di OMAR ONNIS
Il MIBACT (Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo) si interessa dell’area di Monte Prama e ne annuncia l’acquisizione, per una gestione diretta del sito e dei suoi reperti.
Sappiamo di cosa si tratta. I Giganti di Monte Prama sono una delle poche vestigia del passato sardo note fuori dall’isola. I contenziosi sul tema, da alcuni anni, dividono esperti, istituzioni e opinione pubblica interessata.
In particolare, molti appassionati lamentano l’incuria e la scarsa valorizzazione del sito archeologico, denunciando la lentezza degli scavi e degli studi e stigmatizzando una presunta sottovalutazione dei ritrovamenti, del loro significato storico e della loro appetibilità turistica.
La domanda da cui partono queste prese di posizione è legittima e per alcuni versi comprensibile. Le conclusioni e le pretese invece non sempre sono altrettanto condivisibili. Ma è certo che una risposta adeguata è largamente mancata, da parte di tutte le istituzioni preposte, a volte apparentemente più impegnate a farsi concorrenza tra loro, che a svolgere fino in fondo, e con la solerzia necessaria, il proprio compito.
L’ultima puntata di questa querelle plurima è stata quella tra Comune di Cabras e Soprintendenza, qualche mese fa. Allora il problema era costituito dalla temuta sottrazione permanente di alcune statue, bisognose di restauro e per questo indirizzate a Cagliari dalla Soprintendenza. Se n’è parlato molto (anche qui).
In quel caso, il Comune di Cabras aveva come controparte proprio un’articolazione decentrata del MIBACT. Oggi, secondo le notizie riportate dagli organi di informazione, il sindaco Abis si dice molto soddisfatto dell’intervento del MIBACT medesimo, benché si configuri come un’ingerenza molto più forte e decisiva. Non suona contraddittorio?
Se a prendersi in carico i Giganti, per altro temporaneamente, è un organo periferico del Ministero, si grida allo scippo e si rivendicano autonomia e competenze gestionali; se arriva il Ministero da Roma ad avocare a sé tutta la partita, va tutto bene. Probabilmente, a Cabras c’è l’idea che le competenze gestionali del complesso monumentale e del sito restino in loco. Io avrei qualche dubbio in proposito.
Qui però c’è un problema di fondo, generale e strategico, che non riguarda solo i Giganti di Cabras, né solo il patrimonio storico-archeologico dell’isola e nemmeno l’ambito dei beni storico-culturali.
Bisogna essere molto chiari e onesti, prima di tutto con noi stessi: lo Stato italiano non ha alcun interesse verso l’isola, se non nei casi in cui ne può trarre qualcosa. Che sia per affittarne ampie porzioni per esercitazioni belliche o sperimentazioni industriali, o per la produzione di energia elettrica a vantaggio del nord della penisola, o per qualche motivo di promozione culturale e/o turistica, la Sardegna diventa italiana solo in termini utilitaristici e sempre subalterni.
Tralasciando esempi peggiori, pensiamo alla facilità con cui bellezze paesaggistiche e/o naturalistiche della Sardegna vengono etichettate come italiane. O all’attribuzione di italianità a ritrovamenti fossili o archeologici nell’isola, anche quando testimoniano di epoche in cui l’Italia certo non esisteva come entità politica e nemmeno come nome geografico. O ancora al paradosso di propagandare la cultura italiana in Giappone con una tournée di un… coro a tenore (come successo nel 2007).
Non risulta tanto riconoscimento, invece, quando si tratta di accollarsi investimenti infrastrutturali, di adeguare le politiche scolastiche o quelle sanitarie alle esigenze dell’isola (come visto durante la pandemia), o in tema di trasporti. E non parliamo della questione linguistica.
Regione italiana a pieno titolo o “colonia di sfruttamento”, a seconda delle necessità. La prima qualifica spesso serve solo a camuffare la concretezza storica dalla seconda.
Non ne faccio un discorso rivendicazionista. Da sempre ritengo che i rapporti di forza, economici, politici e culturali tra Italia e Sardegna, nati malissimo nel XIX secolo (con precedenti prodromi sabaudi), siano inevitabilmente svantaggiosi per l’isola. È un dato empirico che discende da fattori oggettivi e da situazioni strutturali.
Attendersi qualcosa dall’Italia, come ho già avuto modo di argomentare, è del tutto illusorio e anche piuttosto pericoloso. Tutto l’investimento propagandistico e politico sulla faccenda dell’insularità in costituzione, alla luce di questa constatazione di indole storica, appare chiaramente per la cialtronata che è. Ma anche questo è stato già detto.
Dove sta dunque il nodo evidenziato da questa presa di posizione governativa sui Giganti di Monte Prama? Sta nella discrepanza fatale tra le necessità collettive, sociali, politiche, democratiche della Sardegna e l’insuperabile condizione dipendente e subalterna dell’isola all’interno dello stato italiano.
