di ANTONANGELO LIORI
Le due più importanti aziende casearie sarde stanno per mollare i pappafichi e stanno trattando la vendita dei loro stabilimenti a grandi gruppi internazionali, Lactalis e Granarolo.
Significa che andrà in mani straniere circa il 30 per cento del fatturato del pecorino romano.
Che succede? Il discorso è semplice: le nostre aziende sono affette da nanismo, il già minuscolo fatturato del pecorino è frantumato in miriadi di micro-aziende che, peraltro, non privilegiano la qualità della differenza ma sfornano lo stesso prodotto con gli identici fermenti.
Il settore ovino in Sardegna fattura circa 600 milioni di euro. La Granarolo da sola ne fa 1,7 miliardi; La Lactalis 30 miliardi; la 3 A di arborea in 6.000 ettari fattura 232 milioni di latte: il 40 per cento dl tutta la pastorizia sarda.
I produttori sono circa 17.000 che quindi mungono in media 20.000 litri a stalla.
Basterebbero 3.000 aziende da mille pecore l’una per ottenere un risultato migliore.
Le micro aziende da 200 pecore funzionerebbero se i pastori facessero, come i loro padri, prodotti di altissima qualità con le differenze di “terroir” che rendono onore alla tradizione. Per fare un esempio, il miglior formaggio al mondo è il Castelmagno che costa dai 40 euro in su, sino a 100 a seconda degli anni di stagionatura.
MA per ottenere un simile risultato serve una manualità che si è perduta, un rigore e una serietà nella produzione che non esistono, e un amore per il proprio lavoro che è ormai raro.
Il semicotto ogliastrino che fa mio compare Piero Melis sul Gennargentu di Villanova Strisaili, con i pascoli estivi proprio su Punta Lamarmora, vale 100 euro al chilo e non può essere paragonato con il formaggio dell’industria casearia.
Ma perché lui lo produca serve che quel formaggio sia fatto conoscere con una campagna di marketing che compare Piero da solo non può fare.
Non vedo via d’uscita diversa dal concentrare le produzioni di latte per l’industria in poche aziende e invece differenziare le produzioni minori con un target di altissima qualità.
Ma se vogliamo salvare la più interessante industria sarda occorre trasformare i contributi di sopravvivenza in incentivi per la trasformazione strutturale del settore.
L’illusione del mio amico Battistino Mureddu che il prezzo si può sostenere con gli scioperi e i versamenti di latte in piazza è autentica follia: gli importatori Usa non sanno neppure dove sia la Sardegna, figuriamoci cosa sanno dei pastori sardi. Non temono le bombe atomiche russe e volete che temano gli scioperi del latte? Se non arriva il pecorino romano semplicemente comprano un altro prodotto similare.
Sono invece sensibili alle grandi campagne di marketing perché queste creano i bisogni dei consumatori finali ai quali nessun importatore può opporsi.
Basta quindi con i contributi a pioggia e concentriamo i denari sugli investimenti culturali, strutturali, infrastrutturali e di mercato.
E facciamoci una domanda importante: se apriamo il frigorifero di qualunque pastore raramente troviamo formaggio fatto da lui. Dominano il parmigiano, l’emmental, il lerdammer. Perché? Io la risposta credo di averla. Ma se noi non siamo in grado di mangiare ciò che produciamo come possiamo pensare di venderlo agli altri?
Nessuna voglia di consorziare?????!!!!! Meglio dare agli altri….. Non faccio e non faccio fare ma assieme…. MAI!!!!
ITTE ILGONZA!!!