
di GIANRAIMONDO FARINA
Rileggendo il “fluviale” programma delle giornate deleddiane, imbastito e preparato dall’ISSRE Sardegna, in collaborazione con i due atenei sardi, articolato in ben nove giornate di studio, sedici sessioni e novantacinque relazioni, suddivise tra Cagliari (Ottobre), Sassari (Novembre) e Nùoro (Dicembre), in cui si sono affrontati e si affrontano tanti aspetti conosciuti e non della grande scrittrice nuorese, sembra che qualcosa “stoni”, soprattutto se rapportato con il titolo dato alle giornate celebrative, “Sento tutta la modernità della vita”. Titolo che avrebbe avuto, veramente, un senso compiuto se, a fianco di tematiche come “Racconti, teatro, recensioni e corrispondenze”, “Il cinema e l’universo deleddiano”, “Gli scrittori e Grazia Deledda”, “La cucina di Grazia Deledda”, “Gli esercizi di libertà femminile”, “Il raccontare l’isola in italiano”, “I mondi sardo e romano della Deledda” e “L’incontro con Pirandello”, si fosse considerato un altro “mondo”, non meno importante e non meno significativo di questi precedentemente ricordati, ossia quello lombardo. Già, perché la grande scrittrice, dimorando per tanto tempo in quel di Cicognara, località originaria del marito Palmiro Madesani, frazione di Bozzolo (MN), fù anche e soprattutto una cittadina lombarda. Ed uno dei romanzi più significativi scritti in terra padana, che il sottoscritto avrà l’onore di commentare ed illustrare al convegno di Monza, con taglio storico-economico, è “Annalena Bilsini”, scritto nel 1927, all’indomani dell’avvenuto conseguimento del Premio Nobel, tradotto in spagnolo, francese, inglese, svedese e polacco. Riprendere la lettura dell’opera, mi ha portato a ridefinire meglio il contesto sociale ed economico padano in cui questa donna barbaricina, che si sentiva “moderna” in Sardegna, si era da subito trovata a relazionarsi. Partendo, appunto, dal contesto familiare e contadino del romanzo. Annalena Bilsini è una vedova a capo di una famiglia padana che comprende cinque figli maschi, lo zio Dionisio, la nuora Gina e due nipotini. Il secondogenito, Pietro, è nell’esercito. La famiglia ha la possibilità di affittare un nuovo fondo a delle buone condizioni, vi si trasferisce, e trascorre l’inverno lavorando duramente la terra, da molto tempo abbandonata. Il loro obiettivo è di ripristinare la loro situazione economica, in notevole declino a causa degli sperperi della generazione precedente. Una realtà che la scrittrice sarda non racconta solo nella figura di sa meri ‘e domu, la padrona, della famiglia tradizionale in Sardegna, ma anche nelle presenze analoghe di altri mondi, come quello padano, appunto.

Questo romanzo della Deledda, successivo all’assegnazione del Nobel, appare un po’ più “tirato a lucido” rispetto alle sue storie tradizionali. Sembra quasi che l’ambiente raccontato, quello padano, abbia accresciuto le note brillanti della scrittura e reso più vivace il potere descrittivo dell’autrice.
Annalena è, comunque, molto simile ad altri personaggi femminili della Deledda, per determinazione e forza di carattere. Una donna in cui la religione del lavoro prevale su quella delle tradizioni, in cui il controllo della vita familiare e delle risorse economiche è il motivo dominante dell’esistenza. Un romanzo che, quindi, si caratterizza come storia esemplare e collettiva di una famiglia che tende a elevarsi attraverso il lavoro dalla vita contadina a una condizione borghese.
