Tottus in Pari, 267: una storia femminile

"Me lo portarono a casa un mattino di giugno, spoiolato e smembrato a colpi di scure come un maiale… Lo stesi sul tavolo di granito del cortile, quello che usavamo per le feste grandi, e lo lavai col getto della pompa… Ptù, maledetti siano quelli che gli hanno squarciato il petto per strappargli il cuore con le mani e prenderlo a calci come una palla di stracci!" Il famoso incipit de "La vedova scalza", best seller di Salvatore Niffoi ha riaperto negli scorsi anni il discorso legato alla figura della donna in Sardegna. Una figura portante in una società eminentemente matriarcale che rivendica radici ben più profonde. Va precisato che, a partire dai primi anni del Novecento si diffuse a livello nazionale un vero e proprio "mito" della donna sarda anche grazie all’esposizione della celebre scultura di Francesco Ciusa dal titolo "La madre dell’ucciso" in occasione della Biennale di Venezia del 1907. Di lì a breve, si susseguirono una serie di importanti figure femminili che rivendicarono la propria posizione nella storia e il loro ruolo di cardini della società sarda. Purtroppo, come sottolinea Joyce Lussu, tra Otto e Novecento buona parte degli studiosi e dei letterati che scriveva delle donne sarde,  incappava nel "mito del matriarcato". La maggiore libertà spaziale femminile, i ruoli di autorità e di prestigio delle donne, erano in larga parte dovuti ad uno stato di necessità, come quello che aveva prodotto analoghe condizioni nelle comunità marinare e nelle società mercantili-manifatturiere. Questo ne faceva delle donne di polso in grado di gestire situazioni difficili e di portare avanti da sole un’intera famiglia. Ma non si tratta solo di un gusto esotico eminentemente letterario bensì di una lunga tradizione storica e antropologica che vede sin dai primi secoli della storia dell’Isola, la donna al centro della società. A parlarci sono le statuette della dea madre lasciate come segno di devozione in siti di epoca prenuragica e i  relativi culti; ancora gli oggetti della tessitura e delle filatura, gli aghi d’osso e le ceramiche tipici delle attività femminili. Nella  Sardegna giudicale vi sono diverse vicende che vedono protagoniste le donne: se è notissima la figura della carismatica Eleonora d’Arborea che donò alla Sardegna il primo codice statutario in senso moderno meno conosciuta e soprattutto svalutata è quella di Adelasia di Lacon Gunale, ultima giudicessa di Torres che incappando in una serie di vicende sfavorevoli, di natura politica e personale, vide sgretolarsi il suo regno senza poter far nulla.  Vi sono poi tutti quei saperi nascosti delle donne sui quali ampiamente si dilunga Eugenia Tognotti. La buona massaja o meri ‘e domo conosceva i rimedi naturali per risolvere diversi problemi di salute e sapeva utilizzare le erbe officinali. Se questa conoscenza portò molte donne sul rogo dell’inquisizione, ne fece altresì oggetto di studio di molti viaggiatori Ottocenteschi che, giunti in Sardegna, mettevano in evidenza la profonda conoscenza di piante e metodi di guarigione che non implicavano l’intervento medico. E infatti il ruolo di "supplenza sanitaria" delle donne durò a lungo: basti pensare che mentre si festeggiava l’Unità d’Italia, la Sardegna contava ancora 105 comuni privi di qualunque servizio sanitario e 310 senza farmacia. Altro discorso riguarda invece le levatrici, la cui prestazione, extradomestica e retribuita venne via via assottigliandosi incorrendo in lunghe pratiche burocratiche già nel 1700. La diatriba tra medici e levatrici proseguì per tutto l’Ottocento dando ai primi l’arma delle nuove scoperte chimiche e alimentandosi in riviste come "Sardegna Medica" o "Il farina" nelle quali medici e professionisti denunciavano il fatto che un ramo tanto importante della medicina fosse in mano alle donne! . L’apertura a Sassari nel 1886 della prima Scuola di Ostetricia fu una grande conquista che, seppur lentamente, avvicinò le donne al mondo della medicina e dell’università in generale che fino ad allora era stato quasi prevalentemente maschile. Nel Novecento alle attività prevalentemente femminili, le donne inizieranno, con l’apertura delle fabbriche e i movimenti femministi ad imporsi in contesti lavorativi in cui il loro accesso era precluso. Ad una letteratura e poesia che aveva dipinto la donna sarda lungi dalle visioni classicistiche e stilnoviste, come figura in grado di incarnare l’appartenenza al luogo d’origine come perfetta custode del passato e vigilatrice silenziosa del presente si affiancano  diverse produzioni tutte al femminile che a fine Ottocento mettono al centro la figura femminile. Valga per tutti l’esempio del premio nobel Grazia Deledda che uscì dal focolare domestico per raccontarlo al grande pubblico mentre invece dal punto di vista giornalistico è interessante il "periodico mensile femminile", come riportato in testata, fondato e diretto dalla signora Maria Manca, "La Donna Sarda". La rivista non comprendeva solo scritti letterari ed esercizi di bella scrittura ma era un eccellente veicoli di discussione, promozione e scambio di nuove idee tutte al femminile. Nata a Cagliari nel 1898, è l’emblema di un mondo che cambia e che vede l’esigenza di una crescita mentale e culturale che deve coinvolgere le donne. Tutte le donne. Una sottolineatura dovuta se si rilegge la frase che capeggiava qualche anno prima dell’uscita della "Donna sarda" su un’altra rivista, sempre sarda del 1875,  "La donna e la civiltà": "Le donne devono unirsi in un unico scopo, il quale sia l’istruirsi e l’educarsi sempre più, per poter ben governare ciascuna la propria famiglia ed essere generose, giuste e imparziali con essa".

Mariella Cortès

 

CONVEGNO DEL "MARIA CARTA" DI BERGAMO "DONNEMIGRANTI"

