di FRANCESCA BIANCHI
Pietro Pisciottu, per anni insegnante di matematica e scienze nelle scuole medie, che lo scorso anno ha pubblicato il libro L’Agnata. Storia e memoria di uno stazzo gallurese (Editrice Taphros). In questo lavoro lo scrittore luogosantese fa rivivere persone, luoghi, vicissitudini, sapori e profumi legati ai momenti più spensierati trascorsi da bambino nello stazzo di proprietà della sua famiglia, situato nella campagna di Luogosanto (SS). Si tratta di un intenso racconto in cui l’autore rievoca i ricordi più cari legati allo stazzo dell’Agnata, testimone, insieme ai tanti stazzi disseminati in Gallura, di un’antica tradizione tipica di questa meravigliosa regione della Sardegna; un racconto che a tratti si configura come una celebrazione e un omaggio alla natura incontaminata della campagna gallurese, così come si presentava ai suoi occhi di bambino.
La parte iniziale del libro propone un’approfondita digressione storica sulla Civiltà degli Stazzi, in cui viene preso in considerazione anche l’aspetto linguistico. Qui l’autore si sofferma sulla definizione del termine stazzo e affronta il tema relativo alla nascita della cultura e della lingua gallurese, che in passato alcuni studiosi hanno collocato nel Settecento e che sarebbe avvenuta grazie alle migrazioni in terra sarda di genti provenienti dalla Corsica. In realtà – spiega nel libro Pisciottu, riportando testimonianze e dati emersi negli ultimi anni – la cultura gallurese è ben più antica del Settecento, così come sono più antiche le relazioni fra còrsi e sardi.
Ricca di curiosità e di affetto devoto e sincero è la sezione in cui prendono vita racconti e aneddoti familiari: qui l’autore ripercorre la storia della sua famiglia, facendo rivivere le figure che più hanno contribuito alla sua crescita e alla sua formazione.
Della cultura degli stazzi Pisciottu non manca di sottolineare la vita di sacrifici e lavoro duro che conducevano i pastori, i quali, allevatori e agricoltori al tempo stesso, si alzavano all’alba, a volte anche prima, e finivano di lavorare al tramonto. Non mancavano mai, però, sentimenti di solidarietà, ospitalità, rispetto reciproco, che oggi, purtroppo, scarseggiano sempre più. Lo scrittore parla anche degli anni Sessanta, gli anni che videro la nascita della Costa Smeralda e segnarono il declino della civiltà degli stazzi. Spiega, infine, in che modo gli stazzi abbiano incarnato un esempio concreto della possibilità di produrre in maniera economica e sostenibile in tempi in cui non si facevano campagne di sensibilizzazione ambientale, un modello a cui ispirarsi, alla luce delle nuove tecnologie e dei nuovi mezzi di cui disponiamo, per riproporre il sistema produttivo dello stazzo e fare in modo che questa cultura secolare non svanisca per sempre, travolta dalla frenesia della nostra epoca.
Prof. Pisciottu, come è nata l’idea di scrivere il libro L’Agnata. Storia e memoria di uno stazzo gallurese? Ho avuto sempre la passione di scrivere, ma senza nessun obiettivo specifico. Possedevo materiale, specialmente tanti racconti antichi che ho ascoltato dai miei famigliari quando ero bambino. La molla è scattata dopo aver letto il bel libro “Gallura. Gli stazzi” (Paolo Sorba Editore, 2016), scritto dal prof. Manlio Brigaglia e dall’amico e compaesano Franco Fresi. In questo lavoro si passano in rassegna tutti gli stazzi della Gallura, di cui si descrivono le strutture, le vicissitudini, le persone che vi hanno abitato e lavorato, facendo rivivere nel lettore quelle atmosfere genuine e ricche di valori di un’epopea passata e ormai perduta. Ho pensato, allora, di seguire quell’idea, concentrando il lavoro di descrizione e approfondimento su uno stazzo soltanto: mi riferisco allo stazzo de L’Agnata, che io e mio fratello Antonio abbiamo avuto la fortuna, l’onore e l’onere di ereditare da li nostri maggjóri. Ho dato ampio spazio ai miei ricordi di bambino, enfatizzati dal tempo trascorso, e alle riflessioni di una persona matura, ma non imparziale e distaccata, in quanto sono profondamente innamorato dei luoghi, delle cose e degli avvenimenti descritti. Questo libro è una testimonianza di quel tempo e contiene i preziosi ricordi di chi ha avuto modo di conoscere e vivere gli ultimi anni di vita attiva di una parte di quel mondo, scandito da consuetudini secolari, prima della sua trasformazione in una piccola azienda agricola moderna e del suo malinconico stato di abbandono.
