di LUCIA BECCHERE
«Vorrei trovarmi nelle pampas dell’America Latina al volante di una jeep – scriveva in una lettera da Cuglieri nel 1956 – consumando chilometri in cerca di anime da salvare» Era il 26 febbraio del 1956 quando don Franco Casula, da Cuglieri, inviava una lettera alla sorella Anna. Nel testo tutto il suo testamento spirituale.
«Che dirti di me? Vorrei … vorrei trovarmi nelle pampas dell’America Latina al volante di una jeep, consumando chilometri in cerca di anime da salvare. È bello percorrere 100200 Km per amministrare un Battesimo a un bimbo o l’Estrema Unzione a un vecchio. Vorrei … vorrei essere chiamato padre Franco, correre, predicare, salvare … Vorrei … quante cose vorrei … Povero me! Devo accontentarmi di sognare. Devo andare a scuola (che brutta invenzione la scuola come l’abbiamo noi)! Devo sentire il professore, rispondere alle interrogazioni e correre il rischio di una brutta votazione, proprio mentre il sangue ti ribolle e il cuore sogna. La nostra vita non è l’ideale. La vita si sostiene perché l’ideale entusiasma. E l’ideale è sempre giovane, sempre bello, perché sempre nuovo e risorgente. Ma forse sto facendo poesia? Non lo so. È certo che la vita, anche in mezzo alle incomprensioni e alle sofferenze, merita di essere vissuta. Mia cara, sto dicendo delle grandi verità, di cui noi siamo convinti. Ma in pratica non è vero che ci scoraggiamo per tante cose? Io per una cattiva riuscita a scuola e tu invece … pure. Cara Anna, bisogna che la teoria diventi per noi pratica».
Oggi Anna ha 86 anni e vive a Fonni.
Ricorda il giorno in cui suo fratello è partito per l’America Latina? «Era il 7 gennaio 1965 quando lasciava Fonni per imbarcarsi a Genova sulla motonave Giulio Cesare con l’amico don Calaresu. Quel giorno era lo specchio della felicità. Andare in missione è sempre stato il suo desiderio più grande. Ad accompagnarlo alla partenza eravamo proprio tanti: genitori, fratelli, parenti, amici e il gruppo missionario, a tutti ha chiesto di cantare. Aveva 32 anni».
Il ricordo più bello? «La sua bontà, la sua gioia di vivere e di fare. Vieni con me – mi diceva sempre – qui stai perdendo tempo mentre laggiù c’è tanto da fare». Piange Anna mentre stringe a sé la lettera di quel lontano 1956.
Come ha trascorso gli ultimi istanti di vita? «Alla guida di una estanciera (jeep), in compagnia di un giovane collaboratore si stava recando nel pistado (curia vescovile) di Buenos Aires per ritirare documenti e telefonare alla mamma per farle gli auguri di Natale (nella zona dove viveva non c’era la rete telefonica). Si era fermato per rifornire la macchina e con in mano una tanica di benzina attraversava la strada cantando la canzone Mamma di Beniamino Gigli quando è stato investito da un pullman in transito. Prontamente soccorso da un medico che si trovava a bordo, venne portato in ospedale. Dopo 36 ore di agonia esalò l’ultimo respiro recitando il rosario».
Come ce lo vuole raccontare? «Dopo sei anni di esperienza sacerdotale a Oliena e due a Irgoli, ne aveva trascorso otto in Argentina da dove era rientrato due volte. L’ultima volta, al momento di ripartire aveva la febbre e a mia madre che lo esortava a fermarsi rispondeva: “Mamma non posso, io qui sto perdendo tempo”. Aveva fretta di ritornare laggiù quasi avvertisse che, per portare a termine la sua missione, di tempo gliene sarebbe rimasto poco. Il suo posto era lì dove tutti lo chiamavano amorevolmente padrecito, perché questo povero prete – come amava definirsi – era el amigo de todos: ricchi e poveri, umili e potenti, ma soprattutto era sempre accanto agli ammalati, ai sofferenti e ai moribondi. Sulla sua porta c’era scritto Entra, non bussare».
Cosa gli direbbe oggi? «Non sarebbe necessario parlargli, capiva sempre anche il non detto».
Don Franco aveva costruito chiese, improvvisato scuole dove fu preside e insegnante, ma soprattutto aveva restituito dignità di uomini liberi ai peones, ridato coscienza ai cittadini sfruttati e trascurati.
La sua sfida umana e cristiana si interruppe l’otto dicembre, giorno dell’Immacolata, a soli 40 anni. Nella parrocchia di Buona Esperanza, una terra grande quanto la Sardegna, lasciava un vuoto incolmabile. I gruppi missionari lo hanno voluto ricordare con la costruzione di un laboratorio di taglio e cucito a Bagual dove aveva svolto il suo apostolato, mentre a Fonni il gruppo missionario interparrocchiale porta il suo nome.
Il 17 dicembre del 1972 una folla immensa si strinse alla famiglia per accompagnare all’ultima dimora la salma di don Franco Casula. Un apostolo, un profeta.
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