In questa seconda parte del resoconto del Convegno su “Due padri della patria: Emilio Lussu, Silvio Trentin” tenutosi a San Donà di Piave (Venezia) sabato 16 aprile 2016 (la prima parte è stata pubblicata in questo Sito, si veda il link:
http://tottusinpari.blog.tiscali.it/2016/04/24/prima-parte-del-resoconto-del-convegno-su-%e2%80%9cdue-padri-della-patria-emilio-lussu-silvio-trentin%e2%80%9d-tenutosi-a-san-dona%e2%80%99-di-piave-venezia/#more-44027 ) riferirò i concetti essenziali esposti in ciascuna delle relazioni illustrate al Convegno.
Il coordinatore dei lavori Marzio Favero, presidente del Comitato scientifico della Regione Veneto per il Centenario della Grande Guerra, ha introdotto la discussione mettendo in evidenza il fatto che sia Emilio Lussu che Silvio Trentin partono nella loro concezione del federalismo da una solida tradizione risorgimentale (Gioberti, Garibaldi). Entrambi interventisti, vivono l’«amarissimo risveglio» determinato dalla constatazione di ciò che significa la tragedia della guerra. Lo scrittore americano John Dos Passos (1896–1970), che fu sul fronte italiano nei ranghi della Croce Rossa, davanti alla quotidiana carneficina che aveva davanti agli occhi commentò: «Non c’è niente di bello in una guerra moderna».
Mario Isnenghi (dell’Università degli Studi di Venezia Ca’ Foscari) per svolgere una relazione dal titolo “Diversamente combattenti”, ha preso le mosse dalla ben nota formula «Grande Guerra come “inutile strage”» (papa Benedetto XV, 1° agosto 1917). Su questo punto Isnenghi ha ribadito quanto espresso in una sua recente intervista: «Oggi papa Benedetto XV gode di una notorietà postuma straordinaria: quasi che la sua definizione della guerra come “inutile strage” riassumesse in sé tutti i significati e le sfaccettature di quel conflitto enorme e complesso, svelando ciò che molti fraintendevano o disconoscevano volutamente. Naturalmente le cose sono più complesse. Ma dato che qui in realtà non stiamo parlando di storiografia, bensì di echi e rimbalzi nella memoria e soprattutto di politica della memoria, quel che è vero conta fino a un certo punto. Conta piuttosto l’uso pubblico che se ne può fare. Mi trovo spesso a discutere, anche esplicitamente con gli storici francesi, o francesizzanti, che della Grande Guerra tendono a vedere solo l’assurdo, il nonsenso, la “inutile strage”. Stiamo attenti però: c’è l’assurdità della carneficina, della “guerra totale”; ma c’era anche chi in quella guerra vedeva moventi e scopi, cioè un senso» (pensare una nuova Italia).
Lussu e Trentin, perché «diversameente combattenti»? Essi, dopo essere stati interventisti (Trentin si fece raccomandare per poter andare a combattere), dopo aver partecipato alla Grande Guerra esaltando la «democrazia combattente, la trincerocrazia», da rivoluzionari avversari dell’ «Italietta piccolo borghese», smessa la divisa militare, dovettero sperimentare nuove dimensioni del guerreggiare. Il 7 giugno del 1924, tre giorni prima della scomparsa di Giacomo Matteotti, Lussu denuncia inequivocabilmente alla Camera dei deputati i mali del fascismo: «Parlo anche a nome di una moltitudine di combattenti, che possono avere il diritto di combattervi sullo stesso vostro terreno: patria, guerra e Vittorio Veneto. […] È necessario che il Paese sappia quello che veramente voi siete. Di fronte alla vostra decisione sta la nostra decisione: o congiura o aperta lotta politica». Lussu e soli tre accademici (Trentin-Venezia; Gaetano Salvemini-Firenze; Francesco Fausto Nitti-Roma), per ribellarsi all’oppressione fascista, andarono in esilio in Francia (ma i fascisti usavano denigrarli chiamandoli “fuoriusciti”). Trentin, nel paese di D’Artagnan, in Guascogna – ha detto Isnenghi –, con la famiglia, si dispose a resistere anche senza armi: la lotta è lotta, bisogna morire in piedi. Nelle discussioni in Francia e poi nell’azione resistenziale di “Giustizia e Libertà”, continuando a proclamarsi, “rivoluzionari”, con il problema di combinare il vecchio socialismo con il nuovo socialismo, Lussu e Trentin cercarono di recuperare l’interventismo nella lotta partigiana.