Nel libro si sofferma approfonditamente sulla definizione del termine “stazzo”. Cosa si intende con questo termine? Inoltre, in una documentata digressione, affronta anche il tema relativo alla nascita della cultura gallurese, che in passato alcuni studiosi hanno collocato nel Settecento e che sarebbe avvenuta grazie alle migrazioni in Sardegna di genti provenienti dalla Corsica. Perché questa tesi non è credibile? Della lingua gallurese, invece, cosa si sa? Per stazzo si intende, in Gallura, sia l’abitazione del pastore-contadino, titolare o gestore della proprietà, sia le sue dipendenze e i terreni tutt’intorno, un tempo seminati prevalentemente a cereali e usati come pascolo per gli animali d’allevamento: il nucleo basilare di un’autentica rete economica, sociale e abitativa, costituita da migliaia di elementi interconnessi tramite profondi legami condivisi, un unicum nell’intero Mediterraneo, tale da indurre gli esperti a definire il fenomeno Civiltà degli Stazzi. Vi è stato chi ha immaginato la nascita della cultura gallurese a partire dal 1700, per effetto di migrazioni còrse in terra sarda, favorite dallo spopolamento causato da varie epidemie. Si tratta della concezione del geografo francese Le Lannou, che non si discosta molto dalla spiegazione fornita da altri autori, per i quali tutto sarebbe nato attorno al 1600, secondo una dinamica che avrebbe visto il verificarsi di un repentino cambiamento nell’attività pastorale dei galluresi, passati all’epoca “da nomadi a stanziali”. La trasformazione sarebbe avvenuta sempre in seguito all’arrivo di nuovi nuclei familiari, provenienti per lo più dalla Corsica, ma anche dalle ville dell’alta Gallura o da altri luoghi della Sardegna e della Penisola italiana. Deserte lande, abbandonate a causa del diffondersi di gravi malattie infettive o perché appartenenti a feudatari spagnoli residenti nella Penisola iberica, quindi troppo distanti per esercitare efficacemente il loro potere, sarebbero state occupate dai nuovi arrivati. Tali ricostruzioni furono accolte dal linguista tedesco Wagner, che a quelle migrazioni attribuì la costituzione delle varietà linguistiche del Capo di Sopra della Sardegna, ovvero il gallurese, l’anglonese, il sassarese, dallo studioso definite “còrse” o “italiane”, “non sarde”. I dati emersi negli ultimi decenni, però, sposterebbero indietro di alcuni secoli la data di nascita del gallurese: fra le prime attestazioni della parlata nord-orientale dell’Isola si ricordano un’iscrizione del 1400, sul muro di una chiesa in agro di Érula (area linguistica gallurese nel Logudoro) e la registrazione di un toponimo nel territorio di Budoni, “lu Narboni”, risalente al 1300. Le somiglianze con la Corsica appaiono leggibili come il segno dell’influenza sarda settentrionale, cioè gallurese, sull’antico ambiente agropastorale còrso. Quella fra còrsi e sardi è, dunque, una relazione dalle antiche origini, proseguita in età romana e medievale, tale da rendere inadeguata la spiegazione della caratterizzazione culturale della Gallura per effetto dei movimenti migratori dell’età moderna.
Nel libro, tra i ricordi più cari di una giornata trascorsa all’Agnata, cita un episodio verificatosi nel corso di una giornata dedicata alla trebbiatura. Cosa accadde quel giorno? Ogni anno, nel periodo tra giugno e luglio, si effettuava la trebbiatura (aglióla), una giornata di duro lavoro, ma anche di grande festa e allegria. Ne ricordo una in particolare, avvenuta a L’Agnata quando avevo forse meno di dieci anni. Ricordo che partimmo all’alba da Luogosanto con il carro a buoi. Arrivati a destinazione, la famiglia di pastori ci accolse nel migliore dei modi. Il momento del pranzo era sempre un’occasione di festa allegra e spensierata, grazie anche all’ottimo cibo, saporito e genuino. Ricordo che la sera andammo tutti a dormire abbastanza presto, dato che l’indomani ci attendeva una giornata di duro lavoro. Per me sistemarono un giaciglio nella casa manna, assieme ai figli dei pastori. Quando mi svegliai, al mattino, il sole già faceva sentire la sua presenza con i raggi dorati che attraversavano le finestre. Il rumore della trebbia mi fece capire che il lavoro era già iniziato da un po’. Mi affacciai alla porta e mi si presentò uno spettacolo che non ho mai dimenticato: la trebbiatrice era avvolta da una nuvola di polvere che i raggi solari facevano diventare d’oro. Attorno ad essa una decina di persone si muovevano, quasi come in una danza, ognuno con un compito preciso e con un sincronismo perfetto: nella mia mente l’iconografia dell’aglióla è questa.