NOI DONNE, LA VERA FORZA DEI MIGRANTI

Lei, sarda, da 50 anni in Belgio, si chiama Anna Maria Sechi: dice che non dimenticherà mai quando, insieme a sua ma
dre, le presero le impronte digitali, come se fosse un criminale. "Questa fu la prima di una serie infinite di ferite. Come quando partorii la mia prima figlia, morta per mancata assistenza dell’ostetrica, che mi liquidò con un… voi italiane sapete solo urlare. A causa delle tue urla hai soffocato tua figlia" – continua -. "Ricordo le nostre case, assegnate dalle società minerarie ai migranti italiani: in vicoli ciechi, senz’acqua potabile, senza bagni. Ma siamo state noi donne, pilastro delle famiglie dei migranti, a fare la differenza: chi, tra i nostri uomini superava i primi anni di lavoro in miniera obbligatori per conservare il permesso di soggiorno, veniva sostenuto dalle mogli nella ricerca di un nuovo posto di lavoro, qualcosa di meno aberrante. L’Italia non dimentichi le sofferenze passate dai suoi migranti, trattando come tratta gli stranieri". Da Anna a tante altre storie di donne, italiane e straniere, perché si sappia che la grande storia è soprattutto opera di donne silenziose e dalle quali mai si parla: questo l’obiettivo, centrato, dell’incontro "DonnEmigranti" organizzato alla Casa del Giovane a Bergamo dal circolo culturale sardo "Maria Carta" e sostenuto dall’Ente Bergamaschi nel Mondo.  "L’integrazione si fa ricordando sempre le proprie radici e mantenendo anche altrove, la memoria delle proprie tradizioni – ha sottolineato il direttore dell’Ente, Massimo Faretti -. Dalla lingua ai dialetti: molti italiani nel mondo hanno conosciuto altre regioni d’Italia mai viste proprio attraverso le tradizioni conservate da altri emigranti. Anche questo è multiculturalità". Avviene tra regioni d’Italia e all’estero e tra Paesi del mondo rappresentati in Italia, a Bergamo. "Sono Naoual, sono musulmana e sono una studentessa universitaria", è questo che risponde Naoual Razik, quando le si chiede se si sente più italiana o marocchina. Naoual, 23 anni, arrivata in Italia all’età di 12 anni con la madre e i fratelli per ricongiungersi al padre, si sente perennemente in bilico, alla ricerca della propria identità. Condizione che la accomuna a molti altri giovani, le seconde generazioni. "Ho dovuto impormi per essere accettata dai compagni nello studio ho trovato l’arma per il mio riscatto. Ma l’Italia, Bergamo, ignora la imponente realtà del mondo dei figli dei migranti". Anche per una keniota come Sarah Nkarichia, 43 anni, giunta 19 anni fa a Bergamo è stato lo studio la chiave maestra per l’integrazione: "Dovevo solo fare tappa qui da amici e andare in America a studiare, invece sono rimasta. Non è stato facile: il cielo plumbeo, la diffidenza, le difficoltà della lingua. Ma ho fatto bene a restare: ora mi laureo in Scienze dell’Educazione, con una tesi sull’immigrazione keniota in Lombardia. Il dialogo è importante per scacciare la paura del diverso: siamo tutte persone. E le donne sanno dialogare". Ma dire donna è dire soprattutto amore: c’è chi è emigrata per seguire il suo uomo. Per esempio Emilia Stoica e Amanda Estrada, rispettivamente romena e colombiana. Emilia, laureata in ingegneria meccanica, ha conosciuto Giuseppe nel 1993. Non avrebbe mai immaginato di poter lasciare il suo Paese, anzi, guardava con perplessità tutte quelle persone che emigravano. Invece, dal 1995 si è sposata e si è trasferita in Italia. "E ho studiato questo nuovo Paese, e i bergamaschi. Ma non ho dimenticato le mie origini: aiuto i romeni a integrarsi". Amanda Estrada, che oggi è presidente di un’associazione colombiana a Bergamo, ha seguito qui l’innamorato: "Ho capito che per farmi accettare qui, dovevo conoscere le vostre tradizioni, anche culinarie. Ho imparato le vostre ricette da mia suocera, a lei proponevo le nostre. Tutto è stato più facile". Invece Ampy Delos Reyes, che è filippina, mediatrice culturale, gestisce insieme al marito un bar tabacchi a Bergamo, è venuta in Italia per curiosità: "Da cattolica, volevo visitare San Pietro: su consiglio di un’amica sono arrivata a fare la domestica a Roma. Poi ho fatto tanti viaggi: in Germania ho conosciuto il futuro marito, bergamasco e sono venuta qui. E’ vero: siamo noi donne la spina dorsale delle migrazioni, ci adattiamo a luoghi e usanze nuovi". Anche Satoko Nagashima, giapponese, è arrivata per motivi religiosi: voleva approfondire la sua conoscenza della cultura cristiana. Nel 1981 è partita come missionaria laica con la Federazione Famiglia Pace nel mondo. Nata come buddista, il suo avvicinamento e la conversione al Cristianesimo è avvenuta anche grazie al marito, conosciuto in Germania: "Così, da migrante, donna e soprattutto cristiana, io ho avuto una rinascita". Ma lasciare la propria casa spesso è fuggire dalla paura, a seguito dei propri parenti: lo ricorda Candelaria Romero, attrice, che si dice migrante nel dna; la sua famiglia, originaria dell’Argentina, è emigrata in Bolivia a seguito della dittatura e, da lì, è fuggita nuovamente a causa della nascente dittatura nel 1979, rifugiandosi in Svezia. Figlia di artisti – i genitori sono entrambi poeti – Candelaria si è diplomata alla Scuola d’Arte di Stoccolma. Ha iniziato a peregrinare tra Spagna, Inghilterra e Danimarca finchè nel 1992, si è iscritta a un corso di teatro-danza a Bergamo. "Sono le donne, la forza che dà il cibo ai più piccoli, a saper resistere nelle realtà complesse delle migrazioni". Che sono difficili anche senza varcare frontiere, all’interno di uno stesso Paese. Lo ha evidenziato Federica Sposi, 34 anni: da Roma, si è trasferita a Torino. Fresca di laurea il Lettere antiche, supera un colloquio per entrare in una ditta che fornisce servizi ai Tribunali penali. Il posto a Roma non c’era, le viene proposto Torino: "Tra nord e sud ci sono differenze, diversi stili di vita, di pensiero. Grazie al coraggio, ce l’ho fatta". Come ogni donna, a ogni latitudine.

Carmen Tancredi

 

