di Giuliano Marongiu *
Luigi Lai, il Maestro, racconta a San Vito i passaggi della sua esistenza. Vive nello spazio che destinerà a Museo e che raccoglie gli strumenti che lo hanno reso celebre, le “launeddas”, insieme a centinaia di foto e ritagli di giornali, ritratti, targhe e trofei, attestati di merito, locandine che pubblicizzano i concerti, due sculture di Pinuccio Sciola di cui una ritirata nel 2008 nel Palazzo dei Congressi della Fiera di Cagliari, all’European Jazz Expo XXV”, quando per i meriti artistici della sua “Sardegna nel mondo”, gli è stato assegnato il Premio alla carriera.
Ricordi la sua infanzia. “Sono nato a San Vito nel 1932, tempi difficili. Mio padre, Vito Lai, di Gairo, faceva il muratore e guadagnava 19.000 lire al mese. Mia madre, Felicita Melis, era nata a Esterzili. La Radio del Podestà, in orari prestabiliti, trasmetteva solo il suono delle marce militari, i discorsi del duce, i comunicati ufficiali. La musica del mio tempo era quella che i suonatori producevano col fiato soffiato dentro le launeddas. La prima volta che le ho ascoltate avevo 10 anni. Le suonava un mio compaesano, Vincenzo Piroddi. Rimasi folgorato. Corsi subito a casa per chiedere a miei genitori di comprarmi lo strumento. Inizialmente non furono d’accordo: “Ti morisi”, mi dissero, per la convinzione allora diffusa nel mio paese, che chiunque diventasse suonatore di launeddas dopo un po’ moriva”
Il ragazzo la spunta. I primi rudimenti musicali li apprende da un suonatore di mandolino, Felice Sirigu. Poi il Grande Antonio Lara di Villaputzu. “Ci andavo tutti i giorni, a piedi o in bicicletta. Mio padre pagava 1.500 lire al mese al maestro che mi impartiva le lezioni a piccole dosi. Mi esercitavo tanto. Quando uscivo da casa sua avevo sempre paura di dimenticare quello che mi aveva insegnato, ripercorrendo la strada del ritorno canticchiavo il motivo per tenerlo in memoria. Allora non c’erano i registratori”.
1947, foto a Sassari alla Cavalcata Sarda, Luigi, quindicenne, è con Melis e Lara. “Lara mi ha insegnato a vivere e non solo a suonare. Educatissimo, mai una parolaccia. Severo e rigoroso. Una volta mi scrissero da Barumini per invitarmi a suonare, da solo. Temevo la sua reazione e prima di dirglielo mi feci coraggio. Mi chiese: “Molto ti danno?”. Risposi “5.000 lire per tutta la festa”. Non reagì bene. Quando tornai gli regalai un pacco di dolci. Anche da grande mi ha sempre dato buoni consigli: è morto a 96 anni, nel 1979”.
Efisio Melis è stato l’altro grande maestro. Si è scritto tanto della sua “incredibile eccellenza tecnica e musicale” e gli si riconosce di aver portato le launeddas “verso l’estremo limite delle possibilità offerte dallo strumento”. “Efisio Melis non si accontentava mai dei risultati raggiunti. Era cognato di Antonio Lara e a Villaputzu dicevano che Melis dei due era il più bravo. In effetti aveva un modo più artistico di suonare, ricco di fantasia, forza creativa. Con Lara andavamo spesso a pranzo a casa di Melis, in via Barcellona a Cagliari. Ho preso un po’ dall’uno e un po’ dall’altro, ma non sono né l’uno né l’altro. Melis mi voleva un gran bene. È morto nel 1970, poco prima del mio rientro dalla Svizzera e purtroppo non ho fatto a tempo a dargli l’ultimo saluto. La figlia mi ha detto: “Babbo ti ha cercato mille volte”. Era solito dire: “Dopo di me c’è solo Luigi Lai”.
Ecco le foto in sequenza che il fotografo amico di Barumini, Gianni Sanna (vero artista dell’immagine), ha riordinato con cura e passione. Quelle in bianco e nero portano indietro nel tempo. “Durante la Festa di Santa Maria, ancora adolescente, partecipai con altri 15 giovanissimi suonatori di launeddas a una sorta di gara che si svolgeva sui gradini della Chiesa: vinsi 100 lire, a consegnarmi il premio fu Gino Lai, primario dell’Ospedale Marino di Cagliari”.