Un momento importante della vita dello stazzo era quello in cui avveniva lu tunditòggju. Cosa si intende con questo termine? Come si svolgeva questa pratica? Lu tunditòggju è la tosatura delle pecore. Si effettuava nel periodo di maggio-giugno per mezzo di grosse forbici. A L’Agnata c’erano una cinquantina di pecore, per cui 4-5 persone impegnate nella tosatura ne avevano per tutta la mattinata. Si iniziava a lavorare molto presto; il lavoro si faceva all’interno del recinto, la mandra, dove le pecore venivano rinchiuse dalla sera prima. Ogni pecora veniva legata e poi passata per le forbici e, appena tosata, liberata all’esterno; qui non riconosceva più i propri simili, perché avevano cambiato aspetto, e ne nascevano spesso delle zuffe. Ma la giornata di lu tunditòggjuera anche un momento di festa, perché tutti i lavoratori dello stazzo si incontravano; spesso si invitavano anche degli ospiti e si festeggiava con un sontuoso pranzo a base di pecora. La lana della tosatura veniva impiegata soprattutto per imbottire i materassi e i cuscini e, anche se la sua qualità non era delle migliori, in passato veniva filata per fare le calze e le maglie.
Dalla lettura del libro si comprende bene quanto siano impressi nel suo cuore i profumi e i sapori genuini dell’infanzia, come quello del pane casereccio prodotto con farina locale e cotto nel forno a legna…
Proprio così. Quando si andava allo stazzo per determinate ricorrenze, come la trebbiatura, la vendemmia, la tosatura delle pecore, l’uccisione del maiale, si portava sempre qualche provvista come la pasta, il caffè, la frutta, il pane. Nello stazzo c’era sempre il pane fatto in casa: non mancavano mai, infatti, la buona farina prodotta sul posto, il forno, la legna. Le abili mani delle donne riuscivano a far lievitare con maestria l’impasto e a preparare del pane squisito. A tavola, durante il pranzo, notavo che noi del paese mangiavamo sempre il pane casereccio, mentre la famiglia dei pastori mangiava quello che portavamo noi, che veniva impastato con le macchine, cotto nei forni elettrici e preparato con farine provenienti da altri luoghi. Era una questione di gusti, influenzati dall’abitudine che a tutti faceva preferire la novità. Al momento della partenza si effettuava lo scambio dei pani: noi lasciavamo il pane di paese e in cambio ci veniva dato il pane fatto in casa. Nel cambio eravamo noi a guadagnarci, ne sono ancora convinto!
Fra le famiglie che hanno lavorato a L’Agnata, ce n’è qualcuna che ricorda con particolare affetto? Sicuramente ricordo con maggior affetto e simpatia i Pirredda, anche perché a loro è legato il mio tempo da bambino nello stazzo. Quella dei Pirredda era una famiglia numerosa, ma nello stazzo il lavoro era tanto, per cui ognuno aveva il suo preciso compito e tutto funzionava alla perfezione. Il rapporto che c’era fra di noi non era fra datore di lavoro e dipendente: ci sentivamo tutti facenti parte di una grande famiglia che viveva in armonia.
Poi arrivarono gli anni Sessanta e, con essi, l’inizio della fine di questa cultura che per secoli è stata patrimonio indiscusso del territorio gallurese. Cosa successe in quegli anni? Sì, in quegli anni stava nascendo la Costa Smeralda e le ville e gli alberghi venivano abbelliti con giardini che necessitavano di concimi e terriccio. Il letame de L’Agnata trovò una destinazione prima impensabile e da sostanza senza valore divenne l’elemento di un business redditizio. Si raccolse, venne messa nei sacchi e, attraverso camion, venne portato in Costa. Per la soddisfazione di tutti, sia dei pastori che dei padroni, dalla sua vendita si ricavò la somma di cinquecentomila lire, una bella cifra per quei tempi. Era l’equivalente del ricavato della vendita annuale dei capretti, solo che in questo caso non erano richieste lunghe giornate appresso ai capricci delle capre, con levate alle prime luci dell’alba, il caldo torrido dell’estate o il freddo dell’inverno: bastava riempire i sacchi del prezioso letame e il gioco era fatto. Purtroppo, nessuno allora si accorse che era l’inizio della fine: si dissipava in poco tempo un capitale, il letame, accumulato nel corso di un secolo, una sproporzione fra gli anni necessari alla sua formazione e i giorni dedicati alla sua consumazione. Cambiavano i tempi, apparivano all’orizzonte nuovi impieghi sicuramente più remunerativi, come manovali, muratori, falegnami, camerieri, compreso il lavoro di trasferire in Costa Smeralda, per abbellire le ville dei nuovi proprietari terrieri, i ginepri, le rocce e persino il letame prodotto dai nostri animali nelle nostre campagne. Quelle campagne che, si iniziava a pensare, non valeva più la pena coltivare. Nel giro di pochi anni il turismo internazionale decollò in Gallura, mentre il lavoro degli stazzi venne abbandonato.