VIAGGIO A 360 GRADI NELL’UNIVERSO FEMMINILE

LA DONNA,VERA ANIMA SARDA

Alcuni concetti si stanno affermando concordemente fra gli studiosi e le persone colte. Uno di questi è che gli uomini siano stati nelle grandi linee, con i condizionamenti del paese d’origine e dell’epoca, sempre gli stessi. La donna è come l’uomo un essere ragionevole e sensibile, ma si è spesso trovata in una situazione di dipendenza e di essere, o addirittura sentirsi, inferiore all’uomo, essendo obiettivamente più debole e più portata al sacrificio, nella dedizione al marito, ai figli, ai genitori e anche ad estranei. Non si terrà conto delle donne malvagie, a volte vere e proprie streghe, intese come persone atte a fare il male e a danneggiare gli altri nei loro progetti di benessere materiale e morale, ma solo della maggioranza delle figlie, fidanzate, mogli, madri, zie, nonne, donne in carriera e quanto altro, che nei loro limiti, in questo non certo da meno degli uomini, hanno contribuito e contribuiscono a far andare avanti la famiglia, la società e le istituzioni. Siamo purtroppo consapevoli che la presunta superiorità del maschio nella specie umana è attualmente non di rado espressa in violenza e possesso, talvolta in disprezzo, mentre è venuta a mancare la forza protettiva. Vi
rtù e conoscenza rendono in ogni modo l’umanità più civile e meno brutale e, tornando indietro nel tempo, sembra che queste capacità non mancassero ai Protosardi. Estremamente importante il ruolo della donna: il simbolo è la figura della madre con la mano destra alzata in atto di preghiera-saluto e il figlio morto o gravemente malato in grembo, resa con grande drammaticità nel famoso bronzetto di Urzulei, conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, denominato "madre dell’ucciso". Fa venire in mente, con le debite proporzioni e prospettive storiche, la Pietà di Michelangelo. L’attività della donna di allora era legata al focolare, come in tutte le società preindustriali, e inoltre alla cura della crescita e all’educazione dei bambini, alla produzione di vasellame, alla raccolta di frutti e erbe selvatiche e all’allevamento degli animali da cortile. Il suo ruolo nella famiglia e la sua affettività erano grandemente considerati. La solennità e la fierezza della donna sarda, ben inserita nel suo contesto tribale, rende acuto il contrasto con la donna attuale, spesso sola e costretta in parti di donna-oggetto, che finisce per sminuire la propria potenzialità. La vita di allora era comunque senz’altro più difficile dell’attuale, l’economia e la medicina meno sviluppate, le carestie e i combattimenti assai frequenti, gli oggetti di consumo infinitamente più rozzi e poveri. Le possibilità di variare i propri compiti erano limitate al minimo, perché la società era più semplice dell’attuale. I bronzetti e le statuette in argilla raffigurano donne d’alto rango, vestite con lunghe tuniche e avvolte in scialli e mantelli, e donne di bassa estrazione, vestite con tuniche più corte, che recano in testa ceste o anfore. Non mancano alcune figure di sacerdotesse con cappelli a punta e larga falda, coinvolte in gesti di preghiera e di adorazione nei confronti di divinità da identificare nelle forze della natura, come acqua, fuoco, cielo, toro. Ci si può fare un’idea dell’esistenza delle donne dell’età del bronzo e del primo ferro con la lettura dell’Odissea, che narra le gesta di Ulisse, vissuto contemporaneamente ai Nuragici. Ulisse, come altri Greci, Etruschi, Egiziani, era un navigante e non è improbabile che anche i Protosardi andassero per mare, con tutte le conseguenze che la marineria comporta. È invece più che verosimile che le donne restassero a terra, perché erano legate alla famiglia, alle incombenze domestiche e al bestiame. Andava per mare una minoranza di uomini validi, altri praticavano la transumanza, come Ulisse andavano incontro a pericolose avventure, forse come lui volevano tornare al loro villaggio. Tornare alla loro vita, semplice solo in apparenza, alle donne scelte per compagne, ai figli, ai cani, alle mandrie. Allora il villaggio costituiva un microcosmo e si era ben lungi dal "villaggio globale" in cui siamo destinati a vivere. La donna in epoca nuragica lavorava in casa, e lo evidenziano gli utensili individuati come accessori: le fusaiole, le macine per il grano, le stoviglie; sono stati trovati anche alcuni specchi ovali in lamina di bronzo, talora finemente decorati, collane in vaghi di bronzo e di ambra, braccialetti in argento e bronzo. Le relazioni amichevoli e gli scambi con i popoli insediati sulle coste del Mediterraneo, attestati da ceramiche e bronzi sardi in Etruria e nelle isole Eolie e da oggetti di importazione in Sardegna, che dovevano ruotare intorno alle materie prime presenti nell’isola e ai suoi approdi lungo le coste, favorirono incontri fra donne sarde e stranieri e non sono improbabili contratti matrimoniali politici per ingraziarsi i principi forestieri. La donna, tradizionalmente portatrice di cultura, intesa come trasmissione di usi e costumi, ovvero in senso antropologico, contribuì in tal modo a formare un clima d’internazionalità e di tolleranza reciproca, presto interrotto dal sorgere degli imperialismi di Cartagine e Roma. Per concludere, quindi il ruolo della donna nella civiltà nuragica fu molto incisivo e aveva compiti differenti rispetto all’uomo. Il suo potere però era limitato alla casa e a responsabilità tribali ben precise, mentre il potere "politico" era senza dubbio, come testimonia Omero, in mano a uomini guerrieri. Allora la politica era strettamente legata al comando militare e quindi più consona alla determinazione e all’aggressività maschile. Le donne sarde, nel corso dei secoli, sono state veramente "isola nell’isola"? Probabilmente sì, ma insularità non significa solo isolamento: indica una particolare forma di cittadinanza, sarda e femminile, che ha portato, nel personale e nel pubblico, alla realizzazione di importanti processi di auto-identificazione e di crescita. La storia dell’emancipazione femminile è stata spesso dolorosa non solo in Sardegna ma nel meridione, dove le condizioni economiche e sociali hanno imposto tempi di crescita più lunghi che altrove. Il fascismo aspirava a dare della situazione italiana un’immagine omologata e patinata. Le donne antifasciste venivano emarginate, come risulta dai documenti della Polizia che, anche quando si riferivano a donne, venivano compilati al maschile e dal fatto che negli stessi documenti venivano spesso definite "donnicciole" quelle che partecipavano alle numerose manifestazioni antistatuali, o per chiedere "pane e lavoro" o per protestare contro le tasse. Vere storie singolari di donne che hanno vissuto sino in fondo la propria militanza antifascista: sarde e non come, tra le altre, Mariangela Maccioni, Graziella Secchi, Antonietta Pintor Marturano, Nadia Spano, Bianca Sotgiu, Joyce Lussu. Diversi studi hanno evidenziato quanto siano complicati e ambivalenti i processi di crescita verso la modernità. Sul piano del costume, si sottolinea la difficoltà della donna sarda quando ha iniziato a vestire alla "cittadina", mettendo in ridicolo la vita paesana, vagheggiando la vita continentale. A dimostrare ciò è una famosa rappresentazione letteraria, "Cosima", il romanzo postumo di Grazia Deledda. In esso vengono descritte 2 fotografie: la prima contiene un’immagine della scrittrice corrucciata, "sarda", la seconda un’immagine urbana, costruita sui modelli propositivi. Anche le artiste sarde, in contesti diversi, hanno sperimentato la difficoltà di affermare se stesse in un mondo che privilegiava la creatività maschile. Edina Altea si è proposta con un’immagine di una donna bambina, autodidatta, legata alla raffigurazione di temi sardi, in un’epoca in cui l’industria culturale nazionale esigeva un’immagine della Sardegna primitiva e selvaggia. Francesca Devoto, invece, ha proposto un’immagine diversa, seria e introspettiva, quasi maschile. Il processo che ha portato le donne sarde da un ruolo tradizionale (in cui lo spartiacque tra il maschile e il femminile era netto, e alle donne veniva riservata la sfera della "domesticità") a una difficile modernità, è stato lungo. Il doppio ruolo, la doppia presenza, anzi le "molte" presenze, dal momento che molteplici e incerti sono i modelli di riferimento. In Sardegna è stata decisa la rottura con il mondo tradizionale contadino avvenuta negli anni Cinquanta con un atto di disobbedienza, quando le ragazze hanno detto "no" alla famiglia patriarcale e "sì" alla scuola ed al lavoro non contadino. Si vedono di conseguenza donne impegnate direttamente nell’emigrazione, nella lotta al fascismo e al nazismo, nella partecipazione attiva alla vita politica nel periodo della Costituente. Nel delicato momento storico che l’Italia attraversa, le donne possono lasciarci una eredità ma non il testimone, perché nella storia le donne e gli uomini entrano non con un passepartout ma con una forte esperienza di sé.
Massimiliano Perlato

 

GLI ATTI DI UN CONVEGNO PAVESE IN RICORDO DI PEPPINO MAROTTO

NE PARLANO OSVALDO GALLI, PAOLO PULINA E SALVATORE TOLA

Dalle pagine degli atti, da poco pubblicati,  del convegno su Peppino Marotto, tenutosi a Santa Cristina e Bissone (in provincia di Pavia) il 18 maggio 2008, proponiamo le relazioni di Osvaldo Galli, presidente del Museo Contadino della Bassa Pavese,  e di Paolo Pulina. Dalla rubrica "Libri" del quotidiano di Sassari "La Nuova Sardegna" riprendiamo la scheda bibliografica degli atti  curata da Salvatore Tola.

