Magari avranno ragione gli scienziati “veri” quando obiettano a Sergio Frau e al suo fortunato libro, che assimila la Sardegna nostra alla mitica Atlantide, che la pianura del Campidano non si è originata da uno tsunami che, buttando giù nuraghi a destra e a manca, ha fermato le sue mostruose onde ai piedi della Giara di Gesturi. Mettendo in ginocchio la civiltà nuragica. Cosa sia capace di fare questo maremoto l’abbiamo visto giusto un anno fa sulle coste di un’altra isola, una di quelle che compongono l’arcipelago giapponese, del resto “tsu” vuole dire porto in quella lingua e “nami” sta per onda, il porto contro cui si è abbattuta l’onda assassina è oramai tristemente famoso nel mondo: Fukushima. E anche la civiltà giapponese ha subito uno scossone per cui, quando si rialzerà, non sarà più quella di prima. Che a Fukushima Daiichi era in funzione una centrale nucleare. Che l’onda marina, scavalcando sette metri di barriere appositamente costruite a difesa, ha sommerso l’edificio interrompendo la corrente elettrica che avrebbe dovuto agire sui sistemi di sicurezza degli impianti nucleari. Che il surriscaldamento dei nuclei radioattivi hanno liberato quantità di radiazioni la cui vita si misura in termini di decine, centinaia, migliaia d’anni. Che codeste radiazioni entrando nel ciclo alimentare causeranno danni perenni alle popolazioni con cui entreranno in contatto. Per ora, 52 delle 54 centrali nucleari attive in Giappone sono ferme “per accertamenti”. Delle decine di migliaia di morti, causa dello tsunami, delle centinaia di migliaia di persone che hanno dovuto lasciare le loro case causa le radiazioni, sono piene le prime pagine dei giornali che ricordano il primo anno dall’evento. Ilaria Carra su “Repubblica” del 7 marzo scrive che un’associazione italo giapponese, fondata ad ottobre proprio per aiutare i bimbi giapponesi coinvolti nell’incidente nucleare di un anno fa a nome “L’Orto dei sogni”, sta organizzando un soggiorno disintossicante per l’estate, sul modello di quello che accadeva per i bambini di Cernobyl. Per un numero di quindici, per il mese di agosto, nel centro Caritas di Sant’Anna-Marrubiu (anzi questi ignoranti scrivono Marrabiu), in provincia di Oristano. Testualmente: “L’idea dell’associazione è venuta a Morimi Kobayashi, che vive a Milano da un paio d’anni, insieme con la giornalista Kayo Tokunaga e il sardo Claudio Carta”. Dei primi due nomi non è parso necessario alla giornalista specificare che siano giapponesi, del terzo occorre sottolineare, “more solito” che non è un italiano: è un sardo. E allora il vostro cronista si è messo sulle piste di questo Carta, domenica pomeriggio presentandosi al centro “Urasenke”, lungo il naviglio di Porta Ticinese, dove si svolgeva una “cerimonia del tè” i cui proventi ( 15 euro per una tazza e un dolce) sarebbero andati all’iniziativa ho incontrato dapprima Morimi Kobayashi, in chimono rosa confetto, e poi quella che mi è stata presentata come “la moglie di Claudio Carta”: Kayo Tokunaga, giornalista che scrive su numerosissimi giornali internazionali da “Elle Deco” a Tokio a “Figaro Japon” , internet docet. Cosa sta a significare per i giapponesi la “cerimonia del tè” mi richiederebbe lo spazio di un libro, mi limiterò a riferirvi che il posto era affollato ( di occidentali) che la maestra Nojiri Michico, che se ho ben capito da come il nome fosse pronunciato con un rispetto che più giapponese non si può, deve essere una celebrità internazionale, viene due volte all’anno a tenere corsi intensivi che durano quattro o cinque giorni, dalle otto di mattina fin alla sera tardi. E, mi dice Morimi che è quindici anni che fa pratica: “Io ancora sto imparando, non sono brava abbastanza”. Kayo in compenso mi si rivolge, anche lei in buon italiano, dicendomi che “siamo colleghi” e possiamo darci del tu, ma quando le chiedo dove mai abbia impattato quel Claudio Carta che vado cercando, ridiventa giapponese al cento per cento e mi guarda storto, neanche le avessi chiesto un appuntamento galante per la serata. Con Claudio prendiamo un caffè l’indomani mattina e quindi posso raccontarvi una storia che essa pure meriterebbe lo spazio di un libro. Una famiglia di sette fratelli, di cui sei maschi, in quel di Riola Sardo, mezzo chilometro da Baratili