"SU RE" DI GIOVANNI COLUMBU: UN "FOLLE PROGETTO" REALIZZATO NELL'ISOLA E PORTATO SUGLI SCHERMI IN LINGUA SARDA

Giovanni Columbu è il regista del film "Su Re"


di Sergio Portas

Leggo sulla “Nuova” che “Su Re” di Giovanni Columbu lo faranno vedere a Papa Francesco in occasione della visita in Vaticano dei vescovi sardi. Credo che gli piacerà perché di Francesco, quello più famoso d’Assisi, ha la grandiosa semplicità che contraddistingue solo una povertà non esibita, anzi condivisa come è spesso la normalità del vivere. E l’ambientazione in questa nostra isola che sappiamo di grandi contraddizioni, solo la si guardi da angolazioni non stereotipate, non poteva che risaltarne l’enorme carica emotiva scatenante dalla storia che il film ha l’ambizione di raccontare, in un modo non consuetudinario. Anche qui a Milano, dove il film riesce finalmente a ritagliarsi uno spazio non effimero, seppure non di primissima ribalta, il regista Columbu parla, alla platea dei presenti alla prima, di questo suo “folle progetto” che gli si è stampigliato nella mente, idea che giorno dopo giorno si radicava come menta infestante ogni altra coltura. E ben dieci anni sono occorsi a che il progetto si facesse film. Con la decisione di farlo parlare in sardo. Quale delle varianti, sono riuscito a chiedergli prima dell’inizio? Ogni attore parla il dialetto che sa, i due ladroni sono di Cagliari, mi risponde, ma gli altri recitano in gallurese, nuorese, logudorese. Del resto, continua, anche nel periodo in cui questi fatti si svolsero i Giudei riconoscono in Pietro quell’accento di Galilea che lo legava alla figura di Cristo, sebbene lui lo negasse , per tre volte. Gli attori, salvo Gesù e Maria, sono tutti non professionisti. Alcuni arruolati sul campo il giorno stesso che erano venuti a curiosare sul set. Facce dure, segnate da rughe, facce da sardi. Fazzoletti neri a cingere capi di vecchiette che sembrano uscire dalla messa delle sei antelucane. Un Gesù scambiato con un Giuda dopo solo una settimana di riprese, che la brutta faccia del secondo Fiorenzo Mattu, tumefatta e lordata dal sangue della corona di spine, certo si adatta di più al verso di Isaia, profeta di Dio che nel sacro Libro pre-vede e domanda: ”A chi è stato rivelato il braccio del Signore?  Egli è cresciuto…come una radice che esce da un arido suolo; non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi, né aspetto tale da piacerci. Disprezzato e abbandonato dagli uomini…”(C.E.I. Isaia 53). Faccia che catturava la macchina da presa come la calamita la lima di ferro, e per il modo che ha Columbu di girare, questo ha rappresentato una sorta di imperativo categorico. Qui a Milano ci dice delle battute “date in pasto” alle comparse senza quasi null’altra spiegazione né di contesti né di tempi recitativi. Con l’orgasmo che traspare dalla situazione di disagio che inevitabilmente si crea, specie in coloro che sono alla loro prima prova recitativa, alcuni dei quali provenienti da strutture sanitarie in cui il disagio psichico la fa da padrone. Ne esce un prodotto assolutamente originale, che coinvolge anche per questi aspetti di lucida follia che sembra pesare come una cappa sulla folla dei “giudei” coinvolti nella storia. Sino Ponzio Pilato che pure doveva essere il ricco della situazione veste una lorica sbrindellata, ha la barba poco curata, dà in pasto alla gente miserabilmente vestita un Cristo che fa prima flagellare e quando questi gridano, in sardo, il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli, a noi nati nell’isola ci prende quasi una paura ulteriore, quasi la maledizione si dovesse spandere come una lebbra dalle campagne di Oliena, dove il film è girato, alle regioni della Sardegna tutta. Chiedo  a Columbu come abbia potuto solo pensarlo che qualcuno ci mettesse del denaro in un progetto così particolare, e dice anche lui che non è stato per nulla facile. Tanto che all’inizio ha cercato di autofinanziarsi girando per le chiese della Sardegna, e non solo. Dice che il film è costato 800.000 euro, e che solo per la curiosità che ha saputo suscitare in Nanni Moretti e nella sua “Sacher” ha potuto godere di una distribuzione a carattere nazionale. Alla mia convinzione che il film parli in