A 19 anni il primo concerto da solista ad Armungia, paese di Emilio Lussu. “Per raggiungere Armungia bisognava percorre 28 chilometri di strada impervia e tortuosa. Da San Vito ero partito con un passaggio di fortuna, seduto su un cumulo di ghiaia trasportata da un piccolo camion. Nella piazza in cui dovevo esibirmi si era radunata tanta gente per ballare al suono delle launeddas. A un certo punto qualcuno mi disse: “Mantene ca passausu sa bona manu”. Con un cappello fecero un giro tra i presenti per raccogliere qualche soldo. Avvertivo fatica, temevo che il fiato ancora acerbo non mi sostenesse, ma con gli occhi seguivo il percorso del questuante, e resistetti fino alla fine del giro”.
La somma raccolta ammonta a 73 lire: una cifra considerevole, per un giovane suonatore. Stanco ma felice dorme su una stuoia per tutta la notte. La mattina ripercorre a piedi i 28 chilometri del rientro. I soldi li aveva nascosti in una tasca dei pantaloni. Nel 1956 emigra in Svizzera. Ci resta 15 anni.
“Anni indimenticabili: una scuola di vita. Mi sono dato da fare. Per far parte di un’orchestra era obbligatorio saper suonare almeno due strumenti: ho imparato a suonare la fisarmonica e il sassofono (ho frequentato l’Accademia per tre anni. Tutte le sere, a fine concerto, mi esibivo con le launeddas”.
La prima incisione è in un 45 giri inciso in Svizzera nel 1963 per la Casa discografica “Elite Special”. Ha per titolo “LUIGI LAI E LE SUE LAUNEDDAS”. I solchi in vinile riproducono due balli sardi: uno con Spinello in sol, l’altro con Mediana Pippia in do”. Giungono i riconoscimenti: il 16 maggio 1988 il presidente della Repubblica gli conferisce l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per meriti artistici. Un altro attestato lo incorona “Maestro del Folklore” nel 1985, su indicazione dell’Ept di Nuoro. Alcune immagini documentano l’incontro con Giovanni Paolo II° durante il viaggio in Sardegna: i due si guardano e sorridono. La voce si incrina e gli occhi si fanno lucidi quando il Maestro si sofferma su uno scatto che lo ritrae con Aurelio Porcu. “Io e Aurelio siamo sempre andati d’accordo. Poco prima che morisse ho detto a suo figlio che ci hanno messo contro i venditori di fumo. Non ho mai smesso di volergli bene e lui me ne voleva tanto”.
Il racconto riprende dal punto in cui era stato interrotto. “In Sardegna, dopo la parentesi elvetica, le cose erano cambiate: dal mare era arrivata la nuova musica, si doveva parlare italiano. Le launeddas erano morte. Ricordo che non si trovava un suonatore per Sant’Efisio. Quelli dell’Arciconfraternita erano disperati: uno scritto dispone che sia sempre presente un suonatore di launeddas per l’accompagnamento del Santo. Da allora non manco mai all’appuntamento di Maggio e le 35 coccarde che conservo testimoniano la mia ininterrotta partecipazione ad altrettante edizioni della Festa. Per fronteggiare questa crisi, realizzai un Corso di launeddas per il Comune di Cagliari al quale si iscrissero 104 aspiranti suonatori. Attualmente insegno alla Scuola Civica di Musica: diversi giovani allievi ci riserveranno grandi sorprese”
Per scuotere i giovani suonatori, dalla superficialità dell’approccio con lo strumento, ricorre alla metafora. “Il bravo muratore sa bene che se costruisce solide fondamenta, la sua casa non potrà crollare mai. E’ cosi anche per il musicista: non deve avere fretta, deve suonare perché ha piacere, non per un dovere. Applicazione severa, costanza quotidiana, rigore assoluto. Ognuno nel limite delle proprie possibilità deve trarre il massimo che può: con lo strumento puoi comunicare, devi trasmettere, altrimenti lascia stare”.