Quando ancora non si parlava di sensibilità ecologica, difesa dell’ambiente, attenzione alla qualità del cibo, “prodotti bio”, gli stazzi hanno rappresentato concretamente la possibilità di produrre in maniera ecologica e sostenibile. In che modo sì riuscì a fare tutto ciò? A L’Agnata, come in tutti gli stazzi galluresi, si viveva nella natura e della natura. L’ambiente naturale, con i suoi ecosistemi, come quelli creati dal bosco, dal fiume, dalla macchia mediterranea, rappresentava un giardino dell’Eden, dove il pastore-agricoltore trovava continua opportunità di lavoro e da cui traeva sostentamento per sé e per la propria famiglia. Naturalmente non bisogna pensare a una vita bucolica, fatta soltanto di gioie e piaceri: la vita del pastore era dura, in perenne lotta con le avversità naturali, ma sempre in simbiosi con la natura, dalla quale dipendeva, assecondandone i ritmi. I concetti sviluppati in seguito dalla scienza moderna, come ecologia, bioritmo, biodiversità, agricoltura biologica, sostenibilità, negli stazzi venivano vissuti e applicati ante litteram dai nostri avi. L’ecologia si occupa dello studio dell’ambiente, inteso come l’insieme delle interazioni fra esseri viventi, mondo minerale e fattori climatici. Oggi, nel parlare comune, il termine ecologico ha assunto il significato più esteso di ciò che rispetta l’ambiente naturale e non ne altera i suoi equilibri. Questa era la condizione normale, quotidiana, dello stazzo: la forza lavoro veniva fornita dalle braccia degli uomini e dalla trazione animale, senza troppo incidere sulla terra, come in parte è avvenuto in seguito con la massiccia diffusione dei trattori; il carico di bestiame, per di più diversificato, era adeguato all’estensione dei terreni; le superfici coltivate erano minime rispetto a quelle destinate al pascolo; nelle coltivazioni non c’erano monocolture, ma una diffusa diversificazione delle specie coltivate e dei substrati; i cereali si seminavano sullo stesso terreno per non più di due anni, dando così al terreno stesso la possibilità di ricostituire in breve tempo le sue caratteristiche fisiche e chimiche; la chimica in agricoltura era ancora sconosciuta e per l’apporto di sostanze nutritive, specialmente negli orti, ci si affidava al letame prodotto dagli escrementi degli animali. Nello stazzo non c’era neppur la discarica, perché non c’era niente da buttare: si praticava il riciclo assoluto di tutto, non esisteva l’usa e getta; l’insieme dei rifiuti organici finiva nelle bocche fameliche di cani, maiali, galline, mentre gli scarti dell’orto, del frutteto e della vigna andavano agli erbivori. I tempi della vita lavorativa e non erano scanditi dall’alternarsi del giorno e della notte, dalle stagioni e dalla meteorologia. Negli stazzi, inoltre, la carne, il latte, il formaggio, i cereali, il vino, la frutta, i prodotti dell’orto, rispettavano tutti disciplinari non scritti e avrebbero ben figurato nei più severi mercati “bio” di oggi. La sostenibilità, intesa come la capacità di produrre qualsiasi cosa senza danneggiare l’ambiente, è l’insieme dei concetti ecologici sopra elencati.
Cosa si augura per il futuro de L’Agnata? Oggi, quando provo ad immaginare un futuro per l’Agnata, mi capita spesso di pensare all’alienazione. Fino a 15 anni fa mio fratello Antonio ed io abbiamo cercato di continuare l’attività di allevamento bovino. Forse abbiamo commesso l’errore di voler proseguire un’attività con metodologie appartenute a tempi passati e non più attuali e di non aver guardato ad altri sistemi economici più moderni e attuali, quali la viticoltura, l’agriturismo, il trekking, l’escursionismo e via dicendo. Mi piacerebbe che quello stazzo, lo stazzo della mia infanzia, potesse tornare a vivere. Considero lo status quo un’anomalia che nessuno può permettersi: un potenziale produttivo lasciato così in abbandono è un vero peccato. Ritornare come prima è impossibile, ma si può riproporre la produzione dello stazzo alla luce delle nuove tecnologie e dei nuovi mezzi che abbiamo adesso. Chi vivrà vedrà!