi alla griva…al mirto (pillonis ‘e taculas). Is taculas venivano servite su un vassoio di sughero (su trubiolu), sopra la tavola allestita con fogli di carta paglia che solitamente, si utilizzava per avvolgere gli alimenti. Era in quel contesto che alla fine della cena, Luciano presentava ai suoi operai, i foglietti di carta ricavati dai sacchi di cemento dove, durante tutta la settimana, segnava le ore lavorative e insieme ai suoi collaboratori facevano i conti della settimana. A quei tempi la remunerazione avveniva a settimana lavorativa e i contributi previdenziali si tenevano nel libretto delle marchette, (libretto assicurativo) dove si applicavano i bolli che attestavano l’avvenuto pagamento dei contributi. Questo tipo di sistema previdenziale, iniziato in epoca fascista, rimase in uso fino ai primi anni settanta, quando venne sostituito con sistemi previdenziali più idonei per i lavoratori.

Negli anni successivi vinse diverse gare d’appalto. Tra cui quella per la realizzazione dei camini di areazione, nelle gallerie minerarie di Monteponi di Iglesias.

E’ proprio in questo periodo lavorativo durante la costruzione di un camino di areazione, in compagnia di un giovanissimo manovale di soli 14 anni che Luciano e il ragazzo restarono bloccati all’interno di uno di questi camini, dimenticati dal capo cantiere. A quei tempi non esistevano gli smartphone e le comunicazioni avvenivano soltanto verbalmente. Luciano, con il suo bagaglio di esperienze vissute in guerra, abituato a gestire situazioni di forte stress emotivo, non si lasciò sopraffare dalle emozioni, riuscì a tranquillizzare il ragazzo terrorizzato che piangeva disperato. Razionò le provviste e l’acqua per resistere fino al lunedì mattina, quando finalmente vennero fatti uscire dal camino di areazione. Ogni fine settimana, al termine del lavoro, faceva rientro a casa utilizzando una bicicletta con “is arrodas prenas”. Spesso viaggiava la notte e un giorno,
percorrendo la vecchia statale 130 che da Iglesias lo portava a Decimomannu, dopo ben 6 lunghe giornate lavorative di 10 ore ciascuna, all’altezza del bivio di Uta, a causa della grande fatica, un colpo di sonno lo fece uscire di strada scaraventandolo in un fossato laterale della carreggiata, fortunatamente riportò solo qualche abrasione ed ematoma.

Luciano e la sua impresa edile, furono protagonisti anche del restauro della cupola del campanile della chiesa di San Pietro Apostolo di Solarussa, nell’oristanese. Per la realizzazione dell’opera dovettero montare un’imponente impalcatura che durante i lavori di restauro salvarono la vita di Luciano. Infatti, poiché allora le misure di sicurezza erano pressoché assenti, durante una rovinosa caduta, restò incastrato con una gamba in un tubo dell’impalcatura e solo l’arrivo dei soccorsi, scongiurarono il peggio, fu liberato senza riportare traumatiche conseguenze.

Erano gli anni della ricostruzione in Italia e non sempre le materie prime in edilizia erano disponibili, anzi spesso scarseggiavano. Per l’acquisto del cemento bisognava recarsi a Cagliari presso la cementeria che si trovava a ridosso della ferrovia dello stato e dello stagno di Santa Gilla. Era la fabbrica “Santa Gilla” che con il suo cemento ha permesso, negli anni subito dopo la guerra, la ricostruzione di tante città italiane e paesi della Sardegna, rasi al suolo dai bombardamenti aerei. Luciano per trasportare il cemento da Cagliari a Decimomannu, utilizzava un carro trainato da cavalli, di proprietà di un cognato.

Per l’acquisto del prezioso materiale, era costretto a fare estenuanti file della durata di un giorno, per poi far rientro durante la notte, con i sacchi di cemento da 50 kg ciascuno. Il cemento veniva poi lavorato con la sabbia estratta dal letto del fiume Flumineddu, dove erano presenti diverse cave di sabbia e ghiaia. E’ in questo periodo che Luciano costruì la sua casa padronale, dove poi avrebbe vissuto con la sua famiglia.