maniera del tutto particolare ai sardi , quasi che la lingua barbaricina di Mamoiada, di Ovodda, di Dorgali  riesca a conferire una crudeltà altra alle scene che già ne possiedono una loro, codificata da mille e mille capolavori d’arte che sono nei musei di ogni nazione, Giovanni Columbu risponde che non era suo intento, il sardo è la lingua che meglio conosce e la Sardegna è la terra che meglio sa rappresentare. Quando, leggendo in contemporanea i quattro evangelisti che scrivono di questo avvenimento dandone quattro diverse visioni, ha avuto l’impulso irresistibile a tradurre in film  queste discrasie , racchiudendole in un contenitore di storie del nostro tempo di cui conosce tecnicismi e anche limiti, non ha avuto esitazione a scegliere i paesaggi che avrebbero fatto da sfondo e le voci dialettali che avrebbero accompagnato la salita sul Golgota. Per il resto il film non ha colonna sonora se non lo stormire del vento tra le rocce, il grido di qualche uccello; ed allora quando si ficcano quei chiodi sulle palme di un uomo alla croce di legno sgrossato , è sufficiente il rumore sordo che ne viene a fare accapponare la pelle , non occorre che la macchina da presa indugi a tutto campo sulla scena. Questa montagna di Oliena, il monte Corrasi che degrada verso la valle del Lanaittu, scabro di vegetazione che non siano cespugli sparsi qua e là , verdi su pietra bianca, senza possibilità di un’ombra diversa da quella che sinistramente rilasciano le tre croci, coi tre uomini appesi, con dietro un cielo dai toni grigi di temporale, le nubi gonfie di fulmini. Spettacolo durissimo e maestoso allo stesso tempo, io che non ho una cultura specificatamente filmica riesco a mala pena a capire che è girato in modo inconsueto. Su Micromega  Giona A. Nazzaro, critico cinematografico e scrittore inizia il suo pezzo con un perentorio: “E poi arriva come dal nulla un film italiano che dimostra che un altro cinema è possibile. Un film che arriva da una parte dimenticata del paese. Dove non ci sono angosce sentimentali da liceali…Dove non si parla il solito italiano omogeneizzato da trent’anni di pessima televisione… Su Re è un film strappato alle viscere di questo paese ambientato fra le pietre della Sardegna che risuona d’una lingua durissima e aspra. Una contraddizione scioccante in un paese dimentico delle proprie lingue e felice della propria catastrofe borghese…Giovanni Columbu filma con una furia inebriata eppure controllata. La macchina a mano si muove come calata in un vortice di violenza impedendo allo spettatore di darsi qualsiasi punto di riferimento per orientarsi. Le inquadrature di Su Re sembrano brandelli di spazio conquistati a fatica al resto del mondo e alla vita…il film spezza qualsiasi riconoscibilità cinetica…Ciò che conta nel film di Columbu è il lavoro della macchina da presa, instancabile nella sua violenza dionisiaca, e il montaggio che interviene con ulteriore violenza sul girato già di suo vertiginoso…Tutte le inquadrature sono tagliate e montate in spregio a qualsiasi ottica di linearità. Nessun attacco è rispettato e la profondità di campo si gioca sempre contro il più bruciante dei primi piani o dettagli… Su Re dunque è un film importante e che resterà. L’opera di un regista forte e singolare che ci ricorda tutto ciò che il nostro cinema non è più”. Giovanni Columbu aveva già dato prova di sé dieci anni fa girando “Arcipelaghi”, da un libro della nuorese Maria Giacobbe emigrata in Danimarca, da dove ha continuato a scrivere di Sardegna come se l’avesse continuata a calcare coi piedi scalzi delle ragazze della sua età, dei suoi paesi. Libro splendido, di quelli che ti fa venire voglia di andare a leggere “tutto” dell’autore. E pure il film di Columbu è originale nel seguirne la trama che ha a precipitare di eventi la drammatica uccisione di un bambino, in un paese di Barbagia. Con Su Re ha dato prova di non avere manie di presenzialismo a tutti i costi, specie se essi dovessero influire n
egativamente sulla coerenza morale e artistica del regista di Nuoro. Che gli siano dati i mezzi per poter dispiegare questa sua maestria è auspicabile. Che non si debbano attendere altri dieci anni.

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