di Paolo Pulina
Beniamino Ghiani, del circolo “Nuova Sardegna” di Peschiera Borromeo (MI), mi invita a chiarire il significato dei versi finali della poesia “Sardegna” di Vincenzo Cardarelli, da me ripubblicata su questo Blog. Provo a farlo, dando la mia interpretazione, che naturalmente è soggettiva.
Parto dagli ultimi tre versi:
Ma dimmi tu qual nome, se non Roma,
fa lampeggiare l’occhio
del tuo pastore.
Vediamo in che modo nelle strofe precedenti Cardarelli ha presentato l’ambiente di vita e di lavoro degli “antichi pastori” sardi:
[…]
la Barbagia granitica e selvosa,
[…]
E sul corso di un fiume assiduo e lieto
mi ritrovai fra la tua fiera gente
barbaricina,
che giù dal Gennargentu,
dove fra il bianco granito frondeggiano
le querce e l’elce nera,
calava un tempo
alla pianura fertile e fangosa.
Ti conobbi dovunque,
isola ardente e varia,
coi tuoi costumi, i tuoi canti ieratici.
[…]
Terra di vini forti,
patria di antichi pastori
[…]
Come interpretare dunque i tre citati versi finali? Cardarelli, che nel 1934 rielabora sicuramente sentimenti provati durante i suoi due viaggi in Sardegna del 1913, inviato da Roma dalla rivista “Il Marzocco”, secondo me vuol dire: “Dimmi tu, o Sardegna, quale nome se non quello di una città eterna come Roma può far brillare l’occhio dei tuoi pastori barbaricini, fieri della loro antica civiltà (che è stata capace di resistere anche alla colonizzazione romana)?”.
Sono andato a rivedere le precedenti varianti di questo blocco di versi pubblicate da Clelia Martignoni alle pagine 1126-1129 del volume cardarelliano dei “I Meridiani Mondadori”. Eccole:
[…]
[Sardegna,]dovunque ti conobbi.
E più a lungo indugiai
fra la tua fiera gente barbaricina,
di aulico sangue vandalo,
relitto romano,
che giù dal Gennargentu …
Naturalmente non ignoro che Vincenzo Cardarelli (Tarquinia, 1º maggio 1887 – Roma, 18 giugno 1959), come quasi tutti gli intellettuali italiani del tempo, pagò i suoi tributi all’ideologia del regime fascista e ai suoi simboli (scrisse anche una poesia dal titolo “Camicia nera”; collaborò con importanti periodici storico-letterari del fascismo: “L’Italiano”, rivista fondata nel 1926 a Bologna dal gerarca Leandro Arpinati e chiusa nel 1942 a Roma; “Primato”, rivista fondata nel 1940 dal ministro Giuseppe Bottai) ma mi sento di escludere che Roma, nel contesto di questi versi, rimandi ai miti imperiali del fascismo.
E veniamo ai penultimi tre versi, che non mi pare pongano particolari problemi:
E vidi Pisa,
là dove a un tratto sull’alpestre cima
due vecchie mura castellane, orrende,
rammentano il conte Ugolino.
Leggiamo del Castello del conte Ugolino in:
http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:56ueoMgPZ5gJ:web.tiscalinet.it/antarias/
+conte+ugolino+sardegna&cd=2&hl=it&ct=clnk&gl=it&source=www.google.it
«I ruderi dei muri perimetrali del Castello di Acquafredda sono la testimonianza di una struttura fortificata di epoca medioevale, che dista 4 km dal centro abitato di Siliqua (CA) e si innalza su di un colle di origine vulcanica sviluppandosi per un’altezza di 256 metri rispetto al livello del mare. […] Dal ritrovamento di una bolla papale, datata 30 luglio 1238, si ritiene che il castello esistesse già dal 1215, ma è opinione diffusa attribuire la sua costruzione al celebre nobile pisano Ugolino Della Gherardesca conte di Donoratico sin dal 1257, anno in cui divenne Signore della parte sud-occidentale della Sardegna dopo la caduta del Giudicato di Cagliari. Caduto in disgrazia, il conte fu imprigionato a Pisa nella torre dei Gualandi poi chiamata “Torre della Fame” dove morì nel 1288. Le vicende del conte Ugolino sono divenute famose grazie ai versi di Dante Alighieri nella Divina Commedia: “La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator…” che troviamo nel XXXIII canto della Cantica dell’Inferno».
Siliqua, sito ricco di storia, ma anche luogo caro ai poeti: oltre che a Cardarelli anche a Salvatore Quasimodo. Ma di lui parleremo in una prossima puntata.