di Alberto Mario DeLogu
F ino a pochi anni fa godevano di ottima salute. Erano festose Sardegne in miniatura, con tanto di maschie strette di mano, Cannonau, porcetti e gagliardetti del Cagliari calcio. Poi è cominciato il declino. Oggi, i pochi circoli degli emigrati sardi nei Paesi anglofoni – una decina su oltre centocinquanta nel mondo – attraversano una crisi epocale e forse esiziale. I corregionali emigrati negli anni Cinquanta e Sessanta invecchiano e muoiono. I loro figli, ormai più canadesi, americani e australiani che italiani o sardi, sono del tutto renitenti a prenderne il testimone. La Sardegna è lontana e non muove più i loro cuori né le loro menti. L’“associazionismo” è per loro culturalmente estraneo, e il tocco di medusa della burocrazia regionale ne fiacca le residue speranze. E non bastano i giovani sardi espatriati di recente, i pochi “cervelli in fuga”, a risollevare le sorti dell’emigrazione sarda. Più istruiti, meglio integrati e perciò meno bisognosi d’affidare le proprie nostalgie identitarie al circolo, se ne tengono ben lontani. Con encomiabile ostinazione la Regione Autonoma della Sardegna continua a sostenere economicamente i suoi circoli degli emigrati nella penisola e nel resto del mondo: nel bilancio di quest’anno sono previsti 4 milioni 500 mila euro. Eppure il modello culturale che informa la Legge Regionale N. 7 del 1991, tuttora pilastro legislativo dell’emigrazione sarda, è ormai obsoleto. Alla radice della sua filosofia vi è l’assunto, sempre più irrealistico nelle società moderne, che un’identità culturale si trasmetta col sangue e che la “sardità” risieda nel DNA e si trasmetta di genitore in figlio, alla stregua dell’emofilia o del favismo. Eppure, in una società multietnica, il chiamarsi Gavino Mulas o Antonio Sanna o Mariannica Concu non definisce un’identità sarda, mentre il chiamarsi Kayode Okeke o Pilar Nuñez non la esclude. Nei Paesi in cui viviamo, composti interamente di immigrati – chi giunto un secolo fa, chi un mese fa – l’identità non è un’“afflizione archivistica”, ma un caleidoscopio di colori, suoni e valori. Sin dalla scuola materna, i bimbi qui apprendono che il colore della pelle, il nome o l’accento sono del tutto irrilevanti. Ciò che conta è l’approdo comune: ha le fattezze di una foglia d’acero, o di un drappo a stelle e strisce, o di una Croce del Sud. Qui non ci sono i drammi identitari di molti figli d’immigrati in Italia. Non c’è nessuna possibilità d’errore: si è tutti canadesi, o americani, o australiani. Bastano pochi anni (tre in Canada, cinque in Usa e Australia) per ottenere la cittadinanza. Perciò la lealtà nazionale, nelle società multietniche, slitta rapidamente da una generazione a quella successiva. E perché non dovrebbe? Perché ci si dovrebbe sentire più cittadini di una terra remota e distante che di una terra ben presente, che ci accoglie, ci fa crescere e prosperare? Qui non si vive da perenni stranieri in paesi ancora pervasi del dogma ottocentesco della Patria “una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie, di sangue e di cor”. Lo ius solis delle società multiculturali crea scenari identitari del tutto diversi rispetto allo ius sanguinis della società italiana. Alla luce di questi nuovi scenari, la Legge Regionale 7 rivela un’impostazione tendenzialmente discriminatoria e velatamente razzista. Nelle civiltà multietniche i vecchi circoli degli emigrati sardi sono destinati a scomparire nel volgere di una o due generazioni. Le loro strutture etnocentriche, se non verranno liberate dalla camicia di forza dell’identità de sambenadu e affrancate dal burocratismo asfissiante, non resisteranno a lungo.
Più a lungo si terrà la Legge 7 sotto respiratore artificiale, più si disperderà il patrimonio di genuino attaccamento che molti “stranieri” dimostrano nei confronti della Sardegna, contribuendo con entusiasmo a diffonderne la cultura, acquistarne i prodotti, impararne la lingua, o semplicemente pensarsi sardi a dispetto di tutti i pedigree. Nel mondo multietnico di domani l’identità sarà un sentimento fluido, non esclusivo, frutto di libera scelta e adesione, non settario né discriminatorio: un “viaggio identitario per il cittadino globale”. Questa è la direzione verso cui va il mondo. Non un mondo privo d’identità. Al contrario: un mondo di identità plurime, ognuna delle quali esce rafforzata dallo scambio e dal confronto. Il modello monoculturale ha ormai i mesi contati. Restarvi asserragliati nel nome dell’identità è il peggior regalo che la Sardegna di oggi possa fare a quella di domani.
* pubblicato sul quotidiano Unione Sarda nel 2010