Alla fine degli anni ‘70 l’incontro con Angelo Branduardi. “Mi trovavo in un locale a Roma con Dionigi Burranca e avevo appena finito di suonare. Un signore si avvicina e mi propone l’idea di un progetto importante: lo ascoltai quasi infastidito. Un amico mi disse che si trattava di Dori Zard, fratello del grande impresario David Zard (amico di Bob Dylan e organizzatore dei più grandi concerti in Italia degli ultimi trent’anni, dai Rolling Stones ai Pink Floyd fino a Madonna). Con una telefonata mi anticipò il suo arrivo in Sardegna. All’appuntamento che fissai a Barumini si presentò con Angelo Branduardi, che io non conoscevo. In poco tempo si radunò intorno a noi una folla che pressava per avere l’autografo del cantante che in quel momento era nel pieno del successo grazie al disco “Alla fiera dell’est”. Erano venuti per conoscermi e parlare con me: “vogliamo che tu suoni le launeddas nel nuovo disco di Angelo che si intitola “La pulce d’acqua”. Mi lasciarono libero di mettere quello che volevo: suonai in “Poeta di corte” e nel brano “Ballo in fa diesis minore” sperimentai per la prima volta la sovra incisione delle launeddas. Correva l’anno 1978: seguì una stagione di oltre 30 concerti in tutta Italia insieme a Branduardi e al Banco del Mutuo Soccorso. Un’esperienza bellissima”
Giovanni Lilliu ha dipinto di luce i resti di civiltà millenarie, Luigi Lai ha colorato il passato di note, contribuendo a riscriverne i suoni. Proprio a Barumini il maestro Lai ha tenuto a battesimo il Museo Regionale de “Is Launeddas” (il più antico strumento della musica e della cultura dei sardi). E le “launeddas elettroniche”? “Non suscitano in me alcun interesse. Non chiamatele “launeddas”: non lo sono. Perché dobbiamo imbrogliare? Se uno ama davvero le launeddas non può nemmeno accostarle a certe cose. Il fiato è l’anima delle launeddas. Io mi auguro che le launeddas vivano. La preparazione è indispensabile, come avviene per la matematica: devi conoscere le regole, applicarti, fare esercizi costantemente. La base deve essere solida. Le launeddas vivranno se i giovani le suoneranno bene, altrimenti moriranno. Ho fiducia”.
Apre lo scrigno dei suoi preziosi strumenti che accarezza con sentimento. Soffia dentro lo strumento rendendomi spettatore unico di un concerto che improvvisa: le dita scorrono magiche, scivolano impavide, rapiscono quel suono che vibra sottile e sicuro. Il tatto è leggero, ogni passaggio è inedito nel suo divenire. Dentro la rete delle note si muove con consumata disinvoltura. Respira l’anima e la traduce in poesia. Ecco l’arte. Luigi Lai ricama il suono con la tecnica di un orafo che realizza un gioiello. “Ho suonato perché mi piaceva, non perché questo poteva farmi guadagnare dei soldi. Suono ogni giorno. Io ci “parlo” con le launeddas, mi preoccupo del loro stato di salute, controllo la temperatura, l’ambiente in cui sostano. Sono strumenti sensibili, delicatissimi, da proteggere. Dove sto bene io stanno bene loro. Quando hai freddo tu hanno freddo anche loro. Le launeddas hanno un’anima che il suonatore tiene in vita”.
Il Maestro parla il tedesco, suona il pianoforte, legge la musica, è sposato con Rosina da 45 anni, vivono in una grande casa su più piani al centro del paese (“era di un magistrato, l’abbiamo ristrutturata, e qui dove una volta c’era un negozio di generi vari, sorgerà il Museo”). Ha tre figlie e quattro nipoti: Sofia, Giacomo, Alessandro e Riccardo. “Riccardo ha 7 anni ed è l’unico che manifesta propensioni musicali: a 3 anni era uno spettacolo vederlo con le sue mini – launeddas. Passava con me ore ed ore, assumeva le mie posizioni, mi imitava, non si stancava mai. Mi guardava dal basso e mi diceva: “Nonno facciamo cuncordia?”.
Il maestro sorprende ancora: esegue prima un ballo con la fisarmonica e poi propone in modo eccellente alcuni classici con il sassofono. Qual è il futuro delle launeddas? “Quando ho aperto il confronto con altri strumenti e altri musicisti, sono stato sommerso dalle critiche. Invece, grazie al coraggio di non tenerle isolate le launeddas sono tornate a vivere: bisogna presentarle, non nasconderle. Lo scorso dicembre ho suonato a Napoli con Enzo Avitabile, un musicista eccezionale, espressione di un’altra cultura musicale. Il risultato è stato ottimo. Ci sono alcuni giovani che hanno talento e a loro consiglio di insistere, prepararsi e resistere. Il futuro delle launeddas è nelle mani di chi le suona”.
Cosa si augura per il futuro? “Spero che Dio mi dia vita lunga, perché io servo.”
*Sardi News