Anche tra la Sardegna e l’Italia c’è di mezzo il mare. Il mare stabilisce la distanza tra la finzione illusoria e la cruda realtà. La demagogia spicciola, da ciarlatani senza risorse, è l’unica soluzione per la nostra classe politica. Incapace di darsi una credibilità che i fatti le hanno inesorabilmente sottratto, privo di visione, di competenze e di motivazioni eticamente presentabili, l’apparato di potere che domina la Sardegna non riesce nemmeno a immaginare risposte adeguate alle nostre necessità fondamentali. Così, mentre emerge sempre più chiaramente che a Roma non hanno nessuna intenzione di riconoscerci la minima rilevanza, proprio a Roma viene organizzata una manifestazione di piazza sconclusionata e senza capo né coda a sostegno della ridicola pretesa della Zona Franca. Capocomico, il sempre più spaesato presidente della regione autonoma delle banane, Ugo Cappellacci. Non c’è questione, non c’è ambito politico o economico o sociale in cui i partiti italiani in Sardegna e i loro vassalli dimostrino di poter intervenire efficacemente o quanto meno senza fare danni. Questo è sotto gli occhi di tutti. Del resto, sono lì per quello. In ogni caso è sicuro che non sarà l’Italia, o meglio la sua classe dominante, a farsi carico dei nostri problemi. Anzi, i nostri problemi sono generati e/o alimentati precisamente dalla prevalenza inevitabile degli interessi italiani. Nel caso dei trasporti marittimi (in cui 1500 posti di lavoro di cittadini italiani hanno la preminenza sul diritto alla mobilità dell’intera popolazione sarda, emigrati compresi), così come nel caso della questione tributaria (“vertenza entrate” dice ancora qualcosa a qualcuno? no, è meglio gingillarsi con il feticcio elettoralistico e pericoloso della Zona Franca), per non parlare di turismo, infrastrutture, scuola, beni culturali. Bisognerà dunque dire una parola di verità su questa faccenda e prima di tutto su cosa sia l’Italia e cosa rappresenti per noi. L’Italia è un’espressione geografica, malamente rivestita dai brandelli di un mito tecnicizzato nazionalista, bigotto e ipocrita. Come ordinamento giuridico statale, l’Italia è poco più che una finzione, tenuta insieme più da interessi internazionali e geopolitici che dalla coesione culturale della sua popolazione. L’Italia unita è stata fatta su misura per la rapacità delle classi dominanti piemontesi e lombarde, poi toscane, in combutta con i grandi potentati del Meridione, ben felici di liberarsi dei Borboni se questo consentiva loro di avere le mani libere nella spartizione della terra e delle altre risorse. La stessa mafia è un elemento strutturale della politica italiana. Non è un contropotere, ma una forma di controllo del territorio funzionale allo status quo. La parte più patetica e dolorosa di questo discorso però attiene a noi stessi. La classe amministrativa e accademica sarda, già votata alla fedeltà ai Savoia fin dalla chiusura della stagione rivoluzionaria (post 1812), ha subito trovato naturale perpetuare il proprio ruolo di intermediazione dentro l’alveo retorico, politico e economico del nuovo stato unitario italiano. Unica differenza, il punto di riferimento geografico: non più Torino, ma Roma (con la breve parentesi di Firenze, tra 1865 e 1871). La passione ottusa, conformista e al contempo arrogante che molta parte dell’intellettualità, dei ruoli accademici e degli amministratori nostrani hanno sempre mostrato verso qualsiasi cosa sapesse di italiano la dice lunga sul grado di sudditanza a cui siamo stati condannati da chi doveva invece rappresentarci e interpretare i nostri interessi collettivi. Il mantenimento della Sardegna in una condizione di artificioso sottosviluppo, di analfabetismo, di isolamento geografico e culturale è stato a lungo decisivo per far accettare ai sardi tale situazione come inevitabile. Oggi tutto questo apparato di controllo è in evidente difficoltà, menomato dall’indebolirsi dei centri di potere esterni che lo sostenevano, eroso dagli effetti di lungo periodo della crisi strutturale, ulteriormente peggiorata negli ultimi anni, messo in discussione dall’aumentata possibilità di comunicazione di cui dispongono i sardi (col contributo decisivo della nostra diaspora, specie di quella più recente). Ciò ovviamente non significa che tale apparato sia meno pericoloso e che siano del tutto venuti meno gli interessi geopolitici e economici che lo sorreggono. Tuttavia, le possibilità di intervento sono maggiori che negli ultimi decenni. Siamo in una delicata fase di transizione. Nel giro di poco tempo (pochi anni, se non mesi) stabiliremo il corso del nostro destino prossimo venturo. O la definitiva rassegnazione all’estinzione di massa, o l’inversione di tendenza. Siamo nella situazione della rana messa a bollire: l’acqua per ora è tiepida, ma si sta riscaldando inesorabilmente. O ne saltiamo fuori presto, o non ce la faremo più.
TRA IL DIRE E IL FARE C'E' DI MEZZO IL MARE: A ROMA PER MANIFESTARE SULLA ZONA FRANCA IN SARDEGNA
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