di ALESSANDRO PIRINA
La tragedia di Luca Attanasio in Congo ha fatto conoscere agli italiani gli ambasciatori in un’altra veste. Oggi non sono più personaggi da romanzo che passano la vita da una festa all’altra. No, il diplomatico, soprattutto quando si trova in Paesi difficili, somiglia sempre più a un missionario che quotidianamente deve fare i conti con le complessità della terra che lo ospita. Una missione laica, insomma, la sua. Ed è così che la interpretano gli ambasciatori di nuova generazione. Tra loro anche Nicola Lener, cagliaritano, da un anno e mezzo rappresentante del governo italiano ad Abu Dhabi, ma in passato a Lima, Amman, Ottawa, Casablanca. E quando ha lasciato la capitale economica del Marocco come console generale è stato sostituito proprio da Luca Attanasio, che a Casablanca avrebbe poi conosciuto la futura moglie Zakia. «Confermo tutto quanto è stato detto in questi mesi – dice Lener –. Luca Attanasio era un ragazzo straordinario, sempre di buon umore, molto attivo nel risolvere i problemi reali. Aveva un approccio pragmatico. Che poi è la cifra di una diplomazia moderna: andare a vedere i problemi al di là delle carte, attraverso i volti delle persone, gli interessi delle aziende e di chi lavora. Il vantaggio di essere diplomatici è che siamo continuamente esposti alla competizione con altri sistemi. E questo ci porta a innovare rapidamente anche i nostri metodi. Dobbiamo essere sempre all’altezza di Paesi che hanno strutture ben più dotate di risorse umane e finanziarie. Ai diplomatici italiani viene riconosciuta la capacità di ottenere risultati migliori nonostante abbiano meno risorse. Il fattore umano conta molto, il criterio del merito è considerato prevalente nel nostro mestiere e giova alla qualità dei servizi offerti».
Lener, dopo la laurea in Giurisprudenza a Cagliari, ha iniziato la sua carriera diplomatica giovanissimo. Aveva appena 25 anni. «A spingermi fu un doppio interesse. Da un lato, rendere un servizio alle istituzioni, lavorando per il proprio governo. Dall’altro, conoscere in maniera approfondita il mondo, in particolare quelle dinamiche meno evidenti dall’esterno – racconta –. Negli ultimi decenni la nostra professione è cambiata profondamente, ma conserva una grande attualità. Il diplomatico non è soltanto un trait d’union tra due governi, ma è sempre più un soggetto che dialoga con la società civile in tutte le sue emanazioni. Luca Attanasio ha dimostrato che si può svolgere un ruolo molto attivo con la società civile anche rappresentando il proprio governo in un Paese straniero. Lo ha confermato nella tragedia della sua vicenda. Il diplomatico non è più quello che va da un ricevimento all’altro, ma non è nemmeno un funzionario che sta tutto il giorno chiuso in ufficio. È uno che cerca di conoscere il Paese in cui si trova e di sostenere il sistema Italia all’estero».
La missione di Lener è cominciata in Perù, a Lima. Poi il trasferimento ad Amman, in Giordania, durante la seconda Intifada e la seconda guerra del Golfo. E poi il Canada, il Marocco, un passaggio alla Farnesina. E ora ambasciatore negli Emirati Arabi. «Certamente cambiare di continuo non è facile, ma con il tempo diventa un automatismo. Avere più esperienza rende più rapido l’adattamento sia professionale che personale, ma comunque un minimo di adeguamento occorre. E la consapevolezza che si tratta di un’esperienza limitata nel tempo rende tutto meno difficile. Certo, si fanno anche sacrifici, ma riguardano tutti quelli che si spostano per lavoro. Una cosa che mi auguro succeda sempre di più: il lavoro sotto casa fa parte del passato». Di certo, non è facile conciliare la propria attività con quella della famiglia. «Io ho la fortuna di avere una moglie che non lavora, i miei 4 figli si sono adattati facilmente, forse perché sono abituati a spostarsi da quando erano piccoli. Ma oggi da parte del ministero c’è una forte attenzione nei confronti delle coppie di colleghi: la Farnesina cerca sempre una soluzione per accontentare entrambi». Nel cassetto dei ricordi di Lener ci sono tante esperienze vissute nelle sue missioni, le più diverse tra loro. «In Perù andai a trovare in carcere un terrorista sudamericano con nazionalità italiana. Era a Puno, sul Titicaca, a 4mila metri d’altezza: la vita in carcere a quell’altitudine non è facile. A Ottawa, invece, mi adoperai insieme ai canadesi per ottenere la liberazione di un canadese sposato con una italiana da un carcere asiatico. L’operazione andò per le lunghe, ma ricordo ancora l’emozione di quando quest’uomo entrò nel mio ufficio con la moglie».
La sua vita in giro per il mondo lo porta a stare lontano dalla Sardegna, che proprio ad Abu Dhabi può contare su numerosi estimatori. «Sono tanti gli emiratini che posseggono una casa in Sardegna e che lo scorso anno non sono potuti venire a causa del Covid. Sperano di poterlo fare la prossima estate. Qui l’emergenza è stata gestita in maniera molto ordinata: gli Emirati sono il primo Paese al mondo per numero di test eseguiti e il secondo dopo Israele per numero di vaccini. Dunque, sperano davvero di poter tornare in Sardegna. Questo grande amore per la nostra isola deve essere colto dai nostri imprenditori: può essere una grossa sfida per creare un’offerta turistica che si adatti in qualche modo ai clienti del Golfo. Chi viene da questa parte del mondo ha caratteristiche ed esigenze particolari: grandi famiglie con personale al seguito, occorrono la conoscenza della lingua e l’offerta di servizi particolari. Anche perché la concorrenza di altre destinazioni è sempre più forte».