Sono sette anni. Sette lunghissimi anni di crisi. Ma forse non si tratta più di questo. Forse è la fine di un’epoca. Dovremmo rimboccarci le maniche e ideare un nuovo modello economico, una nuova via, smettere di guardare indietro e voltare gli occhi verso la luce anche se non siamo abituati più a immaginare e fa male. Dovremmo prendere esempio dalle 37 lavoratrici Igea, che dal 28 novembre occupavano la miniera di Villamarina nel Sulcis, in Sardegna. Dalle luci artificiali della galleria, ai lampioni del piazzale di Monteponi. Sono emerse una alla volta durante la notte, quasi timide, in silenzio, senza clamore. Ogni volta che si è parlato di una mobilitazione di lavoratori, durante questi lunghissimi e bui 7 anni, a parte alcuni casi come quello delle operaie Omsa, si è sempre declinato al maschile ogni lotta, ogni sforzo, ogni coraggio. E invece dietro quegli uomini c’era lo sforzo di tante donne straordinarie che hanno cresciuto i loro figli da sole, mentre i mariti erano sopra un traliccio, in un’isola abbandonata, in una fabbrica chiusa, in una miniera. Ma questa volta è capitato l’esatto contrario. Le donne hanno deciso di scendere loro sotto terra, nel ventre della roccia. Lo hanno fatto senza personalismi. Hanno atteso che qualcuno si accorgesse di loro. Della loro vertenza, unica protagonista in queste due settimane. Hanno dovuto tollerare l’ennesima sfilata di politici “in gita alla miniera” strapparsi le vesti per una situazione che hanno creato loro, con l’incapacità e la leggerezza di chi non sa cosa significa non arrivare a fine del mese. Sono scese al livello di questi omuncoli, ipocriti e inutili. Hanno sfoderato il dono più grande di noi donne: la pazienza. Hanno raggiunto le proprie case e riabbracciato i familiari. Ma questo non significa che abbasseranno la guardia. Come potrebbero fidarsi di chi ha devastato il loro territorio e condannato la popolazione a un’emigrazione forzata o alla fame? Questa mattina sono tornate in assemblea alla sala mensa di Campo Pisano, l’altro presidio occupato da undici operai, per fare il punto della situazione. Sono uscite senza telecamere né riflettori ieri notte: una scelta non casuale: le dipendenti hanno sempre voluto che i riflettori fossero puntati non su di loro, ma sulla battaglia. Non sono eroine, o sante. Per loro non conta un’intervista in più rilasciata a chi invece che informazione vuole solo cavalcare il dolore altrui per fare audience. Loro hanno solo un obiettivo: e cioè che gli stipendi arretrati arrivino e la garanzia che ci sia ancora un futuro per le bonifiche di Igea. In linea con questa decisione anche la scelta di farsi chiamare tutte Maria. Tutte uguali, volti coperti, nessuna leader, nessuna storia strappa lacrime da piazzare in prima pagina, nessuna lavoratrice più carina di un’altra da eleggere “velina” della protesta. Queste sono donne, donne sarde. La lotta continua. La lotta è femmina.
* cagliari.globalist.it