di ALESSIO COSSU
L’espressione Rombo di tuono, impiegata dal compianto Gianni Brera il 25 Ottobre del 1970 al termine della partita Inter-Cagliari (1-3), è diventato parte integrante del titolo dell’appassionante docufilm di Riccardo Milani: Nel nostro cielo un rombo di tuono. Celebre per il fatto di aver coniato, per i calciatori, epiteti che rendono onore anche alla lingua del Belpaese, il giornalista ricorse alla poetica immagine per suggellare l’ineguagliabile esplosività del sinistro di Luigi Riva, in arte Gigi, a tutt’oggi il più prolifico cannoniere azzurro (35 reti). Il film di Milani si avvale di un pregevole montaggio che tiene unite diverse linee narrative: quella delle origini, quella dedicata al legame con la Sardegna, quella che emerge dalle testimonianze dei compagni del Cagliari e della nazionale, di coloro, infine, che lo hanno conosciuto anche nella veste di membro dello staff tecnico azzurro. L’amalgama tra le suddette linee narrative è un po’ il segreto di questo film, giacchè l’abilità del regista, capace di confezionare un’opera che va ben oltre le due ore senza che lo spettatore avverta la minima sensazione di noia o pesantezza, consiste nel centellinare le qualità umane e sportive del protagonista. Il lavoro di Milani suscita ovviamente entusiasmi e rievoca ricordi soprattutto nel pubblico sardo che nel campione di Leggiuno ha trovato una bandiera, non solo calcistica, e nel quale tuttora si identifica, ma ha anche un respiro più ampio. Il documentario, grazie all’arco cronologico abbracciato, si configura infatti come un resoconto sui risvolti sociologici, storico-culturali ed etici del nudo fatto sportivo nell’Italia degli anni immediatamente successivi al boom. Quella che emerge è infatti una nazione che, a cento anni dalla sua unificazione, doveva ancora compiutamente “farsi”. Le distanze non solo geografiche tra le regioni, i pregiudizi che andavano ben oltre il campanilismo sportivo, le dinamiche economiche dalle quali discendeva anche una primazìa sportiva delle squadre del nord su quelle del sud: tutto questo dalla pellicola di Milani emerge con chiarezza e semplicità, senza l’apparenza di una tesi precostituita. La voce narrante è infatti presente solo nell’incipit e il senso del documentario emerge dall’accorto lavoro di giuntura delle testimonianze. Si potrebbe obiettare che trattare di un uomo che ha impresso un carattere così indelebile nel firmamento sportivo sia facile, considerata una carriera senza macchia e un palmares di certo in credito più che in debito nei confronti della fortuna. Tuttavia, il regista romano firma un’opera al contempo popolare e intima, celebrativa ma non retorica. Già nei primi fotogrammi viene presentato il campione nel rispetto del suo carattere schivo e che rifugge la notorietà: è inquadrato in penombra e nell’atto di rispondere circonfuso dalle volute di fumo delle sigarette che gli conferiscono un senso di malinconico mistero e di epicureo appagamento al tempo stesso. L’incipit vero e proprio è costituito dai ricordi impressi sul quaderno di un bambino delle scuole elementari, uno dei tanti che si accesero di passione per il proprio beniamino. La prima linea narrativa, quella dell’infanzia, delle origini, delle difficoltà del futuro campione, è affidata alla voce di Riva stesso, corredata tanto dalle immagini in bianco e nero, del collegio nel quale fu mandato dopo la morte del padre, quanto da quelle a colori che ricostruiscono una passeggiata in bicicletta insieme alla madre. Dopo la morte di quest’ultima e della sorella minore, Riva trova nel calcio una straordinaria molla di riscatto, di affermazione che, suggerisce tacitamente il montaggio, è in parallelo con quello che la Sardegna avrebbe vissuto negli anni a venire. Il film, infatti, presenta già dall’inizio, quando ancora il protagonista era del tutto ignaro del proprio futuro, dei brevi fotogrammi in cui i Mamuthones, una maschera tipica del carnevale isolano, inscenano una loro sfilata: ecco il legame tra le linee narrative, coese da un senso di predestinazione, quasi che l’isola avesse atteso secoli perché si parlasse di lei con il rispetto che merita. Perché è questo il risvolto storico-culturale di cui si diceva sopra: i sardi vissero la conquista dello scudetto con un forte spirito identitario, più istintivo, genuino e consapevole di quello che a cavallo di quegli anni accompagnò il cosiddetto Piano di rinascita, ovvero il tentativo, con la costruzione di industrie imposte dall’alto, di fare uscire la regione da un’economia prevalentemente vocata alle attività agro-pastorali. Il film di Milani è tutto questo: le voci dei tifosi che si muovevano dalle località più lontane dell’isola per assistere alle partite che rappresentavano qualcosa di più di un evento sportivo. Nel film, l’autorevole opinione del sociologo Bachisio Bandinu svela il segreto della chimica perfetta instauratasi tra Riva e i suoi tifosi: l’attaccamento alla maglia e il rifiuto delle profferte dei club blasonati, l’umiltà, la riservatezza e il rispetto per la parola data lo rendevano uno di loro. Quanto ai compagni di squadra e a quelli della nazionale (Tomasini, Gori e Albertosi i più presenti insieme a Mazzola), le loro parole, le emozioni sui loro volti completano il puzzle scendendo, ora sì, nel dettaglio sportivo. Eppure anche qui è il backstage, il retroscena, il risvolto inaspettato, la spigolatura aneddotica a rivelarci molto più dei numeri e dei titoli dei giornali. L’apprensione per i due infortuni in nazionale, la richiesta fatta da Mazzola a Riva alla fine del primo tempo del celebre Inter-Cagliari affinché gli ospiti non infierissero sui padroni di casa davanti al loro pubblico, tutto ciò dà corpo alla statura del campione ben più delle immagini del trionfo agli europei del 1968 o di quelle agrodolci di Messico 70. La stoffa del cavallo di razza non è perciò data dai numeri, bensì dai fili che lo tengono avvinto ai compagni e lo spingono al sacrificio senza rimpianti. L’ultima parte del documentario è uno sguardo più ravvicinato nel tempo. La prospettiva è quella di chi ha tratto giovamento dalle parole e dall’esempio di Gigi Riva: Roberto Baggio, Gianfranco Zola, Gianfranco Matteoli, Gianluigi Buffon, Nicolò Barella. Nelle mani di costoro passa il testimone ideale di quello che può essere considerato come il padre putativo di una certa maniera di intendere lo sport ma, ancor prima, la vita. Nell’affermazione del protagonista anche i legami affettivi con i luoghi sono stati importanti. Il regista alterna i primi piani dei trionfi, delle interviste negli studi televisivi ai campi lunghi e lunghissimi degli ambienti naturali dell’isola, che nella loro aspra bellezza ci ricordano come Rombo di tuono è stato il campione di tutti i Sardi, anche e soprattutto di coloro che, non potendosi recare nello stadio Amsicora, accompagnavano le loro domeniche con una radiolina, nei pressi del proprio gregge, davanti alle proprie reti da pesca o nel bar del paese opportunamente imbandierato per l’occasione. Ciò detto, se è vero che Gigi Riva si è giovato anche del loro affetto e del loro sostegno, fino a che punto è lecito considerarle cinematograficamente delle comparse solo perché ne ignoriamo i nomi?
Un film da vedere…ha emozionato anche me che non ho vissuto direttamente quello scudetto! Non è solo la storia di Gigi Riva è la storia della magia della terra sarda… una terra densa di emozioni