"LA SARDEGNA E' DELUDENTE"! DA MURAVERA AD HARVARD, LA STORIA DI MARCO ARESU, GIOVANE DOCENTE DI ITALIANISTICA NEGLI STATI UNITI

Marco Aresu


Schietto. Perfino dissacrante. Non ha il mito dell’identità o della sardità. «Non si sceglie dove nascere, ma si può scegliere dove si vuole vivere». E lui, Marco Aresu, 36 anni, docente di Italianistica nel mito di Harvard, ha lasciato l’Italia virando per l’altra parte del globo, destinazione il top per lo studio degli affari, dove si arriva per approdare a Wall Street. Il business di Aresu è più umano, è la lingua appresa lato Flumendosa. Tiene conferenze per gli States, anche a Yale e alla Columbia. La maggior soddisfazione? «A Stanford, tre anni fa, uno dei miei studenti è stato scelto per il discorso di fine anno, ha esordito in ottimo italiano con una citazione da Primo Levi sul ruolo della memoria».

La più ricca. Harvard (a Cambridge-Massachusetts, area metropolitana di Boston) è certo l’università più ricca al mondo (circa 32 miliardi di dollari di endowment, di dotazione). Suddivisa in tredici schools (macrodipartimenti), ha settemila studenti undergraduate (primo livello) e 14mila graduate (master o dottorato). Circa il 10 per cento degli undergraduate e il 30 dei graduate sono stranieri. Viene ammesso mediamente l’8 per cento di chi presenta domanda (in medicina il 4, a giurisprudenza il 10 solo per fare due esempi). Selezioni severissime. «Nel dottorato di italiano, lo scorso anno ne sono entrati due su 50».

Due titoli. Marco ha vinto dopo aver osato. Da ragazzo il buon liceo scientifico di Muravera e Lettere a Cagliari. Oggi si ritrova in un ateneo dove sono passati John Adams e John Fitgerald Kennedy, Thomas Stearns Eliot, Leonard Bernstein e Barack Obama. Qui ha insegnato anche Costantino Nivola. Ci sono sue opere. Aresu ha due titoli: un PhD candidate nel dipartimento di Romanistica di Harvard, ha completato tutti i requisiti per il dottorato e sta scrivendo la tesi («la cultura manoscritta nel Trecento»). Si occupa della «relazione tra i dati materiali di un manoscritto e gli aspetti letterari veicolati dal testo». Principali autori di riferimento Petrarca e Boccaccio. Spiega: «Sono anche un teaching fellow: insegno un corso a semestre di lingua e cultura italiana, per cui sono retribuito e non pago le esorbitanti tasse universitarie di Harvard (che mi garantisce anche l’assicurazione sanitaria). Il prossimo semestre terrò un corso su Dante e la Commedia con il mio relatore. Non vedo l’ora di iniziare».

Egittologo. Nasce in pieno Sarrabus. Papà Aldo capo dell’ufficio tecnico del Comune di Muravera, mamma Rosalia insegnante. Una sorella più grande, Marianna, laurea in Lingue, esperta di turismo. Elementari a due passi da casa. «Studiavo solo se costretto, preferivo giocare in strada. Ricordo maestra Liliana in terza elementare: dopo un’epica lezione sugli egizi decisi che avrei fatto l’egittologo, forse l’unica professione che ha un futuro più incerto di quella del filologo. Odio illimitato per la matematica. Alle medie ottimi insegnanti, in particolare di lettere. La mia professoressa di italiano mi ha fatto leggere i lirici greci e Leopardi, Poe, Bulgakov e Garcia Marquez».

Entusiasmo. Ancora amarcord. «Muravera non è esattamente Atene o Jena. Avere insegnanti che portavano entusiasmo, cultura e libri (anche se a casa ne avevo tantissimi) ha giocato un ruolo chiave. Al liceo ho deciso: l’unica cosa da fare era studiare la letteratura. Allo scientifico ho imparato il greco da solo, con libri di amici e qualche lezione privata. In un liceo di provincia, inaspettatamente, si lavora moltissimo. Nella mia classe eravamo in dieci, in tre abbiamo fatto o facciamo un dottorato. Quando all’università raccontavo quello che studiavamo a Muravera, i miei colleghi rimanevano allibiti». Poi Cagliari. «Scelgo l’università del capoluogo, dopo due settimane in Scienze della comunicazione a Bologna. Opto per Lettere, interpretare la realtà attraverso ciò che di meglio la natura umana ha prodotto è molto suggestivo. Il talento altrui è sempre una gran bella fonte di ispirazione. Se l’Italia lo capisse avrebbe un’altra economia». E la formazione? «Pochi docenti hanno influito a livello metodologico. Uno in particolare, non cagliaritano. Credo che a Cagliari manchi una “scuola”, un progetto. Io per lo meno non l’ho trovato. A prescindere dalla serietà specifica di molti docenti, mi sono mancati maestri nelle discipline preferite. E ho dovuto ripiegare. La mia laurea tardava ad arrivare. L’orizzonte si apre dopo l’Erasmus in Germania, a Tuebingen, nella Svevia, l’università di Hegel e Keplero. Lì decido che mi sarei specializzato fuori dall’Italia».