SANTA CRISTINA E BISSONE E PEPPINO MAROTTO

Peppino Marotto è stato tra di noi per un breve periodo, a calcare e a lavorare la nostra terra,  ma questo è sufficiente affinché il nostro Museo Contadino della Bassa Pavese lo ricordi;  perché il nostro Museo non è solo un luogo per esporre attrezzi e strumenti di lavoro dei nostri contadini, ma anche, e, soprattutto, un luogo dove si ricerca, si racconta e si studia il mondo contadino, e più in generale la cultura che in diversi modi si riallaccia alla tematica della società contadina.

Quando ho letto la frase di Marotto riportata da Pulina nel suo articolo che abbiamo pubblicato nel sito Internet del nostro Museo  e nel n. datato gennaio-marzo 2008 del nostro Notiziario ("Una cosa mi mancava: il calore della mia gente… Qui ad Orgosolo ero conosciuto come dirigente politico, già l’essere emigrato mi sembrava una fuga…"), mi è venuto in mente l’attacco di una canzone di Francesco Guccini, dal titolo Vorrei che fa così:

…..Vorrei conoscer l’odore del tuo paese, / camminare di casa nel tuo giardino, / respirare nell’aria sale e maggese, / gli aromi della tua salvia e del rosmarino. / Vorrei che tutti gli anziani mi salutassero / parlando con me del tempo e dei giorni andati, / vorrei che gli amici tuoi tutti mi parlassero, / come se amici fossimo sempre stati…

Penso che non capita solo a me che – quando scopri che senti tue (perché in qualche modo ti appartengono e ti coinvolgono) le cose che una persona ha fatto o ha detto –  scatta la volontà di saperne di più al suo riguardo. E’ quindi con grande piacere che ospitiamo questa iniziativa che permette a noi di conoscere in modo più approfondito la figura di Peppino Marotto. Una figura che viene da una terra lontana dalla nostra, non solo per la distanza che ci separa dalla sua Sardegna,  ma anche per la diversità delle tradizioni e della cultura isolane. Eppure Peppino ci fa scoprire che i sentimenti di riscatto di cui era portatore sono molto simili alle gesta e alle lotte contadine condotte anche sul nostro territorio. Certo è che, se avessimo potuto conoscerlo in vita e avessimo potuto farlo ritornare per qualche tempo qui,  avremmo avuto modo di imparare da lui, sicuri che sarebbe stato con noi nel lavoro di ricerca e di ricordo che questo Museo senza paternalismi porta avanti. In questi giorni il mio pensiero, nel preparare l’iniziativa di oggi, era questo: chi l’ha conosciuto, sapeva il valore di quest’uomo? Ha capito con chi aveva a che fare? Certo era un salariato obbligato, sicuramente è venuto da noi per miseria o altro;  ma chi l’ha avvicinato,  chi lavorava con lui,  aveva capito la bontà del suo pensiero? Spero proprio che la risposta sia positiva.  Quando muore un poeta, una porzione di sapere muore con lui. E’ una regola che vale senza limiti geografici o temporali, è una norma che va da sé. "Kenze Neke" sostiene che in Sardegna questa regola ha però un valore doppio, vuoi per la mancanza di eroi, se non occasionali, che popolano la storia antica e recente dell’isola, vuoi per l’assoluta e secolare contrapposizione che ha visto disprezzare in Sardegna ciò che proviene dal seno materno… (Nota. I "Kenze Neke" sono un gruppo etnorock sardo, formatosi a Siniscola (NU) nel 1989 e testimone dell’indentità sarda. Il nome "Kenze Neke" nella variante locale della lingua sarda significa "senza colpa", in memoria di Michele Schirru, l’anarchico sardo fucilato nel 1931 perché scoperto mentre progettava di uccidere Mussolini e il cui plotone d’esecuzione, su preciso volere dello stesso Mussolini, fu composto esclusivamente da fascisti sardi). 

Osvaldo Galli

 

