di MASSIMILIANO PERLATO
Chi va in Sardegna ha la straordinaria possibilità di fare un viaggio particolarissimo, ricco di sorprese e di suggestione. È un viaggio attraverso il tempo, dentro l’anima e l’origine misteriosa di un popolo semplice, eppure così ricco di creatività e di fantasia. È un viaggio alla scoperta degli antichi modi di vestire, alla ricerca dei mille segreti nascosti negli antichi costumi tradizionali. Ce ne sono un’infinità, diversissimi tra loro. Nessun’altra regione italiana ne ha un numero uguale. In Sardegna praticamente ogni paese ha i suoi costumi e li difende con orgoglio, perché l’antico modo di vestire nasconde l’identità stessa di ciascun paese, rappresenta la testimonianza vivente della sua cultura e del modo di intendere il divertimento, il lavoro, il dolore. L’abito, nei tempi passati, sottolineava i diversi momenti del ciclo della vita: semplice nella vita quotidiana, sfarzoso nei giorni della festa, sobrio e composto nei momenti del lutto. Per questa ragione ogni paese è geloso del suo abito tradizionale e ne conserva con cura la memoria storica. È così ancora oggi in ciascuno dei 370 comuni esistenti nell’isola. Naturalmente quasi nessuno indossa più gli antichi costumi nella quotidianità, anche se ci sono molti centri dell’interno nei quali le donne e qualche vecchio continuano a vestire gli abiti della tradizione. Perciò il turista che capitasse in un giorno qualunque a Busachi, oppure a Desulo, Tonara e Orgosolo, troverebbe ancora molte persone anziane vestite come 200 anni fa. Da questo punto di vista, il tempo sembra proprio essersi fermato. A parte queste eccezioni, però, la circostanza in cui il costume viene tirato fuori dagli armadi e indossato con fierezza da vecchi e giovani, è la festa popolare. Ogni paese ne ha una tutta sua, generalmente quella dedicata al santo patrono. Feste che si svolgono perlopiù in estate, in coincidenza con il periodo del raccolto. In una società povera come quella sarda, che viveva soprattutto di pastorizia e di agricoltura, infatti, l’occasione più attesa per far festa era proprio quella in cui la terra dava finalmente i suoi frutti, offrendo così a tutti qualche giorno di abbondanza.
Un altro periodo propizio alla festa era quello del mese di settembre, quando incominciava l’anno agrario ed i contadini affidavano ai campi le speranze per un futuro di benessere. Allora, in campagna, si svolgevano i riti propiziatori. La gente celebrava l’inizio di un nuovo anno di lavoro ed invocava l’aiuto e la protezione della divinità affinché concedesse agli uomini gli elementi indispensabili alla vita: il sole e l’acqua. Tutto questo, in buona parte, ancora accade, soprattutto nei piccoli centri ed in occasione della festa del santo protettore. In questo giorno, molti indossano i costumi tradizionali per andare in chiesa, partecipare alle processioni religiose o ritrovarsi in piazza per dare vita ai balli.
Vi sono poi in Sardegna almeno tre grandi occasioni in cui è possibile ammirare, tutti insieme, i costumi dei paesi delle 4 province: il 1° maggio a Cagliari, per la Sagra di Sant’Efisio, la terza domenica di maggio a Sassari, per la Cavalcata Sarda e proprio l’ultima domenica di agosto a Nuoro, in occasione della Sagra del Redentore. Costumi fatti a mano, pazientemente, utilizzando un’arte sapiente e difficile tramandata attraverso i secoli da madre in figlia fra trine, merletti, pizzi, decorazioni e ricami. I nipoti degli antichi possessori li hanno custoditi con grande devozione ed ora li indossano con fierezza nelle occasioni più importanti: per sentire l’orgoglio di portare gli abiti che furono dei propri avi e per offrire la testimonianza di un’arte che utilizzava, oltre all’abilità delle mani, una tecnica di fabbricazione antichissima e misteriosa. Tanto tempo fa, ad esempio, i tessuti venivano colorati usando erbe naturali ed applicando formule di trattamento che ognuno creava da sé e teneva gelosamente segrete, confidandole poi ad un componente della famiglia e così di generazione in generazione.
