di FEDERICA CABRAS
Denise Vacca, oncologa, 12 anni fa ha intrapreso (all’inizio per caso,poi per ferma convinzione) un percorso specifico di studio appassionato,pratica clinica quotidiana e un importante lavoro su se stessa, approcciandosi alla “medicina palliativa” – come spiega in modo dettagliato. «Mi occupo di condividere con gli ammalati inguaribili (ma curabili sempre),» spiega la dottoressa «tutte le ripercussioni che la malattia dà sulla persona ammalata e su chi le vive accanto».
Nella sua voce,entusiasmo e grande amore per quello che è un lavoro importantissimo. Specializzazione in Oncologia,racconta, poi valigia per il Nord Italia.«In quel momento la mia terra mi offriva poche alternative». Lì, per dieci anni, si occupa giorno dopo giorno di cure palliative. Consegue un master,frequenta corsi specifici e assiste numerose persone in casa, in ambulatorio e in Hospice (le strutture residenziali dedicate al ricovero di persone in fase terminale che, per diverse ragioni, non possono essere assistite a casa). Due anni fa, torna nella sua amata Sardegna «con l’entusiasmo di contribuire alla diffusione delle cure palliative nell’Isola». «Attualmente sono dipendente dell’Azienda sanitaria sarda (Unità di terapia del dolore e cure palliative) e presto la mia opera nel Sulcis Iglesiente. Per il 95%, la mia attività consiste nell’assistere le persone a domicilio (recandomi per consulti puntiformi o prese in carico più continuative nel tempo). Posso inoltre essere chiamata dai reparti ospedalieri per valutare delle persone ricoverate e visito una quota di persone (che possono ancora muoversi con relativa facilità da casa loro) in ambulatorio. Faccio parte di un gruppo di medici e infermieri dedicati al Servizio».
Ma cosa sono in buona sostanza le cure palliative? «Le cure palliative sono una medicina che non guarisce, ma che si prende tanta cura» spiega. «Una medicina che fa il percorso inverso rispetto alle ultra specializzazioni moderne, dove spesso il camice è indossato dalla tecnologia, ed il dottore-microscopio guarda il singolo organo più che l’insieme-persona. Non è una critica alla medicina moderna (che deve esserci e sempre far progressi), ma penso sia chiaro che l’approccio medico a chi affronta quella fase della vita che è l’ultima a causa di una malattia grave e senza più chances di risoluzione sulle cause, non può che concentrarsi sull’ammalato e non solo sulla malattia».
Insomma, una totale concentrazione sul paziente, sui suoi bisogni.«E parlo di tumori e di tante altre malattie non oncologiche»continua la dottoressa Vacca. «Parlo di adulti e parlo di bambini. L’approccio è individualizzato (ogni persona è solo quella) ma totalitario (dando le cure palliative importanza alle dimensioni fisica, ma anche psicologica, sociale, spirituale), perché chi si ammala di una malattia evolutiva e che morirà per quel motivo si trova scaraventato nella sofferenza globale (dolore e altri sintomi, ma anche dubbi esistenziali,emozioni intense e spesso contrastanti, solitudine interiore e il più delle volte anche avulsione dal contesto sociale e relazionale precedente la malattia)».
“Cure palliative” che rimanda al latino, “pallium”, mantello. «Il mantello avvolge, protegge, ripara.Questo fanno le cure palliative, che quindi tutt’altro sono che cure “inutili”e “di apparenza” come l’aggettivo farebbe credere. Le cure palliative sono un po’ una filosofia di cura. Sono spesso definite come concentrato di scienza, tecnica e umanità. Mirano a migliorare non la quantità di vita ma la qualità, provvedendo ai bisogni fisici, psicologici,sociali e spirituali (non in senso di religioni, ma di bisogni esistenziali in senso lato). Sono cure dove anche il tempo “si dilata”: non sono i pazienti che devono adattarsi ai nostri tempi, ma noi ai loro. Delle mie visite so l’ora di inizio, ma mai quella di fine, perché mi prendo e concedo tutto il tempo necessario».