PERCH
E’ UN CONVEGNO A SANTA CRISTINA E BISSONE SU PEPPINO MAROTTO

La vita di Peppino Marotto è strettamente legata al nome di una località sarda che connota, per così dire, per antonomasia i problemi del banditismo, cioè Orgosolo, ma è connessa  anche ad una vicenda culturale di cui brevemente dirò che è stata poi quella che ha fatto nascere in me il desiderio di ricordarlo qui a Santa Cristina e Bissone. Per farla breve, nel 1968 Giuseppe Fiori, già conosciuto a livello nazionale come giornalista e scrittore (soprattutto dopo la pubblicazione nel 1966 presso Laterza di una biografia non oleografica di Antonio Gramsci) pubblicò, sempre presso Laterza, nella collana  "Libri del tempo", il volume   La società del malessere. Se pensiamo al momento in cui il libro apparve, il titolo sembra alludere al malessere della società italiana e direi internazionale e quindi sembrerebbe riferirsi alla crisi di un intero sistema a seguito delle impetuose  rivolte degli studenti e degli operai. Invece il libro riguarda ancora una volta la Sardegna. Breve notazione antropologica: a noi sardi, quando nasciamo ci  viene inoculato uno speciale  virus,  per cui, se  siamo in Sardegna naturalmente ci occupiamo  della Sardegna, se  andiamo via continuiamo ad interessarci della Sardegna, anche da morti (lo aveva capito bene Dante, il quale nel canto XXII dell’Inferno riferendosi a Michele Zanche e a frate Gomita di Gallura, condannati nel girone  dei barattieri, così li presenta: "e a dir di Sardegna le loro lingue non si senton stanche") continueremo a parlare della Sardegna. Naturalmente ci guardiamo bene dal considerare questo fatto una maledizione: siamo nati in un’isola vera, in cui hanno fruttificato i semi di un’identità speciale (non omologabile a quella della terraferma italiana compresa la quasi-appendice costituita dalla Sicilia) e in cui si sono affinati i saperi che, per quanto arcaici,  non per questo hanno dimostrato di non poter resistere all’usura del tempo (basta pensare alla forma-nuraghe). Abbiamo insomma sviluppato  una forma mentis che ci spinge a  impegnarci sempre a fondo a favore della nostra isola per salvaguardarne e custodirne i suoi tesori,  nascosti ai non sardi.  Qualche volta, lo dico come battuta, siamo anche presi in giro perché sembra che ci vogliamo assegnare un ruolo di primo piano  per ciò che riguarda le vicende storiche  in generale. Faccio due soli esempi. Oggi qui, se io dico che c’è una ipotesi per cui Cristoforo Colombo è nato in Sardegna tutti penserete a una boutade, e invece no! E’ da poco uscito un libro in Spagna in cui si sostiene che Cristoforo Colombo è nato in Sardegna e non ha studiato quindi a Pavia: notizia che, se provata,  non farebbe  certo piacere agli studiosi,  pavesi e non pavesi, che questo fatto lo hanno dato ormai per accalarato. Se io dico  che Juan Perón era sardo, molti magari saltano sulla sedia: ebbene, ci sono a tutt’oggi  quattro libri che vogliono documentare il fatto che Juan Perón altri non era che un Giovanni Piras emigrato dalla Sardegna in Argentina. Nella intervista con Marotto inserita nel libro La società del malessere (1968), viene ricostruita la vicenda che porta alla decisione di Marotto di lasciare Orgosolo, nel 1963, all’età di  38 anni e di venire in provincia di Pavia (nel libro di Fiori Chignolo Po compare come Chinolo: è il caso qui di farlo notare) a lavorare in una stalla che "era una stalla con criteri assolutamente nuovi per me, ho visto che le vacche si tenevano alla catena, dovevamo pulirle e dargli da mangiare sempre legate e non riuscivo a concepirlo abituato al bestiame in libertà". Nel 1968 Peppino Marotto è già un personaggio perché è stato intervistato da Franco Cagnetta per una,  subito diventata famosa,  "Inchiesta su Orgosolo" pubblicata nel 1954 dalla rivista "Nuovi Argomenti" diretta da Alberto Moravia. Purtroppo la Biografia di vita di Giuseppe Marotto, pastore orgolese non è ripubblicata dallo stesso Cagnetta nella edizione Guaraldi di questa inchiesta, riproposta col titolo Banditi ad Orgosolo (titolo che richiama quello del  film di Vittorio De Seta presentato con grande successo  a Venezia nel 1961), ma in ogni caso in qualche libreria antiquaria credo che  si possa  trovare una copia della prima edizione dell’opera di Cagnetta. Marotto, prima di arrivare in provincia di Pavia, era quindi un personaggio pienamente inserito nelle vicende della sua Orgosolo ed è uno che  ha dimestichezza con le questioni e sa trattare con la gente del suo pasee (se parlava di "mancanza del calore" che poteva dargli la sua gente, non è certo perché non fosse in grado di instaurare rapporti con le persone di qui). Siamo qui oggi perché, quando, alla fine del 2007, si sono diffuse le prime notizie su questo barbaro assassinio, a me è venuto spontaneo ritornare su questa intervista rilasciata da Marotto a Giuseppe Fiori, testo che avevo già rammentato sulle pagine del quotidiano locale "La Provincia Pavese" quando Fiori, nel dicembre 1985,  era venuto a presentare uno dei suoi libri, Emilio Lussu. Il cavaliere di Rossomori,  proprio presso il nostro circolo.  Il direttore  della "Provincia Pavese" mi aveva chiesto di illustrare le opere  di  Fiori e naturalmente non avevo potuto non mettere in evidenza il collegamento tra Pavia e la Sardegna che veniva ad essere emblematizzato nella citazione fatta da Marotto delle sue esperienze lavorative sia a  Santa Cristina e Bissone sia a Lambrinia di Chignolo Po. Ho ripreso la parte di quell’articolo riferita a Marotto e di getto l’ho completata con le riflessioni suggeritemi dall’emozione del momento. A stretto giro di posta elettronica il mio ricordo di Marotto è andato sui siti Internet con i quali collaboro e subito dopo è stato ripreso da Osvaldo Galli nel sito Internet e nel Notiziario del vostro Museo. Diversi giornali (compresa la prestigiosa rivista "Làcanas" diretta da Paolo Pillonca)  mi hanno riservato l’onore di pubblicare il mio intervento. Venendo qui stamattina da Melzo discutevamo con Paolo Pillonca anche di certi fenomeni enigmatici che fanno sì che, per esempio, se persone diverse si occupano di un certo argomento, finisce che, per vie spesso inimmaginabili, una "forza superiore"  le spinga ad incontrarsi per discutere insieme. Anche nel caso di questa commemorazione, che mi sembra particolarmente adeguata alla natura del personaggio, ci ha aiutato  una congiunzione favorevole delle stelle. Dopo che  Osvaldo Galli aveva pubblicato il mio ricordo di Marotto, c’eravamo accordati per trovare l’occasione di valorizzare la testimonianza di questa presenza,  sia pure temporanea,  di Marotto in questa realtà comunale che  peraltro alla memoria della civiltà contadina ha dedicato una struttura particolarmente importante a tal punto che la Regione Lombardia l’ha riconosciuta anche ufficialmente. Per
ò ci si diceva:  cosa facciamo? Quando lo facciamo?  Il caso (? solo il caso?) ha voluto che io sapessi per tempo da Paolo Pillonca che ci saremmo trovati  nella giornata di ieri a Melzo, in provincia di Milano, dove il circolo sardo di Carnate ha ricordato la figura di Raimondo Piras, al quale il circolo è intitolato. Il nome di Piras ai non sardi può non dire niente ma per i sardi invece rappresenta la personalità apicale tra i  poeti improvvisatori della nostra isola. Il 17 maggio Paolo Pillonca è a Melzo a commemorare il re dei poeti improvvisatori sardi  e il giorno dopo, cioè oggi, può essere qui a Santa Cristina e Bissone a commemorare, con il figlio Francesco (presenza gradita quanto imprevista fino a qualche ora fa). Insomma sembra che sia Marotto sia  Raimondo Piras abbiano positivamente "congiurato" per farci  trovare  tutti qui riuniti a Santa Cristina e Bissone. Quando muore un poeta – è stato ricordato -, una porzione del sapere muore con lui. Noi che siamo aperti al dialogo interculturale sappiamo anche che si dice in Africa che,  quando muore un poeta,  è come se morisse un’intera biblioteca. Marotto ha scritto libri di poesie in sardo in cui ha introdotto i temi della politica; ma è stato anche agitatore sociale in difesa del territorio della "sua" Orgosolo (la popolazione locale ha contrastato con successo  l’installazione di un campo militare) e si è battuto, come sindacalista,  per la salvaguardia dei diritti  individuali;  ma ha avuto anche una funzione culturale importante come componente del "Coro a tenore di Orgosolo" ed in questa veste ha girato il mondo chiamato dai circoli sardi per testimoniare  la sua passione civile e la sua capacità di dar conto, anche "lontano da casa", spesso anche in termini di  improvvisazione poetica, di quello che era il suo sentimento di appartenenza all’etnia sarda.

Paolo Pulina

 

SCHEDA BIBLIOGRAFICA DEGLI ATTI DEL CONVEGNO SU PEPPINO MAROTTO

«Peppino Marotto a Santa Cristina e Bissone», a cura di Paolo Pulina, Museo contadino della Bassa Pavese, 5 euro. Il piccolo volume (che si può richiedere a osvagalli@libero.it) raccoglie gli atti del convegno organizzato, il 18 maggio 2008, dal Circolo culturale sardo "Logudoro" di Pavia e dal Museo contadino per rievocare il periodo trascorso, nella prima metà degli anni Sessanta,  in quel centro da Marotto, il noto poeta orgolese ucciso alla fine del 2007. Un episodio doloroso che ha cancellato la vita di un poeta molto amato e ferito il cuore di Orgosolo. Ai saluti del sindaco e del direttore del Museo Osvaldo Galli seguono le relazioni di Gesuino Piga, di Paolo Pulina e di Paolo Pillonca.  

Salvatore Tola

 

 

INIZIATIVA DEL CIRCOLO "ELEONORA D’ARBOREA" DI PADOVA

"OLTREMARE", IL LIBRO DI MARIANGELA SEDDA

Divise dall’emigrazione ma unite dalle lettere. "Oltremare" narra la storia di due giovani sorelle di Olai costrette alla separazione: una resta ad accudire l’anziana madre, l’altra emigra in Argentina per raggiungere il marito e i fratelli. Ma il rapporto continua, si affida alla potenza della parola scritta, attraversa l’oceano nelle settanta lettere che compongono il romanzo "Oltremare" da cui emerge dapprima il dramma legato al distacco, poi la crescente ansia di sapere l’una dell’altra.   Attraverso la corrispondenza fra Grazia e Antonia passano storie lontane; piccoli episodi di vita privata che si intrecciano agli avvenimenti della storia collettiva.  Storia della Sardegna (ma non solo), dal 1913 al 1928, di cambiamenti sociali ed economici di grande e sofferta rilevanza.: le migrazioni verso il mondo, verso il Sudamerica, la prima grande guerra, il rientro dei reduci, l’avvento del fascismo. Al convegno del circolo "Eleonora d’Arborea" presso la "Sala del Romanino . Musei Civici agli Eremitani" di Padova, sono intervenuti: Anna Milvia Boselli  Consigliera – Delegata alle Pari Opportunità  Comune Di Padova; Paolo Rosaspina  Presidente Circolo Culturale  Sardo "Eleonora .D’Arborea"; Sandra Secchi Olivieri    Professoressa di Storia Moderna Università di Padova; Silvia Failli        Professoressa di Educazione Interculturale Università Di Padova; l’autrice del libro, Mariangela Sedda.

