LUCI E OMBRE NELLA SINTESI DEL RAPPORTO CRENOS 2017 SULL’ECONOMIA IN SARDEGNA


Secondo i dati più recenti il quadro macroeconomico regionale è ancora caratterizzato da elementi di debolezza strutturale. Nel 2015 la Sardegna è tra le 65 regioni più povere dell’Unione Europea (212esima su 276 regioni): in un quinquennio il suo PIL passa dal 77 al 70% della media europea, rientrando di fatto nel gruppo delle regioni meno sviluppate. L’andamento negativo è comune al contesto nazionale, poiché anche il PIL italiano perde 8 punti percentuali passando dal 104% della media UE28 nel 2011 al 96% nel 2015. La Sardegna nel 2015 è l’unica regione del Mezzogiorno ancora in fase recessiva: il PIL pro capite registra una riduzione dello 0,5% rispetto al 2014 e scende a 18.539 euro per abitante. L’Isola si confronta con il suo peggior risultato nell’ultimo ventennio: per trovare un valore così basso bisogna risalire al prima del 1997. Il Mezzogiorno mostra invece nel 2015 i primi segnali di ripresa (+1,3%), comunque insufficienti a colmare il divario di reddito rispetto al Centro-Nord, che si è acuito negli ultimi anni. Nonostante il peggioramento delle condizioni economiche, in Sardegna si osserva un aumento della spesa per consumi delle famiglie (+1,8% i consumi pro capite nel 2015), sia per i servizi che per i beni durevoli, segnale questo di un miglioramento delle aspettative sul futuro da parte di consumatori e famiglie. Dopo 6 anni consecutivi di contrazione e un decennio in cui il valore si è dimezzato, nel 2014 anche gli investimenti mostrano una ripresa (+3,3% il valore pro capite). I dati mostrano che buona parte di tale ripresa è dovuta al settore pubblico (+21% rispetto al 2013), che non sta finanziando nuove opere infrastrutturali ma opera un intervento straordinario nei settori della viabilità e della sicurezza pubblica in seguito all’alluvione nei territori nord-orientali di novembre 2013. L’unico settore imprenditoriale che registra un evidente espansione in un decennio è quello energetico, trainato dall’interesse verso le fonti rinnovabili (eolico e solare): nel 2013 gli investimenti sfiorano i 660 milioni di euro (400 euro per abitante in Sardegna contro una media nazionale inferiore ai 150 euro per abitante).

La struttura produttiva: segnali di debole ripresa, esportazioni in calo

Un segnale positivo per la Sardegna è relativo alla numerosità delle attività produttive: le imprese attive nel 2016 sono 142.986, circa 400 in più rispetto all’anno precedente. Il tessuto imprenditoriale è però estremamente frammentato e la quota di occupati che presta la sua opera in microimprese è elevata (63%) e molto maggiore di quella italiana (46%), già di per sé rilevante. Dal punto di vista settoriale la regione conferma la sua vocazione agro-pastorale, sia nel numero delle imprese (circa 34 mila, pari al 34% del totale) che nella loro capacità di creare valore aggiunto (5% in Sardegna contro 2% in Italia). Permane il sottodimensionamento del comparto industriale (22% delle imprese e 13% del valore aggiunto in Sardegna, contro 25% di imprese e 24% del valore aggiunto in Italia). In Sardegna i settori legati alle attività svolte prevalentemente in ambito pubblico e ai servizi non destinabili alla vendita sono responsabili di circa un terzo del valore aggiunto complessivo, mentre le imprese che producono beni e servizi destinati al mercato hanno un peso relativamente esiguo, denotando una scarsa capacità da parte del sistema produttivo isolano di creare valore. Nel 2016 si è ridotto l’interscambio con l’estero sia dal lato delle importazioni che delle esportazioni. Le esportazioni del settore petrolifero diminuiscono di 487 milioni di euro (-12,5%) in seguito al crollo del prezzo del greggio, mentre il resto dell’economia mostra in generale una scarsa propensione all’internazionalizzazione. I due unici settori le cui esportazioni superano i 100 milioni di euro, la chimica di base e l’industria lattierocasearia, subiscono anch’essi una contrazione del 10%.