Cure non solo rivolte a chi è malato di tumore, ma rivolte anche a tante altre patologie. «Per retaggio culturale si collega spesso il concetto di malato terminale e di cure palliative ai tumori. In realtà ci sono molte altre patologie che in stadio molto avanzato (dopo tanti anni dal loro esordio) possono dare complicanze tali da portare a morte. Mi riferisco a malattie del rene, del fegato, dei polmoni, del sistema nervoso e anche ai deficit cognitivi (le demenze). Anche in questi casi ci può essere un periodo “di terminalità” con esigenze simili a chi è affetto da un tumore. Le cure palliative hanno ragion d’essere anche per tutte le patologie non oncologiche».
La credenza diffusa è, ahimè, che le cure palliative siano un modo per morire prima, una sorta di eutanasia. Ciò non è assolutamente vero, è giusto creare informazione, spiegare alle persone cosa sono le cure palliative, in che modo aiutano un paziente e perché sono da considerare importantissime.«Le cure palliative affermano la vita, la valorizzano fino all’ultimo respiro»aggiunge Denise Vacca. «Considerano la morte come un evento naturale,non la anticipano né la pospongono. Cercano di attribuire valore e dignità alla persona nel momento in cui la dignità viene tolta dalla malattia,che si porta spesso dietro solitudine, isolamento, annichilimento… Il nostro obiettivo è migliorare la qualità di vita (ciò che è “qualità di vita” per quella persona e non secondo i miei canoni), in una fase nella quale si perde il senso di tutto perché la prospettiva della “non vita” crea terremoti esistenziali. Tutto il resto è altro. L’altro è scegliere con quale modalità morire: aspettare naturalmente o desiderare che la morte venga procurata prima con interventi esterni. Quale sia la nostra personale posizione rispetto a tematiche quali suicidio assistito o eutanasia, ad oggi in Italia queste pratiche non sono legali.Spesso si genera confusione tra “sedazione”(volta ad addormentare il paziente con farmaci NON letali fino a che la morte sopraggiunga naturalmente, in presenza di sintomi intollerabili per quella persona e a fronte di tutti i migliori farmaci per contrastare quel disturbo) ed “eutanasia”(volta a cagionare la morte della persona con farmaci letali). In sintesi, sedazione ed eutanasia si differenziano per l’INTENZIONE (nella sedazione lo scopo è alleviare i sintomi, manca la volontà di procurare intenzionalmente la morte, nell’eutanasia è cercata) ed i FARMACI (nella sedazione si usano farmaci non letali e a dosi non letali, a differenza dell’eutanasia)»
Vengono spesso confuse anche con la terapia del dolore ma cure palliative e terapia del dolore non sono la stessa cosa. «La terapia del dolore è l’insieme delle terapie (farmaci e tecniche invasive) finalizzate a ridurre o eliminare il dolore, quale ne sia l’origine. Il dolore è nell’immaginario collettivo il sintomo peggiore associato alle malattie gravi,anche per le ripercussioni globali che dà. In effetti è un sintomo molto frequente, ma abbiamo ora tanti farmaci che lo possono controllare. Esistono però anche altri sintomi che si pensano di meno ma che hanno profonde ripercussioni sul malato (si pensi solo ad un singhiozzo o ad un prurito che durano tutto il giorno). Le cure palliative si occupano di dolore ma anche di ogni altro sintomo, nella misura in cui è disturbante per il paziente. Utilizziamo tanti farmaci, come la morfina e gli oppiacei (farmaci derivati dalla morfina, sintetizzati in laboratorio), facendo anche li un profondo lavoro di informazione, per sfatare credenze leggendarie sulle caratteristiche e sui rischi che si attribuiscono alla morfina e ai suoi derivati. Inoltre come già sottolineato in altri punti, le cure palliative hanno un occhio a tutte le dimensioni della biografia della persona(fisica, psicologica, sociale, spirituale) e l’”unità di cura” non è solo il paziente ma anche il nucleo familiare».