Argentina 20 maggio 1913 Carissime mamma e sorella Vengo a scrivervi e la mia mente non sa quale parola far uscire prima perchè tutte insieme vogliono volare alla nostra casa. Fanno trenta giorni che ho messo piede all’Argentina e quasi non ci credo di essere in questa parte di mondo. Solo la vista di Vincenzo nel porto mi ha fatto comprendere di essere arrivata e che il mio paese, madre e diffortunata sorella erano spariti per sempre. Non sapete che cosa abbiamo passato, io, Caterina Ligios e Giovanna Porru, e gli altri paesani, ventitre giorni in mare, un purgatorio lungo come un inferno, tutto il giorno nel ponte del vapore come nella piazza della festa e non si sa quanta gente c’è. Alla partenza anche gli uomini piangevano lasciando Genova che era proprio l’ultimo pezzo della Patria e per le parole piene di sentimento che ci ha detto Bachisio Piras prima di scendere dal piroscafo. Benedetti i soldi che si ha preso per i biglietti e per tutto, senza accompagnarci lui da paese come saremmo giunti all’imbarco? Prima di lasciare la terra, un prete continentale ci ha confessato e comunicato come in punto di morte. Vicino ai cristiani c’era anche il bestiame e bestiame eravamo anche noi…." Mariangela Sedda, originaria di Gavoi, vive a Cagliari. Laureata in Filosofia ha insegnato per lunghi anni nella scuola media superiore. Collabora alle pagine culturali di varie riviste e quotidiani e con la RAI. E’autrice di racconti, testi teatrali, romanzi e saggi. Fra le sue opere ricordiamo: Un
a storia di ordinaria scrittura (Stampa Alternativa, 1992); Luigino e la statua del re in AA.VV., Magia telematica e altre fiabe (Mondadori, 1997); L’Esilio dei re (Condaghes 2000); Corrispondenze in AA.VV., Lingua madre sarda. Antologia di poeti e scrittori (ArtEuropa 2004). Del 2009 Sos pizzinos po sa poesia(ed. La riflessione) e il romanzo Vincendo l’ombra (ed.il maestrale).

Serafina Mascia

RAPPRESENTAZIONE TEATRALE ORGANIZZATA DAL CIRCOLO "S’EMIGRADU"

A VIGEVANO, LA COMPAGNIA OGLIASTRINA "ANFITEATRO SUD"

All’auditorium Mussini di Vigevano, il circolo sardo S’emigradu di Vigevano ha presentato la compagnia Anfiteatro sud (dall’Ogliastra) in "S’accabbadora", di Susanna Mameli. S’accabbadora era secondo la tradizione sarda "colei che dava la buona morte"; una figura a metà tra storia e mitologia che veniva chiamata dai familiari delle persone sofferenti per dare sollievo e concedere il "sonno eterno".  Nella casa di s’accabbadora, la sua serva sistema e rassetta la stanza e intanto racconta i fatti della padrona. Dalle sue parole nasce il ritratto dell’inquietante Antonia: levatrice, donna delle medicine, figura crepuscolare solitaria, sfuggente e schiva. Si sa che da fanciulla fu abbandonata sull’altare sotto lo sguardo dei fedeli, si dice di come i fiori le si appassirono in volto; si racconta di come nessuno osò fermarla e della mano pietosa che fece cigolare la porta della chiesa, consegnandola alla luce divorante del mezzogiorno. Insomma il cielo bisogna guadagnarselo e Antonia si fa serva e missionaria degli uomini in terra, affaticandosi a fare quello che nessuno vuole o ha il coraggio e la forza di fare: aiutare a nascere e morire.  La serva e la padrona si cavano i peccati dall’anima con crudele affetto, fino a che la serva chiede quella pietà che Antonia ha sempre reso altrove. Ma per s’accabbadora questa volta è diverso. Sabrina Schiesaro

 

LE INIZIATIVE CULTURALI DEL CIRCOLO SARDO "LOGUDORO" DI PAVIA

GLI APPUNTAMENTI SINO ALLA FINE DELL’ANNO

Como, martedì  24  novembre:  il Circolo coorganizza a Como una manifestazione in onore della N. D. Francesca Sanna Sulis, che nel Settecento introdusse le piantagioni di gelsi e  la produzione della seta in Sardegna. Francesco Sulis nacque nel 1716 a Muravera, Sardegna sud orientale. Si sposò nel 1735 con don Pietro Sanna Lecca, giureconsulto, autore dei pregoni per i re di Sardegna. Dopo il matrimonio si trasferì a Cagliari Castello, e sviluppò una notevole attività culturale, sociale e imprenditoriale che la rendono una delle figure più importanti del Settecento nel campo dell’impresa tessile e della formazione professionale. Trasformò i magazzini della casa di Quartucciu in laboratori per la lavorazione della seta, li attrezzò di telai moderni, promosse piantagioni di gelso e l’allevamento dei bachi da seta. Esportava la maggior parte del prodotto in Piemonte e in Lombardia (a Como in particolare). Prima di cominciare a lavorare nei suoi laboratori, i giovani ricevevano una istruzione professionale in corsi mirati, da lei promossi e pagati. Fu a Muravera e Quartucciu che si aprì la prima scuola professionale con veri e mirati piani scolastici di formazione di base per fanciulle, ove potessero apprendere la tessitura, grazie alla lungimiranza di Donna Francesca, con docenti provenienti dalle zone più evolute dell’Italia ; le giovani alle loro nozze ricevevano un telaio in dote. Nel 1779 Donna Francesca produceva una seta di qualità superiore, richiesta a più riprese in notevoli quantità dai commercianti comaschi. Il segreto di questo pregio sta probabilmente nel clima favorevole relativo al mese della schiusa dei semi, fra il 20 e il 25 di marzo, mentre nelle regioni a temperature più basse, la schiusa si verifica più tardi, tra il 15 e il 20 di aprile. Purtroppo, la morte di Francesca Sanna Sulis, avvenuta nel 1810 e l’avvento dei suoi successori nell’attività aziendale, segnò l’abbandono dei fruttuosi rapporti con le regioni dell’Alta Italia. Nel 1808 Donna Francesca Sanna Sulis dona tutti i suoi beni ai poveri di Muravera con l’incarico di amministrarli. Il suo impegno mira a predicare che ogni nuova attività dovesse dedicarsi ai più giovani.

