Come in un rituale ripetitivo, anche quest’anno uno spettro si è aggirato nel Mediterraneo: gli incendi. Un anno strano, in cui improbabili nomi infernali vengono attribuiti alle ricorrenti onde di calore dell’anticiclone sahariano, in cui per settimane brucia il cuore della Capitale d’Italia (ma anche Monte Urpinu, l’Anfiteatro di Cagliari!) in cui il Commissario Gabrielli informa a calendario che nel 2013 i Canadair non potranno più volare, a causa di tagli in bilancio, e per esigenze organizzative o modifiche normative la flotta nazionale antincendi passa dal DPC ai VVF; contemporaneamente con iniziative di legge si pensa di risolvere il problema degli incendi scardinando un complesso sistema basato sulle regioni attribuendo agli stessi VVF il totale coordinamento della lotta e relegando il Corpo forestale a mere funzioni di polizia giudiziaria. Sempre e comunque una risposta emergenziale ad un problema che emergenziale non è. Al contrario, è prevedibilissimo. Eppure, il problema degli incendi è vissuto solamente nei termini del pubblico soccorso e della emergenza e ci si ricorda di essi solo quando appaiono in tutta la loro pericolosità. I social forum sono pieni di video con le sequenze, spettacolari ed emozionanti, degli sganci dei Canadair, associati ai commenti del tipo “dovrebbero buttarli nelle fiamme gli incendiari” o “stanno distruggendo la nostra terra”. In realtà di emergenziale e approssimativo c’è solo il modo in cui questo argomento viene affrontato, così come le alluvioni prossime venture d’autunno. La verità è che le condizioni meteorologiche predisponenti e lo stato della vegetazione sono tali da creare le premesse per ricorrenti esplosioni di quelli che vengono definiti “Grandi Incendi Forestali”. Lo sono state in passato, lo sono oggi e lo saranno in futuro. Di fronte a questi nulla possono le migliori tecnologie di estinzione: in queste ore nella provincia di Leon (Spagna) arde ancora un grande incendio che si estende su oltre 15.000 ettari, e non più tardi di un mese fa alla frontiera tra Francia e Catalogna un altro grande incendio, durato più di 15 giorni, ha bruciato oltre 13.000 ettari, distrutto la vita di 4 persone, costretto migliaia di persone e decine di villaggi all’evacuazione. E che dire degli incendi del Texas, dell’Arizona, del New Mexico? Che dire del famoso “mercoledì delle ceneri” in Australia nel 2007 con 187 morti e migliaia di case bruciate? Si può trattare questo tema come un’emergenza – solamente come un’emergenza – oppure c’è qualcosa di più profondo da sviscerare? La realtà è che il nostro è un pianeta di fuoco; la Sardegna è una terra di fuoco: qui il paesaggio, la vegetazione, il territorio è stato disegnato dal passaggio ripetuto e frequente del fuoco, nei millenni passati. Ricordate Maurice Le Lannou? In fondo il “paesaggio rattoppato” di una foto in bianco e nero nel libro Pastori e contadini di Sardegna, che mostra le lande a cisto del nord Sardegna altro non è che un “patchwork” di biodiversità creato dal fuoco; e il miracolo della quercia da sughero selezionata in milioni di anni per resistere al fuoco cosa altro è se non la dimostrazione di un paesaggio – tutto sardo, tutto mediterraneo – che con il fuoco ha un rapporto storico e meno che emergenziale? Ma allora? Il tema è che si equivocano i termini: fuoco non significa incendio, fuoco non significa emergenza! Il fuoco diventa incendio quando si altera il suo tipico “regime”: pensiamo a Monti di Mola, al fuoco “gestore” delle balze granitiche in modo organico all’allevamento della capra, pensiamo all’uomo gallurese “maistu di focu”. Con periodicità misurata, ogni 6-12 anni, si bruciavano a rotazione lembi di macchia per rinnovare l’alimento della capra, dei bovini, degli altri animali: un vero e proprio, anche se arcaico, piano di gestione! Ma la macchia mediterranea è diventata il feticcio dentro cui annegare lineari villaggi disneyani, finto arabo-sardo…. e si è dimenticato che il fuoco è pittore di quella vegetazione, e puntualmente vi ritorna, solo che anzichè rocce nude e disabitate vi trova migliaia di turisti ignari, e genera panico, fuga, evacuazioni, terrore. E’ grave che questo particolare non sia entrato, e continui a non entrare, nelle politiche di pianificazione e nello studio degli scenari insediativi, sia nei litorali sia nell’agro. Il fuoco, nella sua accezione più estrema, l’incendio, ed in particolare la sua periodica ripetizione, dovrebbe essere il discrimine sulla fattibilità di un