
di NANNI BOI e MARCO LEDDA
Record di durata che nello sport non ha uguali. Fernando Atzori è stato l’unico atleta nato in Sardegna a vincere una medaglia d’oro negli sport individuali ai Giochi Olimpici moderni, da Atene 1896 a oggi. Altri sardi portarono a casa l’oro: il ginnasta amsicorino Francesco Loy ne vinse due (Stoccolma 1912 e Anversa 1920), la seconda con Michele Mastromarino, altro ginnasta dell’Amsicora, ma vennero conquistate nelle gare a squadre. Così come Paolo Angioni nell’equitazione. E proprio con Angioni, Fernando Atzori detiene un altro primato: dal 1964 (Olimpiadi di Tokyo) a oggi sono passati 56 anni e nessun altro atleta isolano ha mai più conquistato il podio più alto nei Giochi Olimpici.
Atzori è stato un pugile nella categoria dei mosca. Nato ad Ales in provincia di Oristano nel 1942, si trasferì a 16 anni a Firenze perché aveva capito che se voleva fare carriera nella boxe era quella la sua strada.
E infatti non solo arrivò a conquistare l’oro a Tokyo battendo in finale il polacco Olech, ma mise in bacheca due mondiali militari (1963 e 1964) e i Giochi del Mediterraneo (1963). Poi, passato professionista tre anni dopo, conquistò proprio a Firenze il titolo europeo nella stessa categoria contro il francese Leeber, che seppe difendere con successo ben nove volte. Nel 2015 il Coni gli conferì il Collare d’Oro al merito sportivo, massima onorificenza per un atleta. Non ebbe mai una chance mondiale, che pure avrebbe abbondantemente meritato.
Se n’è andato a 78 anni, nella sua casa di Firenze, vittima del covid. Lascia la moglie, due figlie e un vuoto immenso nel panorama della boxe sarda e italiana.
Nanni Boi
Fernando Atzori, il pugile peso mosca medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo del 1964, è passato a miglior vita il 9 novembre 2020. Aveva 78 anni, essendo nato ad Ales il 1° giugno del 1942. Da qualche tempo non stava per niente bene. Mi è venuto istintivo andare a rileggere quello che ho scritto su di lui nel 2004, nelle pagine del libro sugli sport praticati ad Ales negli anni dal 1900 al 2000. Ovviamente vi dedico un capitolo anche alla “boxe alerese”. In merito ad esso e a Fernando tra le altre cose, ho scritto così: “Il discorso sul pugilato alerese scivola inevitabilmente sul nostro Fernando Atzori, un piccoletto sveglio, scaltro, intelligente; un uomo in tutto a nostra misura fuorchè nell’arte della boxe, nella quale e con la quale egli ha dato tanto lustro a se stesso, ad Ales, alla Sardegna, all’Italia”.
A dire il vero, in quel libro, prima che del pugile ho detto dell’atleta, nel capitolo dedicato, appunto, all’atletica leggera. Ciò perché, nei primi anni sessanta del 1900, Fernando ha militato nel gruppo sportivo dell’Oratorio parrocchiale “San Giovanni Bosco” di Ales. Faceva il fondo e il mezzofondo. Io, allora, all’interno dell’Oratorio, ero un semplice animatore. Ricorderò sempre la stupenda frazione effettuata da Fernando nel Giro Podistico di Gonnosfanadiga. Egli riuscì a rimontare caparbiamente diverse posizioni e a dare un lusinghiero contributo determinante al risultato finale della staffetta alerese. Fu un secondo posto.
Perché dico questo? Non certo per attribuirmi meriti di qualche tipo o di procurarne all’Oratorio parrocchiale. Fernando, del resto, al tempo, aveva già cominciato a calzare i guantoni e veniva da noi esclusivamente per “fare fiato” come si usava e si usa dire in gergo. Lo dico per sottolineare il fatto che Fernando, prima di diventare un pugile di razza, è stato un atleta in tutti i sensi, un elemento in grado di cimentarsi con successo anche in altre discipline sportive. Ma dico che, ancora prima, egli è stato sicuramente un giovane dotato di grande volontà e di un enorme spirito di sacrificio, un vero uomo, un ragazzo che è riuscito a combattere e a migliorare una sorte che per lui si profilava non proprio favorevole. Di lui è già stato detto tutto: le umili origini, la povertà, l’infanzia e l’adolescenza da orfano, i primi lavoretti, il carattere allegro, scanzonato, gioviale… E poi i primi guantoni e la prima palestra. E che palestra! Era situata quasi all’imbocco della via Santa Maria al numero civico 7. Il cronista d’allora, Francesco Vacca, la descriveva così: “Una stanzetta priva di finestre, senza mattonelle, un bugigattolo dove non c’era nemmeno un rubinetto per lavarsi le mani”. E’ chiaro che il giovane Atzori è cresciuto come pugile dopo essere sbarcato in Toscana in cerca di lavoro e durante il servizio militare. La sua brillante carriera è partita da lì. Alla “società Polisportiva Ales” di quegli anni ’60, presieduta dall’avvocato Arturo Cabiddu, va il merito di averlo incoraggiato e sostenuto e di avergli indicato la strada da imboccare e percorrere. Gli straordinari traguardi da lui raggiunti sono soltanto suoi: pluricampione militare, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo, campione italiano, pluricampione europeo. Un vero fenomeno!
Ad Ales si è avuta l’occasione di rivederlo solo raramente. Ha fatto ritorno al suo paese natio solo in qualche circostanza e più che altro per fare una visita fugace alla tomba dei suoi genitori. Mi piace concludere, seppure per cenni, che quanto ho scritto in un passo del libro già citato, più che ai risultati tecnico-sportivi, a me piace guardare alla vicenda umana. A quale ragazzo povero non sarebbe piaciuto vivere una simile storia? Un sogno che in Fernando è diventato realtà. Ritengo che nel campo della boxe casi simili non siano rari. Storie sulla falsariga di quella raccontata dal bel film americano “Lassù qualcuno mi ama”. Il protagonista (il grande Paul Newman) vi recita la parte di un pugile proveniente dagli strati più diseredati di una metropoli degli Stati Uniti, ma che, attraverso vicende e sacrifici indicibili, arriva al successo. Il trionfo finale, nel tripudio di una città in delirio, spinge il protagonista a sollevare uno sguardo riconoscente al cielo. Io non so quali pensieri abbiano attraversato la mente di Fernando nella mattinata del 22 novembre 1964, al suo ingresso trionfante ad Ales … Niente toglie che anche lui abbia rivolto lo sguardo verso l’alto e abbia esclamato o semplicemente pensato, grato anch’egli al buon Dio: “Davvero, lassù, qualcuno mi ama!”.
Marco Ledda