Gian Giacomo Ortu (dell’Università degli Studi di Cagliari) si è occupato del “discorso di Lussu sull’Autonomia”. Per Lussu «l’idea e il moto autonomistico non sono scaturiti dalla testa di un intellettuale [Umberto Cao], ma dalla “rivoluzione” maturata nella coscienza e nella volontà della “gioventù sarda” al fronte, una gioventù venuta per la gran parte dalla campagna. È questo il principio del mito della Brigata “Sassari” come mito di fondazione di una forma del tutto nuova ed esplosiva di lotta politica, per la mobilitazione consapevole delle masse rurali». In questo modo però Lussu trascura il sacrifico di tutti gli altri soldati sardi caduti in tutte le formazioni militari e su tutti i fronti («per l’esattezza, 13.602, quasi sette volte i morti della Brigata». L’altro mito di Lussu, quello della Sardegna come « nazione fallita», svuota l’isola di una storia tradizionale ed inoltre pone un’opposizione troppo drastica fra città e campagna: sia nella Brigata “Sassari” sia nel movimento sardista agì l’elemento cittadino, non solo quello rurale.
Nel Partito Sardo d’Azione degli anni Venti non si parla di federalismo: il dibattito su questa teoria dello Stato si apre negli anni Trenta in “Giustizia e Libertà”. Trentin, che nell’esilio di Tolosa si era fatto operaio di una tipografia, vedeva il federalismo come progetto di smantellamento e ricostruzione su base collettivistica dello Stato e quindi come antidoto, in senso sociale, all’autoritarismo inesorabile dello Stato. Lussu invece riteneva di poter «riscattare e riqualificare su base veramente democratica, e cioè autonomistica, i profili formali e giuridici dello Stato costituzionale».
Ortu ha ricordato che lo Statuto speciale della Sardegna fu votato all’ultimo momento utile, il 31 gennaio 1948, e approvato obtorto collo da Lussu. La novità del Piano di rinascita economica e sociale dell’isola suscitò anche un dibattito sulla storia e sull’identità, a Lussu però non interessò il recupero operato da Renzo Laconi della storia dell’intellettualità sarda. Nell’ultimo periodo della sua vita Lussu elevò il suo paese natale di Armungia a «esponente archetipico dell’intero mondo rurale sardo», una comunità virtuosa capace di ricostruire su basi nuove l’autonomia.
Fulvio Cortese (dell’Università degli Studi di Trento), del quale è stato distribuito ai partecipanti al convegno un opuscolo dal titolo “Silvio Trentin. Maestro di diritto, apostolo della democrazia (1885-1944), ha trattato il tema “Silvio Trentin e il federalismo tra crisi del diritto e crisi dello Stato”. Contro le concezioni formaliste del diritto, per il giurista Trentin il diritto va riallacciato alla società (Santi Romano, al contrario, identificava diritto e società). I governanti si sono allontanati dai governati e questi ultimi sono diventati perciò passivi. Lo Stato non può trattare tutti allo stesso modo. Bisogna che la società civile vivifichi lo Stato, in questo senso vale per Trentin l’esperienza della proletarizzazione (sua scelta di fare l’operaio durante l’esilio in Francia). Quello di Trentin si può definire un federalismo antropologico: la città viene dopo l’individuo: di qui la sua critica dell’Unione Sovietica in cui lo Stato è divenuto padrone.
Giuseppe Caboni (dell’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia), autore con Gian Giacomo Ortu, del volume “Emilio Lussu, l’utopia possibile” (Cuec 2001), nella sua relazione “Uso delle risorse e socialismo in Lussu”, ha ricordato che l’Istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino, nella ricerca per il progetto “Voci, storie e canti della Grande Guerra”, ha ritrovato la registrazione inedita di una intervista di Gianni Bosio nel 1968 a Emilio Lussu in cui l’eroe di guerra mette in evidenza la realtà della durissima vita in trincea dei soldati della Brigata “Sassari” ma anche la maturazione di una loro coscienza sociale: i pastori e contadini sardi, provenienti dai diversi villaggi dell’isola, si uniscono, si riconoscono come popolo. Essi risultarono eroici combattenti, ma anche oppositori dell’autoritarismo.