Un ruolo fondamentale, è rivestito da quello che è l’ascolto. Il “prendersi cura” del paziente, ascoltare ciò che desidera, ciò che chiede, ciò che vuole raccontare.«L’ascolto non è importante: è fondamentale. Anche studi scientifici hanno dimostrato come il medico dia pochissimo spazio alla voce dei pazienti, li interrompe dopo pochi minuti dall’inizio della conversazione. Ma se vogliamo perseguire un modello incentrato sulla persona non possiamo prescindere da ciò che la persona vuole dirci. E l’ascolto deve essere “attivo”, empatico. Non dobbiamo metterci al posto di chi abbiamo di fronte, ma dobbiamo essere accoglienti nei bisogni. Il vissuto, la biografia del mio interlocutore mi fornisce informazioni importantissime per instaurare una relazione efficace e per curare al meglio. Ci vuole sicuramente tanto rispetto, vedere l’altro come diverso da me, accettare, senza alcun giudizio o sovrastruttura,quello che vuole dirmi, anche ciò che non riesce a dire, ascoltare anche i silenzi. Bisogna essere pronti anche alle domande o alle esternazioni difficili (“morirò, cosa mi succederà, ho paura”). È doveroso accogliere le emozioni dell’altro,legittimarle, ciò riconoscerle, che non significa risolverle. E non sempre si hanno le risposte, ma non sempre si vogliono le risposte. Delle volte un’immersione reciproca negli occhi, una stretta di mano, un abbraccio sincero o anche un silenzio empatico danno risposte migliori che tante parole. Anche questo è il “to care”degli Inglesi, il “prendersi cura”, che è l’approccio medico totalitario delle cure palliative. Lo si deve fare col paziente e con tutto l’éntourage di riferimento per il paziente. Dei familiari bisognerebbe aver cura anche nella fase del lutto. Ricordiamoci che quando si ammala una persona in qualche maniera si ammalano anche tutti coloro che amano quella persona e che l’accudiscono».
I medici che decidono di fare questo lavoro devono spogliarsi di tutto, rendersi completamente disponibili. Ma in che modo ci si riesce? «L’approccio è quello di considerare chi ho difronte come “un altro da me”, senza proiezioni di quello che “sarebbe il meglio, secondo me”. Ricordarsi che dietro ognuno di noi c’è una storia,un bagaglio culturale, un apparato di valori che non necessariamente coinciderà col mio. Un’assistenza personalizzata, una cura “cucita addosso” ad una persona non può prescindere dalla conoscenza di ciò che quella persona desidererebbe per sé. La relazione di cura diventa un ballo di coppia: bisogna seguire i passi per non pestarsi i piedi, arretrare o avanzare a seconda dei movimenti del partner».
Purtroppo, lamenta la dottoressa, è troppo poca l’informazione. Questo è dannoso perché, non conoscendo queste cure, non si possono chiedere. Il paziente, i suoi familiari,i suoi amici… Non sapendo che c’è un modo per alleviare le sofferenze, ci si priva di un’opportunità. «“Se tieni a qualcosa bisogna prendersene cura, ma per prendersene cura bisogna conoscere i bisogni”…La non informazione o peggio la disinformazione fa si che non si chieda l’intervento delle cure palliative,perché non si sa che esistono o perché se ne ha un’idea distorta. Questo purtroppo qui in Sardegna l’ho constato ancora abbastanza. Uno dei miei impegni, nel piccolo delle mie possibilità, è parlare del reale significato delle cure palliative e di ciò che offrono. Cerco di farlo sui social, negli incontri con operatori sanitari, in conferenze rivolte alla gente e nelle scuole. Dico sempre che un adulto sarà consapevole se è stato un giovane consapevole. Tra le mie attività c’è l’informazione nelle scuole superiori, dove vado a parlare di temi complessi, difficili, ma necessari, quali malattia, morte, dignità della persona e umanizzazione delle cure. Con un Liceo di Cagliari ho attuato in progetto che ha previsto degli incontri in aula e poi la visita all’Hospice “Madonna di Fatima” a Quartu Sant’Elena, con elaborazione finale della classe coinvolta di una locandina di presentazione dell’Hospice, che racchiudeva il senso delle cure palliative. A Tortolì sono stata invitata da un Professore illuminato (che vede l’insegnamento oltre il programma definito dai piani formativi) per parlare di dignità della persona, di medicina umanizzata e di cure palliative. E cose analoghe in altre scuole. La risposta avuta finora dai ragazzi adolescenti è stata meravigliosa, a dimostrare che i giovani hanno molte meno sovrastrutture di noi adulti e che non sono sempre questa“generazione liquida”, senza valori, come spesso viene dipinta».