Cultura materiale. Dal vecchio al nuovo Continente. «Arrivo ad Harvard al termine di un viaggio lungo e un po’ casuale. Inizio il dottorato presso l’Indiana University, poco nota in Italia, ma con una grande tradizione per lo studio delle culture straniere in America (sono offerti corsi in circa 90 lingue). Dopo un master in studi letterari mi offrono una posizione di dottorando e insegnante di lingua a Stanford in California. L’obiettivo era di studiare l’interazione tra letteratura e cultura materiale sotto la guida di Jeffrey Schnapp, mio attuale advisor (più un mentore che un relatore di tesi). Poco dopo il mio arrivo Jeffrey si trasferisce a Harvard e mi chiede di seguirlo. All’inizio penso di rimanere a Stanford (anzi, a San Francisco, dove abitavo). La California è, per quanto mi riguarda, il posto dove vorrei vivere per sempre. Lascio gli indugi. Ed eccomi qui».

Studenti esigenti. La giornata tipo del dottor Aresu inizia alle sette. Vive a trenta minuti di metro da Harvard. Inizia a insegnare alle 9. Poi ricevimento e si prepara per il giorno dopo. «A strutturare le lezioni ci si mette un po’: devi sapere quello che farai in ogni minuto in cui stai in classe. Non esagero: ogni minimo spreco di tempo è considerato inammissibile, in primo luogo dagli studenti, esigenti. Le lezioni non si improvvisano. Il pomeriggio lo trascorro in biblioteca, alle 5 mi rifugio in qualche caffè e continuo a studiare. Bevo solo il classico caffè lunghissimo americano. Alle 21 in palestra. Sulla via di casa mi fermo di solito a bere un bicchiere con un amico, se non ho troppi compiti da correggere. Di solito mi addormento con le luci accese mentre sto leggendo».

Pendolare. Abita a Boston, non a. Cambridge (dove si trova Harvard). Spiega: «Preferisco una dimensione metropolitana a un’atmosfera da città universitaria. Quando ero a Stanford non ho mai vissuto a Palo Alto, preferivo fare il pendolare (bici-treno-bici). Il mio quartiere è South End. Ex-quartiere ghetto è stato trasformato da hippy, gay e artisti. Viverci costa un botto, abito in un monolocale grande come una scatola di fiammiferi. Vivere da solo aiuta quando si è sotto stress, la salute mentale non ha prezzo». Il cibo? «Mangio centomila volte meglio in Sardegna. Una volta sono andato in macelleria perché avevo desiderio di una gran premio: mi hanno trattato come se fossi un cannibale».

Differenze. Non è facile sintetizzare le differenze tra università italiana e Usa. «Servirebbero giorni. Dove ci sono investimenti per la ricerca, la ricerca si fa più facilmente. Dove ci sono biblioteche che funzionano, si legge di più e più in fretta. Gli studenti americani passano la vita a ripagare i debiti acquisiti per pagarsi tasse universitarie (fino a 50mila dollari all’anno in sole tasse per atenei come Harvard o Yale). La metà dei miei studenti ha una borsa di studio che copre tutte le spese. La competizione è indescrivibile». Qualche volta ha incontrato altri sardi. «Magari ce ne sono molti, ma non li cerco troppo. Sono più contento di incontrare un non-sardo che è stato in Sardegna. Hanno sempre storie interessanti da raccontare. Il punto di vista dell’alterità fa sempre ripensare il proprio modo di vedere e raccontarsi le cose».

Una volta. Tornare in Sardegna? «Una volta all’anno. E mi basta. Capisco le sofferenze e il desiderio di rientro di molti amici e colleghi all’estero, ma non è il mio caso. Hic sumus, et hic manebimus optime. Mi manca certo la famiglia e gli amici, ma non credo si debba vivere la propria vita per stare dove si è nati. Non sono fatto per le scene lacrime e vaporetto, come se qualcuno ti stesse strappando a forza dal paradiso. Me ne sono andato perché vivo meglio altrove. E trovo la Sardegna deludente sotto molti punti di vista: politico, sociale, culturale. Trovo che la casa uno se la debba scegliere, se ne ha la possibilità».

Giudizio severo. È severo anche il giudizio sulla Sardegna di oggi. «Qualche anno fa, eravamo un laboratorio politico-culturale davvero notevole. Non si può immaginare quanto interesse abbia destato qui ad Harvard, ma anche a Yale e Stanford, il dibattito sul piano paesaggistico. Ma è durato poco. Oggi della Sardegna non parla nessuno». E l’Italia? «È l’emblema di un Paese in forte crisi. Quando spiego la politica italiana ai miei studenti, mi rendo conto di quanto sia agghiacciante sentire di certe alchimie». E l’America dell’Obama-bis? «Obama è un grande presidente, ma in Europa sarebbe l’equivalente di un moderato. Le accuse di socialismo (per la riforma sanitaria o gli investimenti, presunti, nella scuola pubblica) fanno quasi ridere. Non ho visto l’aumento delle tasse per i ricchissimi, e la politica estera è ancora molto discutibile. Certo, il confronto col predecessore lo fa sembrare Rosa Luxemburg». Quando in Sardegna? «D’estate. A nuotare nel mare di Costa Rei, tra i più belli del mondo».

 

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