Il mercato del lavoro: occupati e contratti di lavoro in calo nel 2016

In Sardegna il tasso di attività (riferito agli individui di età 15-64 anni) nel 2016 è pari al 61%, circa 4 punti in meno di quello italiano (64,9%). Rispetto al 2015 si registra una lieve crescita (+0,2%), non dovuta all’aumento delle forze di lavoro (che passano da 670 a 666,6 mila) ma alla riduzione più che proporzionale della popolazione di riferimento. Il tasso di occupazione (15-64 anni) nel 2016 è pari al 50,3%, in aumento dello 0,3% rispetto all’anno precedente: Mezzogiorno e Centro-Nord hanno incrementi più elevati (rispettivamente +2,1% e +1,5%) e il divario con il dato italiano (57,2%) aumenta. Dopo la diminuzione molto contenuta (-0,6%) osservata nell’ultimo anno, il tasso di disoccupazione (15 anni e più) si attesta al 17,3%. In questo caso, però, la performance della Sardegna è migliore rispetto a quella del Mezzogiorno, che vede un aumento del tasso di disoccupazione al 19,6% (+1,1% sul 2015). L’analisi di genere restituisce andamenti discordanti. Il tasso di attività e il tasso di occupazione della componente femminile del mercato del lavoro peggiorano nel 2016 rispetto al 2015 (-0,5 e -0,2 punti percentuali, rispettivamente), mente il tasso di disoccupazione ha una variazione annuale negativa per le donne (-0,4 punti percentuali) e positiva per gli uomini (+0,1 punti percentuali). Si tratta in tutti i casi di variazioni prossime allo zero, che confermano il forte gap di genere esistente nel mercato del lavoro sardo soprattutto per ciò che riguarda la partecipazione: nel 2016 il tasso di attività maschile è pari al 70,3%, mentre quello femminile è pari al 51,6%, quasi 20 punti percentuali di distanza. Si tratta della stessa distanza che separa il dato maschile da quello femminile nazionale (rispettivamente, 74,8% e 55,2%). Si consideri anche che questa distanza si riduce all’aumentare del livello di istruzione: il gap di genere nel tasso di attività dei lavoratori sardi laureati è di 7 punti percentuali. Nel 2016 gli occupati in età dai 15 anni in su diminuiscono a 562.097 unità (-0,5% rispetto al 2015) e nell’analisi settoriale si evidenzia una flessione del 3% che accomuna industria, costruzioni, e i servizi relativi a commercio, alberghi e ristoranti. Si riscontra una contrazione (7,5%) anche nel settore agricolo, che fino al 2015 aveva mostrato la migliore performance. L’unica espansione in Sardegna è relativa al complesso dei restanti servizi (+2,2% rispetto al 2015). I dati del Ministero del Lavoro sulle Comunicazioni Obbligatorie restituiscono risultati di dimensione e segno più netto: nel 2016 in Sardegna il numero di rapporti di lavoro attivati diminuisce del 12,5% rispetto all’anno precedente, mentre le cessazioni calano del 10,8%. Si tratta della variazione più forte dal 2010. Anche il dato nazionale mostra una flessione delle attivazioni per lo stesso periodo, sebbene di minore entità. Questi dati sono coerenti con le analisi pubblicate dall’Ufficio di Statistica del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che rilevano nel 2016 una marcata flessione del numero di contratti a tempo indeterminato, imputabile alla fine del periodo di decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato previsto dalla legge di stabilità del dicembre 2014.