Alla domanda se ci siano o meno divergenze tra Sardegna e resto dell’Italia, dice: «La situazione sarda rispecchia abbastanza il quadro del resto della Penisola.Ad oggi la distribuzione dei Servizi di cure palliative è ancora a macchia di leopardo. Non esiste “la rete”, cioè il reale collegamento tra i vari nodi delle possibilità assistenziali (Hospice, ambulatori, assistenza a domicilio) e c’è molto da lavorare anche sul versante di condivisione tra operatori in cure palliative. Ciò un po’risente del ritardo col quale le cure palliative sono approdate da noi. Posso però affermare che siamo in tanti a credere in questa forma di assistenza e in questa medicina. Ci stiamo dando da fare per traslare al meglio anche sulla nostra isola la teoria alla pratica. Le cure palliative sono “un movimento”anche culturale, è chiaro quindi che sono in continuo divenire e che come tutti i cambiamenti richiedano tempo».
C’è chi pensa che il suo sia un lavoro che rende tristi, ma nella voce della dottoressa Vacca si sente una gran forza, un estremo bisogno di aiutare gli altri e un grande entusiasmo.«Considerazioni frequenti che mi vengono rivolte sono: “Ma come fai? Ma ti abitui alla sofferenza? Ma ti porti tutto a casa?” Di fatto è importante sapere che la forte motivazione che mi ha spinto ad un certo punto del mio percorso professionale ad occuparmi delle persone gravemente ammalate ed in fase terminale, è già un buon inizio per “fare meno fatica”.Poi però ci vuole lo studio, una formazione specifica continua (e questo vale in ogni ambito), che permette di offrire sempre il meglio agli altri e di acquisire “strumenti”. Tutto ciò non basterebbe se non avessi fatto e facessi continuamente un grosso lavoro su me stessa. È impossibile relazionarsi agli altri, parlare di malattia e morte, ascoltare la sofferenza che questi argomenti comportano a livello fisico ed esistenziale se prima non“ne hai parlato con te stesso”. Chi mi conosce vede ciò che ha visto lei: entusiasmo. Ciò che mi rende triste del mio lavoro non è la frustrazione di non riuscire a salvare neanche una vita (mi prendo cura e curo, ma non guarisco), questo lo so dall’inizio… Mi intristiscono i limiti strutturali e le difficoltà organizzative che qualche volta mettono i bastoni tra le ruote alle assistenze. Ogni ammalato ed ogni famiglia che accompagno mi concedono il privilegio di entrare nelle loro vite e nelle loro case, mi raccontano di loro, di chi erano e di chi sono, mettono a nudo molto di se stessi. Davanti a questo bisogna solo umilmente ringraziare della ricchezza che se ne trae. Il dolore (inteso come sofferenza globale) non può lasciarmi indifferente, come devo riconoscere che alcune situazioni possano colpire un po’ più di altre (questo deriva dal mio essere umana), ma devo, per proseguire al meglio a fare il mio lavoro,essere in grado di gestire il mio coinvolgimento, di modo che non sia“stravolgimento”. E assicuro che si può anche sorridere e ridere anche in situazioni tristi; non è scherno ma alleggerimento, senza sdrammatizzare. Questo non penso possa definirsi anestesia emozionale ma “giusta vicinanza”alle situazioni, cosi come i porcospini raccontati da Schopenhauer: “Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche;il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.”(Arthur Schopenhauer, capitolo XXI)».
Splendida!