di LUCIA BECCHERE
Gianfranco Cualbu (Nuoro 1930), laurea in Legge a Roma con la tesi “Arbitraria invasione e occupazione delle aziende agricole e industriali” aveva 30 anni quando il padre Antonio, avvocato penalista, morì a 63 anni in un incidente stradale. Si ritrovò a fare il dischente nello studio dello zio paterno con un notevole carico di lavoro.
Come ricorda suo padre? «Era uno molto rispettato dai colleghi e dai giudici, era un politico, è stato l’ultimo podestà di Nuoro. Aveva lasciato l’incarico due giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43».
Ricorda il suo primo processo? «È stato un omicidio avvenuto nel ‘67. L’imputato che difendevo con l’avvocato Bagedda venne assolto».
Cos’è il processo per lei? «Studiare la difesa del proprio cliente. Questo è il nostro compito: assistere il cliente collocandolo al centro del processo».
Qualche volta si è sentito amareggiato dai risultati? «Tante volte. Ogni qualvolta qualcosa non va bene a noi, stiamo male».
Questo stato d’animo se lo portava dietro? «Inevitabilmente. Non a casa, perché ho sempre scisso il lavoro dalla famiglia».
Ricorda qualche processo curioso? «Una rapina a 98 macchine, avvenuta nei pressi di Oristano. I componenti che erano delle nostre zone, dopo aver commesso una rapina avendo necessità di essere trasportati, avevano fermato una macchina nella salita per Cuglieri. Le altre che sopraggiungevano si fermavano in coda e a quel punto le avevano rapinate tutte. Il bottino? Di tutto: gioielli, orologi, denaro e così via. Una scena molto divertente. Due clienti avevano dato l’incarico a me e all’avvocato Antonio Busia che in seguito sarebbe diventato mio cognato. Avevo 32/33 anni. Ero uno sprovveduto come lui, anzi lui un po’ meno. Il giudice istruttore di Oristano era molto rigido, si rifiutava di riceverci. Avevamo pensato bene di presentare l’istanza. “L’este falau unu raiu”. Subito il cancelliere ci ha rincorso nei pressi del palazzo di giustizia per conferire con lui».
Come era finita? «I cosiddetti rapinatori erano una quindicina e trovarono rifugio nella casa di un povero proprietario dell’oristanese sposato ad una procace emiliana che alla presenza di tutti questi baldi giovani ha fatto festa. Per tutti una bella vacanza. Per uno di quei garbugli dell’avvocatura, il processo si è svolto a Nuoro e la signora era presente in qualità di testimone ma non conosceva i nomi di nessuno dei 15 imputati. Andò a sedersi di fronte al pubblico per essere ammirata, dette le spalle alla corte suscitando l’ilarità generale perché non si capiva chi era, chi non era. Dopo un paio di udienze vennero tutti assolti!».
Come vorrebbe oggi la giustizia? «Cambierei tutto. Non è adeguata ai tempi. Noi abbiamo un diritto, quello romano, molto più perfetto di quello inglese e americano però la burocrazia è soffocante. Aggiungiamo che oggi i giovani sono impreparati, faticano a capire i meccanismi e quindi una causa va avanti con i rinvii. Il giudice, dinanzi ad un carico eccessivo, scagliona nei tempi e succede anche che questo giudice venga trasferito, le udienze si fermano, ne arriva un altro e le sentenze si allontanano. I cancellieri sono bravi ma pochi e nelle cancellerie c’è un marasma. Il diritto civile è una cosa difficilissima e le questioni civili sono difficili da penetrare. Troppe mi hanno dato filo da torcere: matrimoni andati a male, cause ereditarie che partono dall’infanzia, si trascinano per una vita, coinvolgono generazioni che non raccontano mai tutto e quindi è difficile scavare per capire. La guerra in famiglia, nei nostri ambienti, è una lotta al coltello. Adesso è stato modificato il codice di procedura penale e in parte anche quello di procedura civile e per riuscire ad orientarsi bisogna lavorare tutti i giorni. Ho attraversato i due diversi processi penali dall’inquisitorio all’accusatorio, prima c’era il giudice istruttore ora non c’è più, adesso c’è il pubblico ministero che deve provare il fondamento dell’accusa».
Quale consiglio darebbe ad un giovane avvocato? «Fra i miei colleghi giovani ci sono quelli preparati e quelli che vogliono la vita bona e non tutti capiscono che il nostro è un lavoro di grande responsabilità. A questi consiglierei di fare altro. Oggi la società è molto cambiata, prima gli avvocati erano dei cavalli di razza. Oggi si lamentano perché non li pagano, hanno ragione, ma spesso hanno ragione anche quelli che non li pagano».
Lei rifarebbe l’avvocato? «Sì, ho amato e amo questo lavoro. Nato in mezzo agli avvocati ero un predestinato».
Quando smetterà di lavorare? «Mai».
per gentile concessione de https://www.ortobene.net/