Simone Marcelli Pitzalis
di SERGIO PORTAS
Ci si imbatte, a girovagare per il mondo ma persino scegliendo di passare la vita in monolocale e servizi, nelle persone che lo abitano assieme a noi e, specie si pratichi la nobile arte della lettura, ultimamente un poco desueta ad onor del vero, molteplici sono i mondi che vengono a contatto col nostro cogitare, e gli animali pure, dagli ornitorinchi alle sirene, tutti e due aventi dignità letteraria e quindi più reali del vero, ai paesaggi infiniti, come il numero di orchidee della foresta che prese nome dalle mitiche amazzoni, o quello delle galassie che vanno allontanandosi l’un l’altra per lo spazio infinito, a velocità che ci tocca misurare in anni-luce, che non avremmo spazio abbastanza per il numero di zeri dopo il magico 3. Che i quanti che compongono la luce, come è noto e misurato, fanno balzi di 300.000 chilometri in un batter di ciglio. Nell’ultimo Book Pride milanese 2023 mi sono imbattuto in un evento dal titolo intrigante: “Parlare Meridionale”: moderava il tutto Simone Marcelli Pitzalis, cagliaritano classe ’91, non proprio “meridionale” quindi, o forse non del tutto, sicuramente lo erano comunque Carmine Conelli, napoletano doc, e Giusi Palomba, che nasce nella provincia, i due che venivano “moderati”. Carmine Comelli fa parte del collettivo editoriale Tamu Edizioni, che ha contribuito a fondare nel 2018, dopo aver conseguito un dottorato in studi internazionali all’Università L’Orientale con una ricerca nell’ambito degli studi culturali e post-coloniali, si è dato alla fuga dal mondo accademico, questo lo copio pari pari dalla seconda di copertina del suo libro: “Il rovescio della nazione”, la costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno. Giusi Palomba è anche essa scrittrice di libri. La discussione verteva sull’assunto che le parlate con accento meridionale vengano sempre accolte con una sorta di non neutralità assodata e conclamata, e comunemente accostate a storie di violenza criminale, o alla comicità: “O Gomorra o Troisi” insomma. Il vessillo della sarda parlata, i noti quattro mori inquartati e opportunamente bendati, era appannaggio del Pitzalis e, visto che la teoria su cui Carmine Conelli basava il suo ragionare legava il “Sud” come posto esotico riconducibile a logiche di colonialità, l’isola nostra ne entrava a far parte di diritto, quante volte mi è stato dato di sentire da parte di sardi l’assunto di: “Sardigna colonia”. E che i Savoia avessero colonizzato più di altri è in Sardegna luogo comune del pensare popolare: colonizzati dagli italiani.
La lingua dunque come “campo di battaglia”, con un catalogo di Tamu che si concentra su problematiche meridionaliste in senso lato, un guardare al Sud attraverso altri sud, ad esplorare culture “esotiche” e “arretrate” che scarseggiano di dignità propria. Il fenomeno del brigantaggio post-borbonico, guardato con lenti diverse da quanto sin qui fatto dalla corrente storiografia, che può essere accumunato a quello del “banditismo sardo” del primo novecento, scrive Gramsci in una delle sue lettere alla cognata Tania quanto i nomi dei latitanti alla macchia: De Rosas e Giovanni Tolu, fossero sulla bocca della gente comune che li “sentiva”: “Più sardi anche della grande Eleonora d’Arborea”. Già la gente comune, i contadini verrebbe da dire se si ragiona della storia che ha portato alla formazione degli Stati-nazione dell’ottocento, storia contadina che non è certo finita visto che da studi condotti dalla FAO, circa un terzo di tutto il cibo prodotto nel mondo è frutto del lavoro di piccoli agricoltori, esistono attualmente nel mondo più di 608 milioni di aziende a conduzione familiare, cinque su sei hanno meno di due ettari di estensione e pur sfruttando solo il 12% del suolo agricolo del pianeta ( il restante è appannaggio delle grandi multinazionali del cibo) producono approssimativamente il 35% dei generi alimentari mondiali. Ma quanto hanno mai contato i contadini in termini di potere? Quanto hanno mai contato i pastori? Per rimanere a Gramsci, lui che, occorre sottolinearlo, ha vissuto la presa del potere bolscevico ammantato da bandiere marxiste, ritiene i contadini incapaci di organizzare collettivamente le proprie aspirazioni e di cambiare effettivamente le relazioni di dominazione che li opprimono; considera “elementari” le loro rivendicazioni principalmente incentrate sulla difesa della terra. Quindi come stupirsi che i “cafoni” del Sud abbiano seguito il cardinale Ruffo e il suo esercito della “Santa Fede” (con lui anche tagliagola e assassini d’ogni risma a cui era stata promessa la grazia, i vari Frà Diavolo e Mammone) che segnò la fine della Repubblica Partenopea del 1799? Si era mai vista una rivoluzione di tipo francese a Napoli? La restaurazione borbonica falciò quella che Benedetto Croce definirà “il fiore dell’intelligenza meridionale”, senza dimenticare che Lord Nelson, ammiraglio di sua maestà britannica, si distinse per crudeltà e spregio della parola data, facendo impiccare nobildonne e letterati, a centinaia, tutti colpevoli di essere dei “giacobini”. “Comunisti”, leggeremmo oggi sulla stampa che va per la maggiore seguendo la deriva destrosa galleggiante nei flutti del dopo-covid e nella sciagurata guerra putiniana. Giusi Palomba si dice abitante di molte comunità, dalla Scozia alla Catalogna, in ambedue si parlano più lingue ufficiali