di Mariella Cortès
Il troppo storpia. Ma con eccezioni. Nel caso della Cecchina di Piccinni è proprio nell’eccesso,o meglio, in uno dei suoi dettagli che sta la chiave di lettura. Il Teatro "La Fenice" di Venezia fa debuttare a Sassari l’opera goldoniana musicata da Piccinni nel 1760 in un nuovo allestimento che la trascina in pieni anni Venti. Ecco allora charleston, paillettes, caschetti cortissimi, città zeppe di ponti di ferro e piccole botteghe. Aggiungeteci un marchese/regista cinematografico che costruisce la sua storia d’amore come se fosse un film e lo proietta mentre confida i suoi sentimenti all’amata , una marchesa che strizza l’occhio a Crudelia Demon e il gioco è fatto. Quasi. Perché in realtà nella trasposizione in età recenti del dramma giocoso, già di per se straordinariamente attuale per il linguaggio e per caratterizzazione dei personaggi, il regista Francesco Bellotto aggiunge una figura non prevista da Piccinni: un barbone. Proprio in quel mendicante che ci si aspetta inizi a cantare da un momento all’altro ma che invece rimane muto per l’intera rappresentazione, sta il senso dell’opera. Spettatore silenzioso che vive sotto il ponte e rimane immobile durante gli assoli, accogliendo magari i personaggi sotto il suo "tetto" e che invece diviene personaggio buffo nei cori e negli intermezzi di alcuni personaggi. Quasi una trasposizione dei sentimenti e delle passioni. Ma andiamo con ordine. La Cecchina di Piccinni è purtroppo un’opera poco conosciuta facente parte dell’immenso repertorio che Goldoni, firmando con il nome arcaico di Polliseno Fegejo, scrisse per la lirica. La trama è quella tipica e strappalacrime del melodramma settecentesco: una trovatella, Cecchina, viene accolta da una famiglia nobile e ne diviene la giardiniera; qui subirà le angherie delle due perfide cameriere, Sandrina e Paoletta che tentano di metterne in cattiva luce la grande bontà d’animo; riceve inoltre le attenzioni di Mengotto, il fattore e quelle del padrone di casa, il Marchese della Conchiglia. Si tratta però di una serva e il marchese non può sposarla, sia per etichetta sociale sia per il legame della sorella con il militare Armidoro che mal sopporta tale sentimento. A cambiare le carte in tavola è l’arrivo di Tagliaferro, bizzarro soldato che in un italiano tedeschizzato rivela le origini nobili di Cecchina, il cui vero nome è Marianna, legittimando in questo modo il matrimonio tra il padrone e la giardiniera. Come da melodramma settecentesco, alla fine l’innocenza e la bontà prevalgono sulle invidie e sulle gelosie delle due cameriere e dello stesso Mengotto che accetterà infine la proposta di matrimonio di Sandrina, sua vecchia amante.
La storia della Cecchina viene dal romanzo di Samuel Richardson "Pamela, or Virtue Rewarded (Pamela, o la virtù ricompensata). Il libretto capitò nelle mani di Piccinni che lo mise in scena facendolo debuttare, in uno scroscìo di applausi, al Teatro delle Dame di Roma il 6 febbraio 1760. L’opera, realizzata in soli diciotto giorni, venne replicata quasi senza interruzioni sino alla fine del XVIII secolo. La versione inedita e completamente originale del regista Francesco Bellotto nell’allestimento della Fenice di Venezia debutta a Sassari con le pompose scene di Massimo Checchetto traboccanti di riferimenti al cinema delle origini, ai virtuosismi della camera da presa e ai "costumi" tipici dei divi e delle dive della pellicola anni Venti. In scena un cast sorprendente di artisti tutti dotati di una fortissima carica espressiva ma non tutti convincenti in timbro e vocalità. La soprano Gabriella Costa nel ruolo di Cecchina non delude il pubblico sassarese ma a catturarlo è il soprano Sandra Pastrana nel ruolo di Armidoro. Graditissimo e brillante il ritorno sulle scene del Teatro Verdi, a distanza di pochissimo tempo ( già nel ruolo di Tisbe nella Cenerentola) del talentuoso mezzosoprano Francesca Pierpaoli, ottimo mix di drammaticità e vocalità ora nel ruolo di Paoluccia, cameriera di colore che ricorda la famosa Mamy di "Via col Vento". Interessante ma non convincente dal punto di vista vocale il tenore Domenico Menini nel ruolo del Marchese della Conchiglia mentre, seppur eccessiva nei virtuosismi tecnici, da lode l’interpretazione della soprano Tamoko Masuda, la Marchesa Lucinda. Tanti gli applausi del Verdi per i due buffi, il baritono Fabio Previati (Mengotto) e il basso Omar Montanari (Tagliaferro). L’opera però ha lasciato scettico il pubblico sassarese: colpa forse della trasposizione moderna o dell’eccessivo carico di riferimenti cinematografici. Di fatto, l’allestimento del teatro "La fenice" è sicuramente intrigante. C’è la passione dello sperimentalismo cinematografico dei primi anni e il tentativo, ben riuscito, di coniugare le due messe in scena, cinematografica e teatrale. C’è un uso sapiente degli spazi di cui i personaggi si appropriano completamente facendo propria la scena. In questo movimento continuo rimane però fedelissimo il riferimento al sentimento puro, all’innocenza e alla bontà, come da manuale melodrammatico e a sciogliere il nodo sarò proprio quel mendicante muto che, da buon Cupido quale si rivelerà, agendo sotto gli occhi di tutti senza che nessuno lo noti, intreccerà i fili delle vicende amorose.