I temi storico-economici, quindi, più che in altri romanzi, qua risultano essere ben delineati, anche se un primo tentativo vi è stato, in Sardegna, nel 1910, con il Nostro Padrone. In tale contesto, infatti, siamo lontani dalle descrizioni arcaiche e, per certi versi mitiche, di un entroterra sardo “sulla via dell’emancipazione”, e profondamente calati nella Sardegna della crisi economica e del «taglio dei boschi», popolata da un’umanità angariata dalla miseria e dalla fatica rude, con un proprio ineluttabile destino sulle spalle; un destino già scritto nell’imperscrutabile disegno di Dio, il nostro Padrone, appunto. In quegli stessi anni, da Milano, un altro grande scrittore e critico letterario sardo, il sorsese Salvatore Farina (1848- 1918), legato da amicizia e da corrispondenza con la Deledda, faceva sue alcune, importanti riflessioni storico- economiche sulla Sardegna, convinto assertore della necessità di avviare nell’isola un processo di rilancio dell’economia agricola attraverso la colonizzazione delle terre, cioè attraverso l’attività di bonifica e trasformazione fondiaria, intesa a rendere possibile l’insediamento di una popolazione rurale. Egli era a favore del ripopolamento delle campagne, per la nascita e la diffusione di una piccola borghesia agraria, attiva, operosa, intraprendente, capace di ostacolare l’avanzata del grande latifondo, spesso improduttivo. E questo in un momento in cui a livello nazionale si acuiva gravemente la crisi agraria con l’arrivo sul mercato europeo del concorrenziale grano americano, con il protezionismo, con la fine dei sistemi agricoli arcaici e con la conseguente rapida scomparsa della piccola proprietà contadina a vantaggio della concentrazione capitalistica rurale e industriale. Processo teso a costruire e rafforzare quel blocco agrario-industriale, che caratterizzerà la classe dirigente italiana per tutto il corso della storia contemporanea.

Quando la Deledda scrive la sua storia di Annalena, calata nel paesaggio agrario della pianura Padana, si è in Italia nel bel mezzo delle campagne d’intervento promosse dal fascismo per una nuova politica agricola di orientamento autarchico (la «Battaglia del grano» per l’autosufficienza cerealicola, l’espropriazione dei grandi latifondi, la sbracciantizzazione e le trasformazioni dei mezzadri in coloni, la bonifica integrale, la riorganizzazione in senso centralista dell’intero settore). Il vasto fondo, già “antico feudo gentilizio”, e la cascina di Annalena Bilsini diventano, in tal modo, in quanto nucleo di organizzazione economica e sede delle più disparate attività agricole, centro di civiltà e modello di laboriosità, oltre che luogo deputato degli affetti. La rinascita parte dalla terra, dalla potenza del seme, dal lavoro (“Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno”). In un caso è la Sardegna a costituire il milieu, entro cui si dipana l’intrigo e si consumano le coinvolgenti e appassionate vicende d’amore e d’amicizia, di laboriosità e sacrificio, nell’altro è l’agro di Cicognara (Sigugnéra), frazione di Viadana, centro posto sulla riva sinistra del Po, in provincia di Mantova, borgo natìo di Palmiro, e luogo, per i coniugi Madesani-Deledda (ospiti dei Tagliavini-Morini), delle vacanze settembrine. Cicognara era, ad esempio, conosciuta per la produzione di scope di saggina. Anche questa storia romanzata, dunque, si rivela come una sorta di trasfigurazione letteraria di un vissuto familiare affettivo, sociale ed economico. Annalena è Angelica Bacchi, cugina del marito. La cascina in cui vivono i Bilsini è la Corte Gentilmana, che la Deledda frequentava e conosceva bene. Il prete è Don Primo Mazzolari, nello studio del quale, durante i suoi soggiorni in terra viadanese, tra una gita in barca sul Po e le fatiche letterarie (il romanzo maturò a Cicognara), la scrittrice si rifugiava spesso, intrattenendo lunghe conversazioni. Il paese è pieno di gente che ama solo il denaro, di giovani che corrono dietro il vizio: quel prete è come mandato da Dio per richiamare al dovere chi se n’è dimenticato. La geografia antropica e le tradizioni popolari della landa mantovana, come, peraltro, già accaduto per quelle della Barbagia, nelle pagine del romanzo emergono con buona resa descrittiva, grazie allo scrupolo con cui il narratore le fa rivivere. I vari riferimenti ai luoghi (il paesaggio agrario, il Po, i suoi ponti, il clima), ai personaggi (si pensi, tra tutti, al ricco commerciante di scope Urbano Giannini, del quale si invaghirà Annalena), alla lingua, sfruttata nei suoi modi dire e nel contingente lessicale (sorgòn, gnocchin, smortìn, biolca, formentone, marcantina), alla cultura materiale ed al contesto sociale ed economico della regione (trilogia della vita rustica, elementi di agronomia e di tecniche di coltivazione), sono il frutto di uno studio minuzioso e di un’attenta ricerca sul campo, svolto con amore e dedizione per una terra che la Deledda, ormai, aveva adottato.