residence, o di improbabili ricoveri attrezzi dentro il bosco. Nel mondo è vivo il dibattito sulle comunità “fire-wise” che ragionano sull’autoprotezione quotidiana dall’incendio, piuttosto che polemizzare su arrivo/ritardo di elicotteri. Da noi – paese notoriamente abitato da 60 milioni di allenatori della nazionale di calcio – si opina sugli “errori” di chi non riesce a spegnere l’incendio, piuttosto che sulle condizioni che rendono possibile l’espansione del fuoco per chilometri su un territorio privo delle minime autoprotezioni (fasce parafuoco assenti, terreni incolti, abbandono generalizzato). Benedetto Meloni nel suo bel libro Famiglie di pastori richiama l’attenzione sulla antica “compresenza” attiva nelle nostre comunità tra agricoltori e pastori in forme d’uso della terra che riducevano drasticamente i pericoli dei grandi incendi; il consumo delle stoppie da parte degli animali domestici dopo il raccolto dei cereali, l’uso controllato del fuoco prima della nuova stagione agraria con la presenza di tutti gli attori del lavoro delle campagne erano la migliore soluzione al problema. Il fuoco non può essere eliminato dalla nostra terra: c’è da millenni e continuerà ad esserci. Bisogna ritornare a convivere con esso, ma per fare questo occorre tornare su alcuni concetti elementari. Non si può cambiare il clima, che continuerà a riscaldarsi nei prossimi decenni, non si può cambiare la morfologia delle montagne: l’unica cosa che i nostri antichi avevano ben chiara e che rimane da fare è la gestione del fuoco attraverso una riduzione professionale dei combustibili, alimento per il fuoco cattivo, anche attraverso un uso del “fuoco buono”. Chi se non la gente delle campagne dovrà svolgere il migliore ruolo di protagonista in questo cambio di paradigma? Meno estinzione, più prevenzione. Gestione dei combustibili, innanzitutto, anche aggiornando le attuali “buone pratiche agricole” che escludono l’uso del fuoco nei seminativi; dare corpo a politiche di manutenzione annuale e gestione selvicolturale dei boschi di nuova formazione (in genere nati dall’abbandono dei coltivi, piuttosto che da un “successo” nelle politiche naturalistiche); ripensare all’utilizzazione economica dei boschi, anzichè vederli in modo “disneyano” lasciando da parte una visione estetico/urbana e rivalutando anche con modalità innovative la capacità di impresa in campo forestale ed agricolo; rendere le formazioni boschive resilienti al passaggio del fuoco attraverso il “fuoco prescritto” e la riduzione del sottobosco. Ma non si può sottacere il fatto che i problemi più grossi nascono dalla assoluta carenza pianificatoria e gestionale in prossimità dei villaggi turistici, delle periferie dei paesi, pieni ancora di rifiuti che rendono un banale fuoco di stoppie un incendio urbano. La stupidità di pochi sbandati (giovani o anziani, privi delle più elementari regole di convivenza civile), o la incoscienza di tante azioni pericolose, oppure ancora la mancanza di manutenzione nelle infrastrutture elettriche non può e non deve essere più in grado di generare panico e distruzione, chiamando alla sola responsabilità una struttura di lotta che, approssimativamente, costa alla Regione intorno ai 100 Mln. di euro. I piani comunali previsti dalle OPCM del 2007 sono solo dei piani di carta, dei documenti privi di attuazioni pratiche di autodifesa dal fuoco ma sono, per confermare quanto vado sostenendo,
dei prontuari di pronto soccorso (quando funzionano).
Nel recente dibattito sul PPR non ho visto in nessun momento e da nessuna parte il richiamo alla “natura di fuoco” dei nostri paesaggi e la conseguente necessità di:
a) introdurre il divieto di nuovi insediamenti nelle aree boscate e, per quelli già esistenti,
b) definire modalità obbligatorie di gestione, anche oltre le attuali (minimali) prescrizioni antincendio con ampie fasce di sicurezza dentro cui le comunità si sentano intrinsecamente sicure e non costrette a fughe, bibliche e pericolose evacuazioni.
Esistono in Sardegna esperienze e professionalità capaci di trasformare una struttura di lotta al fuoco in una struttura di “Fire management”, per la reale prevenzione, la concreta sicurezza; non c’è bisogno di copiare modelli esterni e ridondanti per riorganizzare lo scenario di protezione dagli incendi. Occorre invece ricreare le condizioni per la “compresenza” degli utenti del fuoco tradizionale con i professionisti, creando con ciò anche nuove occasioni di lavoro utile alla collettività, “living with fire”.