San Pietro ( paese della mamma), dove c’è la vernaccia più buona di tutto il Sinis ( dico io), babbo trasportatore e spesso lontano da casa, mamma che è mancata troppo presto. Claudio va via di casa a diciannove anni “per fare il militare”, si ferma a Firenze per quattro frequentando la scuola d’arte, dove affina un dono naturale che gli ha dato madre natura: quello di distinguere il bello nelle cose ( e anche nelle persone, dico sempre io). Fatto sta che trova impiego nel mondo dei bei tessuti e nella moda e, grazie anche all’aiuto di un amico svizzero fotografo internazionale con cui prende a collaborare, approda in oriente, Giappone e Cina ed Hong Kong, allora ancora sotto protettorato britannico. Riconosce Hong Kong come una delle patrie in cui ha certamente vissuto in altre epoche ( lo dico io), fatto sta che vi si ferma lasciando un mestiere che lo stava facendo ricco per intraprendere daccapo a lavorare nella moda, seguendo i cinesi nel boom degli ultimi decenni, e arrivando a posizioni di vertice che gli avrebbero fatto guadagnare davvero montagne di soldi : con import-esport di capi firmati e ufficio di rappresentanza a New York. Ma anche quella non era la sua “vera strada” ( lo dice lui). E se ne torna in Italia lasciando esterrefatti i suoi collaboratori cinesi che mai in vita loro avevano sospettato si potesse snobbare così una carriera di tale prestigio e di così ricche prospettive. Quando uno fa un sacco di soldi ma non sa bene cosa farsene è meglio che si prenda un periodo di tempo a pensare. E’ sbagliando nel prendere un treno a Milano che Claudio incontra quella che ora è sua moglie: come dargli torto se pensa che ogni cosa non accada per caso e che le vite degli uomini siano legate da fili invisibili, più sottili che bave di ragno? Con Cayo convola a giuste nozze secondo il modo “Shinto”, con due anziane in sontuosi chimoni che vestono lo sposo neanche fosse “su Componidori” della Sartiglia oristanese. Hanno una figlia: Sara di sette anni che studia alla scuola giapponese e a quella italiana di Milano. Che si è messa in testa di imparare anche a parlare in sardo. A Riola Sardo Claudio Carta sta rinaturalizzando una parte del canale che si butta nello stagno di Cabras, coi fenicotteri rosa che sono già ritornati a svernare, così come sono tornate le anguille e le vongole e i muggini. Ha in mente di far costruire due falaschi, quelle capanne di erbe palustri che ancora (poche) si possono vedere nelle spiagge di San Giovanni in Sinis. Ora è totalmente impegnato nell’associazione “Orto dei Sogni”e ha trovato in Giovanna Lai della Caritas di Oristano una persona che, come lui, pensa essere un corretto interagire con le persone l’unica cosa che effettivamente valga la pena di fare perché, in questa vita, ognuno di noi lasci dietro qualche cosa di sé che valga la pena ricordare. Pensieri che in genere si vanno maturando verso i sessantasei anni, lui ci è arrivato vent’anni prima. Sul mare di Marrubiu c’è questa struttura che può ospitare cinquanta bimbi, i quindici che arriveranno dal Giappone avranno la possibilità di coltivare l’orto ( e di goderne ovviamente i frutti) che Claudio si appresta ad organizzargli. Tutti si sono detti disponibili a dare una mano, dal sindaco di Marrubiu all’associazione Pesca, dalla Coldiretti al vivaio Mura, un’azienda che vanta per le sue operaie una sala antistress, tutti disposti a coccolare i piccoli ospiti. Che si devono rigenerare mangiando cibi che nulla abbiano a che fare con la chimica, respirando l’aria salmastra di iodio naturale , neanche lontano parente dall’isotopo che gira dalle parti loro, che faranno “il battesimo del cavallo” e berranno a fiotti il latte delle mucche d’Arborea. E , perchè no, verranno a Montevecchio a
vedere le vecchie miniere dove ha lavorato anche il nonno del vostro cronista. Se mentre faranno merenda i loro trilli gioiosi dovessero superare ogni decibel sopportabile ci penserà Sara, coi suoi sardismi già acquisiti: “Cittu e pappa” ( per i continentali e i giapponesi: zitto e mangia!), questo lei l’ha dovuto imparare per tempo.
DOPO I BAMBINI DI CHERNOBYL, ANDRANNO IN SARDEGNA ANCHE QUELLI DI FUKOSHIMA: IL CLIMA DELL'ISOLA PER "ALLONTANARE" LE RADIAZIONI NUCLEARI
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