riconosciute, tre addirittura in Scozia anche se occorre dire che il gaelico non è in grande spolvero, al contrario del catalano che ha la medesima dignità del castigliano madrileno. Da noi la differenza tra nord e sud, tra le lingue, è stata rimossa. Cose che succedono a quelli che vengono dalla “povertà”. E’ obbligatorio acquisire le modalità di comportamento e di relazione dei borghesi del nord. Persino una diversa “postura”, una diversa gestualità. Conelli si rifà a Lombroso e alla sua mania di misurare il cranio ai briganti morti sotto il fuoco dei fucili di Lamarmora, alla lingua che parlavano i mille di Garibaldi che ne trovarono in Sicilia una “africanissima”. Da qui anche il fenomeno tutto attuale del revanscismo borbonico, col contestuale tentativo di un racconto nuovo della “colonizzazione” del sud-Italia. E questa prosopopea si è sviluppata in una fierezza del dialetto napoletano, come lingua del sud. Lo si parla ma non lo si scrive. Questo orgoglio anzi demonizza anche chi non sa scrivere in napoletano (il fenomeno della canzone neomelodica o del rep). Anche se ci sono città importanti, una per tutte Torre del Greco, in cui si parla molto più in dialetto che in italiano. Persino le ultime sit-com televisive sono fuorvianti: “Mare fuori” presenta una situazione dialettale con una visione punitiva dello Stato. La prossima serie ricavata dai libri della Ferrante (il suo un successo planetario) è prevista con attori non madre-lingua, una assurdità . E qui Pitzalis non può esimersi dal fare riferimento al problema causato dal tentativo di imporre uno sardo-standard calato dall’alto. “Standardizzare delle lingue minori è chiaro esempio di una rigida visione classista della società”. I sardi, si sa, hanno sempre avuto problemi a parlare e pensare in italiano, specie se sarda è stata la prima lingua che ha cantato loro le ninne-nanna, i racconti di nonna e nonno davanti al focolare. Lui ora è a Bologna, dove ha studiato e scrive testi poetici, e anche un romanzo, il suo primo; sentite cosa fa dire alla “voce-parlante” del libro a pag. 46: “Non avevo più una lingua dopo la traversata del mare, dopo lo strappo, l’umiliazione dei versucci che mi facevano gli altri ascoltandomi e parlandomi sopra, e lo strappo dal mio corpo, dal mio pisellino di bambino buono che stava lì come mio e non mio, appeso senza significato, senza nome. Manco più la lingua per dire il dolore…”. Simone si autodefinisce facente parte del mondo “queer”, secondo Wikipedia un termine generico utilizzato per indicare coloro che non sono eterosessuali (attratti dal sesso opposto) e non vogliono essere etichettati in una identità di genere particolare. Nel suo libro: “Questo è il corpo”, Rituale dei giorni nuovi, effequ editore, questa sua condizione emerge fatalmente nella sua drammaticità, costretto com’è a vivere quasi immerso in un mondo binario in cui sei maschi o femmina, eterosessuale o omosessuale, senza poter scampare da questa dualità coatta. Un mondo che se ti percepisce “diverso” ti emargina, ti esclude, ti schifa. E se per di più arrivi in un paese che non è il tuo, dopo aver attraversato il mare? Sempre la voce narrante del libro: “…Veronica…dicevo: è nata qui lei. Lei di qui, io no. Dove nasci importa. Così mi spiegavo: dove nasci. Sono i natali che ti danno la grazia. Non importa la stortura, la stranezza, la deviazione mostruosa, anche, a un certo punto non importano nemmeno i tratti del volto, e non importa la povertà perché non importa se hai i soldi, come li aveva mio padre: la lingua importa, l’accento importa, se il paese ti ha visto nascere…allora è diverso, mi dicevo, se hai l’accento del luogo, le stesse note, la tonalità, mi dicevo…Mi dicevo che tutti i dolori e i calci sono anche atti di perdono, se ci hai i natali. E che loro sono mostri e bestie fetide, Veronica e tutti gli altri agli occhi del paese, ma mostri e bestie di paese” (pag44/45). In un altro contesto ( ilLibraio.it) Simone scrive che: “Per provare a ragionare su come si costruisca letterariamente una voce non binaria, ho interrogato il mio corpo. Come si muove nello spazio sociale il corpo di una persona queer. E’ un corpo che si muove fluido e scattoso, invisibile e costantemente additato, aggredito dagli sguardi e dagli sguardi accarezzato, è un corpo solo e fragile, si muove con timore, si muove con spavalderia, si muove con rabbia, si muove senza grazia. E’ un corpo sempre fuori contesto, è un corpo indisposto, cioè posto nel posto sbagliato, perché un posto giusto, per questo corpo, non c’è. E poiché la lingua innanzitutto è voce, è visione che si fa vibrazione per riempire l’aria e incontrare l’altra, una soggettività non binaria non può che narrare il mondo al modo in cui il suo corpo ci vive, in questo mondo”. “Questo è il corpo” è un libro necessario, di scrittura particolare, precisa come acido solforico che incide una lastra di bronzo, che fa molto riflettere sul modo che la gente ha di guardare i propri simili, sul modo in cui stiamo vivendolo, questo mondo. E ancora, nel libro, ci sono “le Sante” e “le matrone”, e soprattutto un modo di raccontare le cose originale e mai scontato. Di raccontare il dolore con una voce che non è neppure la tua, è quella degli altri che ti schifano, ma non ne conosci altra. E il dolore non fa che aumentare. Giornata fortunata la mia, mi sono imbattuto in un libro che avrei voluto leggere da sempre.