di Massimiliano Perlato (nella foto… la "redazione" di Tottus in Pari in visita ad una miniera sarda)
Nel 1837 i debiti di Honorè de Balzac erano arrivati alla ragguardevole somma di 200mila franchi. La Sardegna fu il tentativo estremo di raddrizzare una situazione disperata. Forse la Sardegna non era l’Eldorado, ma c’era abbastanza argento da potersi arricchire. Nel sud dell’isola nei dintorni di Iglesias, la vena di galena argentifera correva qualche centinaia di metri sottoterra e in certi punti addirittura affiorava. Argento c’era anche nel nord, nella Nurra, in un giacimento sfruttato sin dall’antichità e ora abbandonato. L’attività di secoli aveva lasciato montagne di scorie che, eccitavano le più disparate fantasie. Honorè de Balzac giunse ad Alghero pensando che fosse un ottimo affare sfruttare le scorie d’argento sardo e la prima tappa fu la Nurra, dove però scoprì che la concessione per lo sfruttamento delle scorie era stata già ceduta. A cavallo puntò a Cagliari. Nel capoluogo gli venne data una notizia che era una mazzata: solo il 10% delle scorie a cui aveva puntato era piombo, e solo il 10% di quel piombo era argento. Per ricavare qualche chilo d’argento da quelle montagne di scorie ci sarebbe voluta una fortuna. L’avventura sarda di Balzac si concluse in un’ultima settimana a Cagliari, in attesa che la fine del cattivo tempo consentisse alla sua nave di partire per il Continente, senza soldi, amareggiato per il fallimento. Non a tutti, però, andava come a Balzac. A partire dal 1848 si ebbe un vero e proprio boom degli investimenti minerari. Il volume della produzione crebbe di quasi 10 volte e crebbe da 616 a 9171 il numero degli operai occupati. Ad investire erano genovesi e piemontesi e, tra gli stranieri, belgi, francesi e inglesi. I sardi erano presenti nella prima fase, la ricerca, ma poi la concessione ottenuta veniva ceduta a società di fuori. Con i prezzi del piombo e dello zinco in forte crescita, c’erano soldi da fare con le miniere sarde. Ma ai sardi toccava stare a guardare o al più, prendersi le briciole. Non a Giovanni Antonio Sanna, però, che di stare a guardare non aveva nessuna intenzione. Sanna cercò di riattivare la miniera di Montevecchio, ma quando si sarebbe trattato, come da copione, di lasciare le cose alle "mani forti" (investitori francesi e genovesi), lui mantenne il controllo della società. I metodi erano discutibili come la gestione. I suoi migliori anni (Sanna morì nel 1875) comunque furono dedicati, con successo, a risanare e ristrutturare la Montevecchio. La vicenda di Sanna mostrava tutte le difficoltà e le strozzature a cui era sottoposta l’intrapresa mineraria in Sardegna. Un percorso ad eliminazione lungo il quale quanto più si procedeva nella catena della produzione – lavorazione – commercializzazione tanto maggiori erano i problemi e più impegnativi gli investimenti. Dalla ricerca alla concessione, dall’estrazione del minerale al suo trasporto, e poi la cernita, il lavaggio, la fusione e non ultimi i problemi legati alla vendita del minerale e alle forti oscillazioni dei prezzi di minerali e metalli sul mercato internazionale: una corsa ad ostacoli in cui ad ogni ostacolo cadeva qualcuno, laddove cadere significava vendere a un concorrente più grosso. Gli ultimi decenni del secolo assistono ad una concentrazione dell’attività nelle mani di alcune grandi società: la "Monteponi" di un gruppo di azionisti torinesi che per lustri arriverà a produrre più di un quarto del piombo italiano; la belga "Vielle Montagne" che privilegiava la produzione dello zinco; le francesi "Malfidano" e "Gennamari-Ingurtosu" e l’inglese "Gonnesa Minino Company". Così l’attività mineraria conobbe in Sardegna un vero