Quando arrivò il grande giorno della “gettata di cemento” per la copertura del tetto della sua casa, gli amici e familiari, come allora si usava con s’agiudu torrau, aiutarono Luciano in tutta la fase dell’opera. Dopo la realizzazione del tetto, a quei tempi era usanza organizzare un grande pranzo, come forma di ringraziamento nei confronti di tutte le persone che avevano collaborato. Dei lunghi tavoli realizzati con is taulonisi utilizzati per l’edilizia, venivano posizionati sui mattoni o blocchetti e poi imbanditi con pietanze tipiche del luogo e con vini delle cantine locali. La festa si protraeva per tutta la giornata, in ricordo dell’evento e come forma di gratitudine per s’agiudu torrau.

Il 25 Novembre del 1950, Luciano si sposò con Consolata Meloni di Uta, una giovane ragazza che conobbe e di cui si innamorò, quando faceva le consegne degli abiti confezionati dal padre sarto. Da questa unione nacquero due figli: Franco e Marisa. Fortunatamente in quegli anni della ricostruzione, Luciano ebbe un gran da fare e tantissimo lavoro, tra cui una chiamata da parte di un suo ex compagno d’armi che viveva tra Genova e Savona. Era un impresario edile ed aveva necessità di personale di fiducia e specializzato per un appalto in Francia, dove dovevano erigere delle case popolari.

L’emigrazione in Sardegna tardò a manifestarsi, forse a causa della scarsa densità della popolazione, o per motivi ambientali, culturali e sociali. Un forte flusso migratorio interessò la popolazione sarda, soprattutto a partire dagli anni tra il 1953 e il 1971, coinvolgendo per lo più artigiani, braccianti e operai specializzati che si dirigevano verso la Francia e i paesi dell’Africa mediterranea.

Luciano partì per Lione negli anni tra il 1955/56, dopo aver lavorato in Lombardia e nel Veneto. Lavorò a Lione per due anni e nei giorni di ferie, faceva rientro dalla sua famiglia in Sardegna. La vita dell’emigrato era difficile per tutti, ma per un uomo come Luciano ex combattente della seconda guerra mondiale che la bruttezza della guerra aveva abituato ai sacrifici, la vita in Francia trascorreva e lui si adattava alle vicissitudini quotidiane, anche se ogni tanto si lasciava sopraffare dalla nostalgia e la lontananza dei suoi affetti più cari.

Negli anni tra il 1959/60 le Ferrovie dello Stato bandirono un concorso, Luciano partecipò superando egregiamente tutte le prove d’esame per manovratore/deviatore ferroviario. Cominciò così per Luciano un nuovo percorso di vita. Prima fu assunto presso lo scalo ferroviario di Milano Centrale e successivamente trasferito nella stazione di Vigevano. Dopo 5/6 mesi non vedendo alternative di trasferimento in Sardegna, cercò una casa dove ricongiungere tutta la famiglia. Anche allora gli ritornò utile quell’antico mestiere che imparò da ragazzo.

Grazie alla sua conoscenza nel campo dell’edilizia, restaurò durante le giornate di riposo, una vecchia cascina che si affacciava sulla sponda del canale di Cavour, nel centro del comune di Parona Lomellina, in provincia di Pavia. Rese questa cascina agibile ed abitabile con tutti i servizi, creando persino un bagno interno. Un vicino di casa estasiato dall’ingegno e dalla maestria di Luciano, gli chiese se a tempo perso, potesse fare altrettanto nella sua casa. Luciano con grande piacere e passione restaurò la casa del vicino, utilizzando le materie prime locali, come il mattone cotto a vista, intonacò gli interni con calce cemento e sabbia. Per lui fu uno scambio di favori e il signor Noè, in segno di gratitudine, gli regalò una vespa piaggio 125.

Finalmente nel 1962, Luciano ottenne il trasferimento in Sardegna e lui e la sua famiglia poterono far rientro nella loro casa di Decimomannu. Lavorò per due anni a Golfo Aranci e in seguito, presso la stazione di Decimomannu. Negli anni avvenire, Luciano non abbandonò mai l’antico mestiere del muratore, anzi…continuò a recuperare le antiche Maestranze e riprodurle con le conoscenze acquisite nel tempo, diventando la chiave di volta di un percorso in continuo divenire. Un uomo che ha intrapreso un viaggio che è partito dal più profondo sé e ha trasformato il divenire in una serie di nuove scoperte nelle quali “nuovo” ha valenza di “esperienza”.

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