L’ambito storico-culturale mostra questa relazione sbilanciata e penalizzante in tutta la sua portata, non perché sia più rilevante di altri, ma perché ha dei connotati simbolici potenti.
Chi deve raccontare, valorizzare, gestire il patrimonio storico-archeologico dell’isola? E in nome di quali esigenze e di quali finalità pubbliche?
Per la costituzione italiana, tale patrimonio appartiene allo stato. Poco conta che la Sardegna sia un territorio “altro”, distante, con una storia sua, e mal si presti ad essere incastrato nella “grande narrazione” nazionale (italiana), così come nella storiografia e nella manualistica italiane.
A chi, imbattendosi in queste argomentazioni, paventa una deriva sardo-centrica – ossia, in quest’ottica, necessariamente nazionalista – delle ricostruzioni storiche sulla Sardegna, si può serenamente rispondere che la deriva c’è già, semplicemente è quella italo-centrica e nazionalista italiana.
La storia come “catechismo patrio” non è un’invenzione di pericolosi indipendentisti sardi, ma degli stati nazionali ottocenteschi, Italia compresa. Un’invenzione che subiamo da tempo e in modo pervasivo e continuativo. Come dimostrano le ripetute dispute sull’odonomastica, in cui lo stato si fa sentire con prepotenza, tramite le sue articolazioni periferiche e l’egemonia culturale che esercita.
Piuttosto, bisognerebbe chiedersi a cosa siano servite, fin qui, le continue diatribe tra archeologia “ufficiale” e archeologia “identitaria”, tra le istituzioni accademiche e ministeriali e i gruppi di appassionati ideatori di miti e di narrazioni alternative. Uno scontro che da sempre puzza di diversivo, oltre che apparire un pessimo servizio alla socializzazione della conoscenza e alla consapevolezza storica.
Tuttavia il problema, come detto, è generale e andrebbe posto sul piano che gli compete. Ossia quello di una negoziazione ad ampio spettro tra Sardegna e stato italiano riguardo alle competenze della Regione Autonoma Sardegna. Una negoziazione basata su un ragionamento approfondito, su un disegno di riforma complessiva dello Statuto, su una ricomposizione meno iniqua delle relazioni reciproche.
Tale percorso, complicato di suo anche sul piano delle procedure legislative, non ha alcuna probabilità di successo, secondo me. Nondimeno, per quanto possa sembrare paradossale, è una strada necessaria. Se dovesse portare inopinatamente a un risultato positivo, tanto di guadagnato. Se no, sarebbe la dimostrazione dell’irriducibilità del conflitto implicito tra Sardegna e stato italiano. Conflitto di cui, a quel punto, occorrerebbe prendere atto e farsi carico, senza reticenze e senza paura.
Il conflitto emergerebbe anche in caso di significative conquiste dentro la cornice dell’autonomia regionale, a mio avviso. Ma, se non altro, sarebbe forse meno drammatico e meno estremo nei suoi termini, anche temporali.
A oggi non disponiamo di una classe politica, intellettuale e, in generale, dirigente, in grado non solo di condurre una simile vertenza strategica con lo stato centrale, ma nemmeno di concepirla. Sappiamo perché.
Questo non può essere un pretesto per non aspirare a una sfera di competenze maggiore, a una conquista di autodeterminazione democratica sia pure progressiva, ma vera. La mediocrità della classe politica e amministrativa della Sardegna è causata e garantita proprio dalla natura ibrida e debole dell’autonomia regionale. Per la classe dominante sarda ne discendono la libertà di ingrassarsi con la gestione clientelare e corporativa del denaro pubblico e la facilità di coltivare una sfera di potere personale e di clan, senza responsabilità vere, senza doverne rendere conto fino in fondo.
La superiore potestà statale su molte partite strategiche è un comodo espediente per sottrarsi a qualsiasi conseguenza negativa della propria inadeguatezza. Per questo la politica sarda attuale non ha alcuna intenzione di procurarsi maggiori poteri e maggiori responsabilità.
Ma per fortuna la politica in Sardegna non si esaurisce nelle stanze del Palazzo, né nei salotti o nei ristoranti (termali o no che siano) frequentati dalle consorterie dominanti. C’è molta vita, fuori dai giochi di potere interessati al mantenimento della condizione di subalternità. Prima o poi questa vita si manifesterà e acquisirà una massa critica decisiva.
Per ora dobbiamo limitarci a segnale come ennesima sconfitta collettiva questa circostanza specifica, parte integrante del più generale fallimento storico cui l’intera classe dirigente sarda dell’ultimo secolo, e di questi ultimi trent’anni in particolare, ha condannato l’isola.