Lascia un esempio e uno sguardo aperto sul futuro spingendo a far rinascere capacità sopite, a sperimentare nuovamente con adeguati macchinari (e tecniche aggiornate sulla conduzione dei gelsi e sull’allevamento dei bachi) la produzione della seta in Sardegna. (Da Lucio Spiga, 2004 – Francesca Sanna Sulis.. Ed. Workdesign)

Sabato 28 novembre: proiezioni delle foto naturalistiche di  Domenico Ruju sulla Sardegna.                                                

Sabato 12 dicembre: conferenza su "Costumi sardi e tradizione" (relatore: Paolo Piquereddu, direttore Istituto Etnografico Regionale di Nuoro) 

Paolo Pulina

 

NUOVO APPUNTAMENTO CON IL
CINEMA AL "SU NURAGHE" DI BIELLA

L’ISOLA DEI MERAVIGLIOSI E DELICATI EQUILIBRI NATURALI

A Biella, nuovo appuntamento con "Su Nuraghe Film", le lezioni di cinema "per conoscere la Sardegna attraverso il film d’autore". In cartellone "Piccole isole, grandi meraviglie", un documentario del giovane regista cagliaritano Davide Mocci. Il cortometraggio presentato da Gabriele Pinna, sardo di seconda generazione ha illustrato alcuni aspetti della sua Terra di origine: la Sardegna. Il filmato narra la storia delle isole di Sant’Antioco e di San Pietro attraverso le immagini dei loro paesaggi e delle tradizioni che le caratterizzano. Tra queste la mattanza, che ha luogo ogni anno in primavera nell’isola di San Pietro. Il viaggio prosegue nella Sardegna Nord-orientale nel grande parco di La Maddalena. Le isole dell’arcipelago sono ricoperte da fitta boscaglia, un vero e proprio paradiso per molti animali che in esse vivono: una di queste è Caprera, custode delle memorie di Giuseppe Garibaldi. Dopo un rapido passaggio sulle isole di Tavolara e di Serpentara, le immagini conducono ad occidente della Sardegna, dove dall’alto del monte Argentario appare la misteriosa isola dell’Asinara. Quest’isola deve gran parte del suo fascino alle vicende storiche che hanno segnato il suo territorio. La presenza di alcune strutture carcerarie ha impedito che meravigliosi e delicati equilibri naturali fossero interrotti, mantenendo cosi intatte alcune caratteristiche territoriali non più riscontrabili in gran parte della Sardegna.

Battista Saiu

 

RACCOLTA LIRICA DI ANDREA PINTUS, POETA SARDO CHE VIVE NEL PAVESE

PICCOLI VERSI SEMPRE … DIVERSI

Il poeta sardo-oltrepadano Andrea Pintus, nato a Benetutti (SS) nel 1931 e dal 1955 trasferitosi a Santa Maria della Versa (PV), per il terzo anno consecutivo si ripropone con la pubblicazione dei suoi frutti lirici d’annata: "PICCOLI VERSI SEMPRE…DIVERSI". Nel riconfermare un percorso segnato dalla continuità, come rileva il curatore dell’opera Paolo Pulina, impreziosisce i componimenti con "profonde o simpatiche variazioni che rendono i suoi versi ovviamente uno diverso dall’altro ma anche diversi da quelli precedenti sugli stessi argomenti". Pintus scrive con metodicità ed il versificare rappresenta "quasi dovere quotidiano" per cantare il suo profondo senso-rapporto con la natura , con la famiglia ed essere "possibilmente sempre tra la gente" ad offrire la semplicità altruistica e schietta di un messaggio  coltivato nell’assonanza di rima tra la parola "amore" e l’umano disponibile vitale "calore" del sognatore poeta. La raccolta -permeata di idealità, speranze e fede cattolica- è soprattutto contrassegnata da un saggio equilibrio e grande capacità di assimilare e rappresentare le più diverse esperienze umane di carattere sociale, culturale, politico e personale; dunque compendiati tutti i temi e le idee del poeta sul mondo e sulla vita. Più, molto più di un percorso lirico sviluppato nell’arco temporale di un anno! Ma a stimolare la stampa di questa ultima fatica poetica del Pintus è stato certamente il desiderio di pubblicare i testi meditativi e di estrema sensibilità -che rappresentano la significativa e sofferta appendice al libro-  "lasciati quì sulla Terra dal nipote Yuri, figlio della figlia Tina, volato in cielo all’età di soli 27 anni". Agli scritti in prosa di Yuri, analisi in materia di sogni con prefigurazioni di futuro, sono affiancati i versi del nonno poeta che "piange la morte così ingiusta del nipote" e sente però rivivere nei suoi pensieri scritti. Un arrivederci ai prossimi "piccoli versi sempre…diversi" di Andrea Pintus.