L’osservatore più curioso infatti potrebbe divertirsi a notare le differenze esistenti tra i costumi che vengono dalla montagna e quelli che arrivano dai paesi vicini al mare; potrebbe tentare di distinguere, tra le migliaia di abiti femminili, quelli che venivano messi il giorno delle nozze e quelli che, invece, venivano indossati dalle vedove; potrebbe cercare di capire se un certo costume apparteneva ad una persona benestante oppure ad una di modesta condizione sociale. Non sempre la distinzione è facile. Ad esempio, è sbagliato ritenere che la vedova vestisse sempre di nero. In qualche paese, infatti, la donna che perdeva il marito indossava un busto di broccato verde e oro. La differenza poi tra donne povere e ricche un tempo si notava facilmente perché le signore di ceto abbiente vestivano con abiti di colore rosso scuro, mentre le donne più povere dovevano accontentarsi di vesti di orbace grigio non tinto. La differente condizione sociale era rimarcata anche dalla qualità dei bottoni che ornavano il gilet: d’oro se appartenevano a persona facoltosa, d’argento se si trattava di persona del ceto medio e di metallo non prezioso se il giubbetto era indossato da persona di umile condizione sociale. In alcune zone dell’isola le donne portavano alle dita fino a 7 anelli, ma quelle più povere non potevano indossarne più di 3. Le donne ricche, inoltre, potevano fregiarsi di un rosario tutto d’oro e con i grani fatti di rubini.
Altre differenze importanti riguardavano il diverso uso cui erano destinati i costumi: alcuni erano abiti da lavoro e perciò dovevano essere molto pratici, facili da indossare e dotati di grandi tasche; altri venivano utilizzati in circostanze più importanti ed allora erano più eleganti, tagliati in maniera da valorizzare le forme del corpo e dare risalto alla bellezza del viso. Le donne, a volte, complicavano le cose perché arrivavano a mettere in testa anche 5 fazzoletti di colore diverso e ad indossare 7 gonne: una sull’altra. Agli uomini, invece, bastava poco per trasformare l’abito da lavoro in abito della festa. Era sufficiente aggiungere un bordo di velluto sul colletto ed un ornamento al berretto ed ai calzari per assumere un aspetto più elegante. Per le donne il discorso era più complesso, perché bisognava fare i conti con una certa civetteria che, anche in tempi molto lontani, sembrava caratterizzare il comportamento delle donne sarde.
C’è, ad esempio, un piccolo capo di vestiario femminile che ha una storia un po’ “pettegola”. Una storia che 150 anni fa scatenò una vera e propria guerra tra popolani, parroci ed autorevoli personaggi dell’epoca. Il capo in questione si chiama “parapettu” e, come è facile intuire, si tratta di un velo che serve a nascondere le nudità del seno. Anticamente, infatti, sembra che le donne sarde non si facessero pregare troppo quando si trattava di mostrare le rotondità del petto. Forse in questo atteggiamento, come sostengono molti storici, non c’era malizia ma soltanto la necessità di rassodare quella parte del corpo che, dovendo provvedere all’allattamento, era ritenuta di fondamentale importanza nell’economia domestica, soprattutto se in casa c’erano bambini da crescere. Proprio per questa ragione, in passato, le balie sarde erano tenute in grande considerazione. Comunque stessero le cose, queste abitudini di ostentare il seno non piaceva ai gesuiti che, nel 1825, decisero di mettere un freno ad una forma di esibizione che, a loro modo di vedere, rappresentava una tentazione troppo esplicita e, di conseguenza, una istigazione al peccato. Perciò, con l’aiuto di alcuni parroci bigotti, i padri gesuiti imposero alle popolane di coprire il seno con un apposito indumento. Nacque così “su parapettu”, che divenne mobile con l’ondeggiare del corpo, spostandosi lateralmente lasciando vedere molto di più di quanto si potesse ammirare in precedenza. D’altronde sembra che le donne sarde d’allora avessero un’abilità particolare nell’ostentare le proprie virtù fisiche e che sapessero valorizzare adeguatamente il proprio sex-appeal. Uno dei modi era quello di distribuire sapientemente sul corpo i meravigliosi gioielli che fanno parte del corredo di ogni costume. Sono oggetti in oro, argento, filigrana finissima che, nelle forme rotonde o allungate, contengono spesso sottintesi di tipo sessuale. Così avviene ad esempio, per i bottoni di forma mammellare, per i campanellini, per i pendenti. Le tecniche di realizzazione sono arcaiche e si ricollegano al sottile significato magico di antichi rituali che richiamano la vita, la fertilità e l’amore.
Certo è che la grande varietà di monili, reliquari, medaglioni, anelli, spille, braccialetti e collane, rappresenta uno spettacolo nello spettacolo, una rassegna straordinaria di arte orafa che conferisce alle donne fascino particolare.