I servizi pubblici: spesa sanitaria in crescita, Sardegna virtuosa nel settore dei rifiuti solidi urbani

Alla luce delle politiche di contenimento della spesa decise dal governo centrale, l’analisi della sanità mostra segnali critici per la Sardegna. La spesa sanitaria regionale nel 2015 è pari a 3,24 miliardi di euro: 1.948 euro per abitante, dato superiore al Centro-Nord (1.880 euro) e Mezzogiorno (1.736 euro) e quindi alla media italiana (1.831 euro). Mentre negli ultimi cinque anni la spesa per abitante si riduce dello 0,4% in tutto il paese, in Sardegna si registra un incremento medio annuo dello 0,1%. Il Servizio Sanitario Regionale destina il 10,1% del PIL sardo al settore sanitario, contro il 6,8% in Italia. La componente di spesa che assorbe il maggior quantitativo di risorse (1,2 miliardi di euro) è quella per il personale, pari al 37% del totale contro il 31% in Italia. Per quanto riguarda i servizi pubblici locali di rilevanza economica, si conferma il quadro d’insieme positivo delineato negli ultimi anni per il settore dei rifiuti solidi urbani. La Sardegna nel 2015 raggiunge il 56% di raccolta differenziata (244 chili per abitante, +6,4% in un anno), contro il 47% della media nazionale (231 chili, +5,1%). La produzione di rifiuti per abitante prosegue in Sardegna il suo trend decrescente (433 chili per abitante, -0,6% in un anno), con una performance migliore di quella nazionale (485 chili, -0,3%). Esiste tuttavia una chiara dicotomia fra efficacia in termini di prestazioni ambientali, con la Sardegna che si pone come tra le realtà virtuose a livello nazionale, ed efficienza in termini di costi. In Sardegna la spesa per la gestione dei rifiuti, circa 176 euro per abitante, è superiore ai 151 euro del Centro-Nord, nonostante vi sia una minore produzione di rifiuti per abitante e una percentuale simile di raccolta differenziata. I fattori di crescita e sviluppo: scarsa dotazione di capitale umano e pochi investimenti in Ricerca e Sviluppo Gli indicatori relativi al processo di accumulazione di capitale umano e allo sviluppo e utilizzo della tecnologia sono parte integrante degli 11 pilastri di cui si compone l’Indice di Competitività Regionale pubblicato dalla Commissione Europea per misurare il grado di competitività di un territorio, ossia la capacità di offrire un contesto ambientale attrattivo. Per quanto riguarda l’istruzione e la formazione, i dati più recenti confermano la scarsa dotazione di capitale umano qualificato in Sardegna: nel 2015 appena il 18,6% dei sardi in età 30-34 anni ha conseguito un titolo di studio universitario o equivalente. Il dato è tra i più bassi in Italia (solo Sicilia e Campania fanno peggio) e molto distante dalla media europea (38,7%) e ancor più dall’obiettivo della Strategia 2020 fissato al 40%. Anche la quota di laureati nelle discipline tecnico-scientifiche (17,8%), un buon indicatore della disponibilità di individui altamente qualificati e potenzialmente disponibili a lavorare nel campo della ricerca e sviluppo, resta molto distante dalla media europea (32%). Il dato sull’abbandono scolastico mette in evidenza una forte criticità: nel 2015 il 23% dei sardi tra i 18 e i 24 anni ha interrotto il proprio percorso scolastico e formativo avendo conseguito al massimo la licenza media. Il divario rispetto alla media nazionale (15%) è molto ampio: la Sardegna è al penultimo posto tra le regioni italiane (davanti alla Sicilia) e al 240esimo posto su 254 regioni europee (per le quali il dato è disponibile). Tuttavia fa ben sperare il calo di 2 punti percentuali registrato nell’ultimo quinquennio. Il dato più preoccupante è sicuramente quello sui giovani scoraggiati, ossia coloro che non lavorano e non sono impegnati né in attività di istruzione né in attività di formazione. Questo indicatore relativo al capitale umano peggiora nell’ultimo quinquennio: in Sardegna i NEET (Not in Education, Employment or Training) in età 15-24 anni sono aumentati di 3 punti percentuali dal 2011 raggiungendo il 27% nel 2015. Un ulteriore pesante ritardo della Sardegna si registra sul fronte degli investimenti in ricerca e sviluppo, per i quali la Strategia Europa 2020 ha posto un obiettivo pari al 3% del PIL. In Sardegna nel 2014 essi sono pari ad appena lo 0,82% del PIL, contro l’1,38% della media nazionale e il 2,4% di quella europea. Il peso degli investimenti privati in R&S in Sardegna appare ancora eccessivamente basso (5,9%) rispetto sia alla media nazionale (58,3%) sia a quella europea (64,6%). Resta debole anche la quota di occupati nei settori high-tech, che nel 2015 in Sardegna si attesta all’1,6% (superiore solo a Puglia e Calabria), valore inferiore alla media europea (4%) e italiana (3,4%). È da evidenziare, invece, il significativo incremento della partecipazione delle imprese sarde al mercato elettronico. Nel 2016, infatti, il 17% delle imprese sarde con almeno 10 addetti ha effettuato vendite on-line, valore superiore alla media nazionale (11%) e vicino a quella europea (20%).

