di GIANRAIMONDO FARINA
In questi ultimi giorni vi è un problema che, per il governo Draghi stà diventando un nodo cruciale da risolvere. E’ quello di Paolo Savona, ex ministro degli Affari europei nel Conte1 (ed ex tante altre cose, nonché candidato al Mef nello stesso governo ma stoppato da Mattarella) ed attualmente presidente della Consob in carica, almeno fino al 2026. Che i due non si siano mai piaciuti è sotto gli occhi di tutti da almeno quarant’anni. Entrambi, infatti, allievi di Guido Carli e poi fra i discepoli di Ciampi, come ha sottolineato Marcello Zacchi su “il giornale.it”, hanno visto, in seguito, le loro strade dividersi.
L’”oggetto” attuale del contendere riguarda la delicata questione della retribuzione dei dipendenti Consob, da equiparare a quella dei funzionari di Bankitalia. “Pecunia non olet”, si dovrebbe dire. La questione, di recente, l’ha bene spiegata Andrea Greco su “Repubblica”: dopo cinque anni i dipendenti Consob si sono allineati al contratto in uso presso la Banca d’Italia, con benefici in merito all’aumento delle retribuzioni interne del 9%, nonché futuri in carriere più rapide e più ispirate alla managerialità e basati su obbiettivi di efficienza.
Per essere più precisi, tale richiesta era stata rigettata dal governo Conte nel 2020 con un aggravio per le casse dello Stato, denunciato dalla Ragioneria, calcolato in 25 milioni annui di euro. In base a ciò il Collegio ha deliberato un nuovo testo, più equilibrato. Tuttavia, ai primi di marzo, il governo Draghi ha inoltrato alla Consob una richiesta di chiarimenti, in particolare “per poter capire”- si legge- “ la sostenibilità di nuovi costi interni su base decennale”. La risposta dell’economista sardo, stando a ricostruzioni non ufficiali, non si è fatta attendere e, nel rispetto dell’indipendenza dell’autorità da lui presieduta, è stata negativa. Mossa che, stando sempre ad alcune fonti, sarebbe stata poco rituale, non collegiale e neppure condivisa con il resto dei commissari e che, poi, avrebbe indotto lo stesso Savona a tornare sui suoi passi, quando l’autorità indipendente ha, poi, fornito al governo altri dati.
Tuttavia, l’atteggiamento dell’economista sardo è, per certi versi giustificabile e, sostanzialmente, può essere letto come il segnale evidente della sua contrarietà a Draghi che ne vorrebbe anzitempo le dimissioni. Per motivare ciò, a questo punto, però, serve anche fare un’analisi politica. Da un lato il Conte 2 aveva “rimandato al mittente” la prima proposta dell’autority, non avendo alcuna risposta “a stretto giro” dal suo presidente (ben conscio di essere stato indicato in quel ruolo da una parte non trascurabile dell’allora maggioranza giallorosa, sebbene nominato nel Conte1). Ora, invece, il governo “dei migliori” sembrerebbe aver accettato la richiesta Consob di aumento degli emolumenti, contrariamente ai più volte conclamati, più sulla carta, proclami di contenimento della spesa pubblica. Il tutto con un unico obbiettivo: mettere in un “cul de sac” il presidente dell’autority e sbarazzarsi quanto prima (sebbene il mandato scada nel 2026) elegantemente della sua ingombrante ed ostica personalità. In concreto Savona riceverebbe il “contentino” sulla questione pecuniaria per i suoi funzionari, ma a goderne sarà, soprattutto, il suo successore, nel piano ben congegnato dal nuovo esecutivo. Un esecutivo che, in tal senso, non vorrebbe alcuna frapposizione ostativa all’esercizio del proprio mandato “a scopo”, quello del governo e della gestione del fiume di denaro derivante dal recovery found e per farlo sarebbe disposto a cambiare in corsa anche la “catena di comando” di una delicatissima autority di vigilanza finanziaria come la Consob, al momento “non del tutto allineata”, rischiando di creare un “vulnus” costituzionale.
Nella “vexata quaestio” Draghi- Savona “entra in gioco”, poi, la “pista sarda”, evidentemente poco congeniale al nuovo presidente del Consiglio. Questa “pista” viene bene illustrata dal sardo giornalista Pino Corrias, sul “Fatto quotidiano”, in un articolo del novembre 2018, dopo che Mattarella rifiutò all’economista sardo di affidargli il Tesoro (si dice su pressione di Draghi), con il “contentino” degli Affari europei. Scriveva, allora, Corrias: “Savona è sgradito al presidente Mattarella che, quando vuole, sa essere loquace. E specialmente a Mario Draghi, l’atermico sacerdote dell’euro, da cui lo divide una ruggine ben coltivata già nei primissimi corridoi della Banca d’Italia, per temperamenti ed orizzonti incompatibili. Paolo Savona, ai bei tempi coccolato da Guido Carli, il Governatore, e, poi, da Francesco Cossiga, il Presidente (sardo), le due sole maiuscole della sua carriera”. Già, proprio Cossiga, colui che, in tempi non sospetti, nel 1992, definì Draghi con queste parole “indicative” anche per l’oggi : “Un vile affarista, non si può nominare presidente del Consiglio che è stato socio della “Goldman&Sachs”, grande banca di affari americana”. Savona, poi, ribadirà la sua avversione a Draghi nell’intervento dell’agosto 2019 al Meeting di Rimini in cui accusò l’operato dell’attuale premier, allora presidente della BCE, di avere fatto il “quantitative easing” nel 2012, “quattro anni dopo lo scoppio della crisi del 2008, quando molte imprese italiane erano già saltate”. Nello specifico, il riferimento di Savona era al programma Omt (“Outright Monetary Transactions”), conosciuto come “scudo anti-spread”, un programma di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario limitato ad alcuni Paesi, a fronte, però, della sottoscrizione di un “memorandum” che impegnava il Paese beneficiario dell’ “aiuto” all’adozione di una serie di misure.
Per concludere, sempre in quest’intervento, fatto a margine della caduta del Conte 1, Savona rilasciava una dichiarazione “profetica”, valida per la situazione politica attuale: “Più che di nuovi leader il Paese ha bisogno di riprogrammare integralmente il bilancio dello Stato e di passare da un contratto di governo ad un contratto sociale”. Tutti obbiettivi non certamente realizzabili con un esecutivo “a tempo” e “di scopo”, l’ennesimo (“sic”), come questo.