Lussu invitava tutti i sardi sopravvissuti alla carneficina della Grande Guerra che tornavano nell’isola natìa a gestire la terra in maniera diversa rispetto al passato facendo ricorso a tutte le risorse, a partire da quelle idriche. L’invito di Lussu, rivolto a tutti i produttori autonomi, dei quali auspicava una grande alleanza, era molto moderno anche per la sua attenzione ai beni ambientali. Lussu nel breve saggio sul libro di Trentin “Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione” (Marsiglia, Ed. “Italia Libera”, 1933) mette in evidenza che la piccola borghesia non è una classe arretrata, dato che non sfrutta i lavoratori: vive del proprio lavoro («Una rivoluzione socialista non si fa col solo proletariato della fabbrica e della terra»). Per il dopo-fascismo Lussu insiste sul fatto che la Sardegna deve sfruttare tutte le proprie risorse: acque, miniere, saline.
Cesare De Michelis (dell’Università degli Studi di Padova) ha relazionato sull’ “interventismo democratico di Silvio Trentin”. Ha ricordato la partecipazione volontaria di Trentin alla Grande Guerra, lui che pure era un “gentiluomo di campagna”, appassionato delle bonifiche e della lotta contro le malattie endemiche. Secondo de Michelis, per Trentin la guerra deve diventare elemento di discontinuità nello scontro fra arretratezza e modernità: per questo egli sceglie i mezzi di guerra più moderni, gli aerei, l’aviazione. Il prezzo della guerra è terribile ma porta alla modernizzazione. La figlia Franca ha raccontato che, dopo Caporetto, Trentin non esitò a bombardare dall’aereo il nemico austriaco anche a costo di colpire la sua casa. Nell’esilio in Francia e poi nella Resistenza Trentin da combattente liberale si trasforma in rivoluzionario socialista.
Per Aldo Maria Morace (Università degli Studi di Sassari), che ha riferito su “Lussu nella diaristica della Grande Guerra”, “Un anno sull’Altipiano” è un capolavoro totale a livello europeo: si pensi che in Italia sono stati censiti 1300 tra diari e memorie sulla “Grande Guerra”. Lussu non nomina mai la Brigata “Sassari” ma è ovviamente ad essa che si riferiscono le vicende narrate, con una caratteristica che Morace ha definito «distorsione del vissuto». Il tenente Mastini [nella realtà Mastino] era già morto in combattimento, quando, nel capitolo XI del libro, Lussu racconta che lui e questo suo compagno di università, con il quale aveva combattuto anche nel Carso, parlarono di cognac, del maggiore, dell’Odissea di Omero, rievocarono ricordi universitari, ma poi – scrive Lussu –: «Io ho dimenticato molte cose della guerra, ma non dimenticherò mai quel momento. Guardavo il mio amico, sorridere, fra una boccata di fumo e l’altra. Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Egli piegò la testa, la sigaretta fra le labbra e, da una macchia rossa, formatasi sulla fronte, sgorgò un filo di sangue. Lentamente, egli si piegò su se stesso, e cadde sui miei piedi. Io lo raccolsi morto».
Morace si è soffermato sulla dialettica fra l’io narrativo e l’io personaggio; sull’importanza dei dialoghi: nel capitolo XXV Lussu difende – contro un collega “sovversivo” – le ragioni dell’intervento militare, anche se ne conseguono terribili orrori: «Perché se così non fosse, un pugno di briganti ci avrebbe perennemente in suo arbitrio, impunemente, solo perché noi abbiamo paura della strage. Che ne sarebbe della civiltà del mondo, se l’ingiusta violenza si potesse sempre imporre senza resistenza?». Morace ha quindi distinto tra autobiografia che racconta la verità mentre la memoria è legata alle emozioni e quindi connota autenticità.
Aldo Accardo (dell’Università degli Studi di Cagliari), riallacciandosi al discorso di Mario Isnenghi sulla Grande Guerra (che non può essere liquidata con la semplicistica formula «inutile strage»), ha citato “Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio: «Ricòrdati che senza i morti, i loro e i nostri, nulla avrebbe senso». Senza l’«inutile strage» non sarebbe stato possibile fare la pace. Per Accardo bisogna, perciò, fare seriamente storia nelle scuole e non accontentarsi delle interpretazioni ossificate. L’interventismo della prima guerra mondiale fu alimentato nei giovani dal virus dell’antipolitica: occorre quindi che la scuola oggi sia luogo non solo di apprendimento delle nozioni fondamentali del sapere ma anche di educazione civica, etica, storica e culturale.
In ogni caso, il dibattito sugli importanti e interessanti temi affrontati nel corso del convegno – ha detto Accardo concludendo i lavori – continuerà in autunno in una sede sarda. Si potranno così rinsaldare i vincoli fra le due regioni, Veneto e Sardegna, unite, “gemellate”, dai ricordi comuni legati alla Grande Guerra.