Il turismo: domanda in crescita per il quarto anno consecutivo, aumentano soprattutto i turisti stranieri

In linea con quanto accade a livello nazionale e internazionale, anche in Sardegna il numero di turisti è in crescita. Secondo i dati provvisori forniti dal Servizio della Statistica Regionale, la domanda turistica nel 2016 continua a crescere per il quarto anno consecutivo (+10% per arrivi e presenze). Continua la crescita delle presenze straniere: +11,7%, contro il +8,5% di quelle italiane. I dati definitivi Istat indicano per il 2015 circa 2 milioni e 610 mila arrivi e 12 milioni e 393 mila presenze (+9,1% per entrambi gli indicatori). Per le presenze la componente estera (+9,8%) cresce più di quella nazionale (+8,4%) e di ogni altro suo competitor (Sicilia, Puglia, Calabria e Corsica). Nel 2015 la quota dei turisti stranieri è pari al 47% (31% nel 2006) e si avvicina alla media nazionale (49%). Germania, Francia, Svizzera e Regno Unito si riconfermano i principali paesi di provenienza dei turisti stranieri. Da segnalare la crescita sostenuta dei turisti provenienti dai Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia, mentre, dopo anni di crescita continua, diminuiscono i turisti russi. La stagionalità dei flussi turistici rappresenta ancora una criticità per la Sardegna. Circa il 53% delle presenze turistiche si concentra nei mesi di luglio e agosto, questa percentuale raggiunge l’84% se si considera l’intera estate (da giugno a settembre). Una buona notizia per la destagionalizzazione riguarda i flussi internazionali: nei mesi cosiddetti “di spalla” (maggio, giugno, settembre, ottobre) superano quelli nazionali. Dal lato dell’offerta, nel 2015 aumentano le strutture ricettive e i posti letto (in entrambi i casi +2,6%). Il 2015 è un anno positivo soprattutto per le strutture alberghiere la cui capacità ricettiva aumenta più che nei competitor (+3,3%). Nota dolente è il tasso di occupazione delle strutture: 22% per le strutture alberghiere e 9,1% per quelle extralberghiere (dati inferiori alla media italiana ma in linea con quelli delle regioni competitor italiane: Sicilia, Puglia e Calabria). La ragione di questo basso utilizzo delle strutture rispetto al potenziale è attribuita alla forte stagionalità dei flussi che, come noto, è una delle caratteristiche delle destinazioni orientate al turismo marino-balneare. Basti pensare che le strutture vengono utilizzate per il 54% nel mese di agosto e solamente per l’1% nei mesi di gennaio e di dicembre.

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