e proprio boom, senza che i sardi vi avessero parte. Non vi erano fonderie in Sardegna e il minerale, dopo essere stato sottoposto a cernitura e lavaggio, lasciava l’isola. Mancavano strade e ferrovie tra i pozzi e il mare. Dalle miniere al punto d’imbarco, costava quanto dalla Sardegna all’Inghilterra. Il trasporto del minerale comportava costi e investimenti aggiuntivi, tutt’altro che esigui. La "Malfidano" costruì la strada che portava da Buggerru alla miniera. Così la "Monteponi" fece le ferrovia Portovesme – Gonnesa. E poi la Sciria – San Gavino. A giustificare la scarsa presenza di sardi nell’industria mineraria che prosperava in casa loro, le difficoltà locali di manodopera, unite alle intemperie. Alla fine del 1800 il valore della produzione mineraria crebbe inesorabilmente. Un fiume di denaro che si trasformava in profitti e dividendi ma che alimentava anche un notevole flusso di salari e stipendi. Circa tre quarti degli operai erano sardi, mentre l’altro quarto era formato da piemontesi, toscani e bergamaschi. In gran parte minatori esperti quelli continentali, mentre ai sardi erano riservati ruoli di manovalanza: carriolanti, addetti alla cernita e al lavaggio dei minerali, legnaioli. C’era una precisa gerarchia, di funzioni e di salari, nella miniera. Nel gradino più basso i ragazzi addetti alla cernita del minerale. Poi venivano i manovali dei piazzali con un salario sino a 3 volte superiore a quello dei ragazzi. Infine, con un salario doppio di quello dei manovali, i minatori e i falegnami che armavano le gallerie. Queste due ultime categorie erano formate da continentali. La spiegazione più diffusa recitava che i sardi non erano abbastanza forti e robusti per le mansioni più dure, quelle legate allo scavo, né avevano la perizia necessaria. Fu forse in omaggio alla intelligenza e alla perfettibilità dei sardi che nel 1872 venne aperta ad Iglesias una scuola mineraria. Le miniere di piombo e di zinco dell’Iglesiente pescavano su un bacino di reclutamento corrispondente in pratica a tutta l’isola. Furono varie decine di migliaia i pastori e i contadini sardi che nell’ultimo trentennio del secolo accorsero nel bacino minerario dell’Iglesiente, ma furono ancora di più coloro al cui orizzonte esistenziale la miniera si presentò anche solo come una possibilità e una speranza. Anche la miniera, comunque, così come in certi momenti sembrava potesse assorbire chiunque, in altri respingeva coloro che considerava di troppo. Una oscillazione governata da un meccanismo tanto astratto e distante – il fixing del prezzo del piombo e dello zinco sul mercato di Londra – quando crudelmente presente alla vita dei minatori. Si aprivano nuovi pozzi, se ne riattivavano altri ormai abbandonati. I prezzi scendevano? I pozzi venivano chiusi. Dopo il boom dei prezzi del piombo e dello zinco erano venuti i tempi duri. Una ripresa impetuosa ci fu dopo il 1903. Nei punti bassi del ciclo, le grandi società, diversamente dalle piccole, non chiudevano. La loro risposta alla caduta del prezzo dei minerali era solitamente il taglio dei costi di produzione, la riorganizzazione del lavoro. In termini più espliciti: diminuzione dei salari, allungamento degli orari di lavoro ma anche l’instaurazione del sistema delle "cantine" per cui gli operai erano costretti a spendere i loro salari in spacci gestiti dalle società stesse. Se l’andamento del ciclo imponeva tagli di salari e licenziamenti affinché le miniere potessero rimanere aperte, ciò avveniva per leggi di mercato, che notoriamente non erano leggi compassionevoli. La situazione era dura con salari bassi e orario lungo? Provassero gli operai a tornare nei paesi per vedere se pote
vano trovare qualcosa di meglio.