Cristoforo Puddu

"CONFRONTI D’ARTE" CON PAOLA CONGIA, ROSANNA LONIS E GIUSEPPE FLORIS

TRE ARTISTI SARDI IN UNA MOSTRA COLLETTIVA A MILANO

Nel palazzo del Senato di Milano (Napoleone Bonaparte, allora re d’Italia nel 1805, si sceglieva lui i suoi senatori, oggi invece…) è sito l’Archivio di Stato. Lo frequentavo giusto trent’anni fa quando, per completare la tesi di laurea, andavo consultando le carte di polizia lì depositate che davano conto della vita dei  leader sindacali e della Camera del lavoro di Milano, intorno agli anni venti del novecento. "L’Avanti!" di allora scriveva del nostro (vostro) Antonio Gramsci che veniva da Torino ad arringare le folle dei lavoratori milanesi impegnati nell’occupazione delle fabbriche. Una volta gli storpia pure il nome in  Gramnci, ma allora non era ancora famoso. Oggi comunque ci sono ben tre altri sardi che, dal 29 settembre al 10 ottobre, hanno esposto alcune delle loro opere nel prestigioso edificio. La mostra collettiva si intitola "Confronti d’Arte" e nasce con l’intento di presentare al pubblico milanese un ventaglio di nuove proposte che si affacciano sul mercato dell’arte contemporanea, almeno così dice il catalogo in carta patinata. Avvertendo anche che non esiste un filo conduttore a legare i dodici artisti presenti nella rassegna. O perlomeno non ne esiste uno solo. Dei tre che vi dicevo il fatto che tutti siano nati nell’isola nostra non li rende per questo meno diversi nell’espressione artistica. Singolare comunque che percentualmente siano di gran lunga la presenza territoriale più consistente nel novero della dozzina presente. Paola Congia è di Sardara e qui ha portato una serie delle sue fotografie (formato quadro) che riguardano i fiori, soggetto che predilige tra gli altri. Sono delle macchie di colori forti che spiccano vieppiù su di uno sfondo scuro. Rose e tulipani carnosi su cui puoi contare le gocce di rugiada che li bagnano. La piccola calla che sembra aprirsi alla vita. Ignazio Marcis scrive di lei che non incorre in una sorta di voyeurismo, che è il rischio di ogni fotografo, perché nella raffigurazione dei fiori e nel suo accostamento è ispirata dall’amore e dallo stupore fanciullesco. E comunque questi fiori hanno una loro "spudorata bellezza", colta, è il caso di dirlo, dalla sensibilità artistica dell’artista. Tanto sono discrete le foto della Congia quanto diversamente i due immensi quadri che espone Rosanna Lonis. Quasi due metri per due. Se te ne innamori e anziché tenere in banca i risparmi di una vita decidi di buttarti in un investimento d’arte (in
realtà non ho idea delle sue quotazioni), come consigliano i guru della finanza che pure ci hanno sbattuti in questa recessione senza fine, una intera parete del soggiorno è da essere adibita per ogni quadro. Ed è meglio che la stanza di cui si parla sia grande. Rosanna Lonis vive a Selargius e Alessandro Manesini scrive che: "i suoi voli sgrammaticati premono sulla carta intelaiata, strappandola e permeandola di un movimento vorticoso e veloce". Qui sono un’enorme farfalla bianca su sfondo rosso e una cavalletta , pure bianca e immensa, su sfondo nero. Sempre il Manesini ci informa che l’autrice usa, come fossero tele, delle carte sottili che "maltratta" a lungo, stese sul pavimento e infilzate poi sul muro con puntine da disegno. Fogli grandi, avvolgenti, duttili, ci si può anche camminare sopra." I coleotteri dipinti sono esseri disfatti e in via di mutazione, hanno ali e non le sanno usare, si sono aggrappati ai quadri lasciandoci sopra impronte di rosso, bianco, nero…". Per eseguirli l’artista usa materiali bizzarri e inconsueti: dal carbone vegetale al detersivo per piatti, per stendere i quali non disdegna le mani guantate o le pennellesse da muratore. Unico maschio sardo beato tra queste donne è l’arburese Giuseppe Floris Serra. Che predilige invece i toni pastello, che danno alle sue opere un tono di rilassata tenerezza. Sono infiniti puntini di colore, come fossero mosaico composto da gocce policrome cadute sapientemente sulla tela, che contribuiscono ognuna la sua parte a formare le figure dell’opera. Il "dialogo dei bimboni" è un cento per ottanta in cui quattro visi di bimbo agli angoli della tavola tentano invano di rubare il proscenio a un grande sole centrale i cui raggi concentrici si fanno via via da gialli a rosa a celestri. Gli occhi sgranati dei bambini a fissarlo. Il sole è presente in tre tele sulle quattro esposte, icona che si autoimpone alla ispirazione dell’artista. Quasi un sub inconscio che non trova limiti di sorta. Floris Serra ha cominciato a vincere premi di disegno fin dalle scuole elementari, a nove anni. E’ artista polivalente, scultore anche e ritrattista. Ha esposto le sue opere naturalmente in Sardegna e poi in tutta la penisola, da Roma a Genova, da Venezia a Foggia. E in Francia, Grecia, Portogallo. Ama esprimersi per serie di quadri, tipo i "Paesaggi arburesi in agonia" o "Le figure arcaiche sarde", ma anche "Le ragazze celesti" e, a contrasto magari involontario:"Spioni e guardoni". La sua prima mostra in una collettiva a Genova è del lontano 1975. Il movimento pittorico a cui si ispira verrebbe da chiamarlo "goccismo"e pare di capire che l’abbia in qualche modo inventato lui, o ne sia uno dei protagonisti assoluti. I suoi quadri non sopportano il vuoto, se spazi bianchi si intrufolano, sono anche essi fatti di gocce. Hanno un’impronta assolutamente unica e personalissima, una sua opera la si riconosce immediatamente anche se fosse mischiata a centinaia di altre di artisti diversi. Qui a Milano ha una parete tutta per sé. Oggi la galleria non è molto affollata, posso impunemente scattare fotografie delle opere esposte senza incorrere nelle ire del personale addetto alla sicurezza. E purtroppo gli autori sono assenti, c’erano solo all’inaugurazione. Ma hanno lasciato un po’ della loro anima appesa alle pareti. Facendo in modo che non si possa passare loro davanti senza sentirsi interrogati nel profondo. E gli artisti sardi non sfigurano davvero tra gli altri, tutt’altro. Si può quasi dire che caratterizzino la mostra tutta e la colorino dell’etnos che non possono ricusare. Impastato com’è delle tinte forti che la terra natia sa usare per vestirsi nelle stagioni che ruotano perenni. Con quell’oro del sole di Floris Serra che prepotente vorrebbe tingere di sé ogni spiga di grano anche a primavera, i fiori sontuosi di Paola Congia  giustamente spaventati dalle falene mostruose di Rosanna Lonis.

Sergio Portas

IL LIBRO DI UN RICERCATORE INDIPENDENTE DELLA STORIA ANTICA DI SARDEGNA

KIRCANDE SOS SARDOS

kircande sos sardos è, paradossalmente, un titolo particolarmente attuale. Nonostante stiamo vivendo il terzo millennio dell’era volgare, il passato remoto dei Sardi e della loro terra è ancora nascosto dal buio che avvolge i fatti dimenticati. Essi sembrano cancellati dalla memoria collettiva quasi che l’io della comune coscienza, abbia ritenuto di rimuoverli come qualcosa di pauroso in grado di turbare il quieto vivere. Se è vero che Cicerone, per motivi che attengono alla propria sfera personale, ci ha tramandato un negativo quadro della popolazione sarda, è altrettanto vero che mai nessuno, che abbia voluto scrivere alcunché sui Sardi, non li abbia tacciati d’inferiorità verso tutti. Dalla lettura dei testi di storia sarda si apprende che il passato della Sardegna non ebbe mai nulla di glorioso, ma al contrario fu perennemente legato a decine di secoli di grandi umiliazioni: colonizzazioni culturali, sconfitte militari, perdita di identità. Ma un Vero Sardo non può credere che tale fosse la realtà. Sa bene che ciò che s’immagina dalla sommità del nuraghe è qualcosa di grandioso, un vissuto senza pari.  Il testo, percorrendo vie inesplorate, riporta in luce il passato del Sardo, restituendogli quella grandezza che ne ha fatto il protagonista del Mediterraneo nel Paleolitico superiore. È in fase avanzata la messa a punto del secondo libro della stessa collana: dal titolo: kircande sos sardos duos – fenici mai esistiti, cartaginesi sempre sconfitti. L’eloquenza del titolo lascia adito a nessun dubbio circa la originalità della trattazione delle tematiche che si intravvedono. Il salto temporale considerevole rispetto alla impostazione del primo è reso necessario dalla impellenza di pubblicare scritti partoriti ormai da anni. Il terzo libro sarà ambientato in quel torno di secoli che si inscrivono nel terzo e secondo millennio a.C. e tratterà della presenza da protagonisti dei Sardiani nell’ambito geografico che unisce Siria ed Egitto. Nella giornata di Domenica 1 Novembre u.s. si è tenuto, nella sala consiliare del comune di Decimomannu (CA), il Convegno  ICHNUSA: Viaggio nel passato (organizzato da Promosardegna e Athenaeum 2000). Tenutosi alla presenza di 75 persone, fra le varie tematiche desideriamo dare conto di un intervento dal titolo «I "Fenici" non sono mai esistiti», trattato da Mikkelj Tzoroddu.  In esso, per la prima volta, in assoluto, si analizzano gli scritti dei maggiori studiosi di cose fenicie degli ultimi ottanta anni, per comprendere se essi siano mai riusciti a dare una precisa e documentata definizione di ciò che si riflette nel lemma "fenicio". Si scopre così che alla cervellotica collocazione temporale, da parte di W.F. Albright, di Fenici e loro cultura, fu offerta universale, non scientifica, prona accettazione. Se chiamati ad una spiegazione della voce "Fenici", sulla Treccani, essi non riescano a darne veruna, come il Levi Della Vida. Se sommersi da critiche pur autorevoli (G. Garbini, H. Pastor Borgoñon, A.Ciasca
, W. Röllig) che dichiarano l’impossibilità di definire un popolo o una nazione fenicia, il "papa" Moscati, si dichiara, implicitamente, incapace di ribaltare tale risultanza. Ove la loro traballante certezza ricorra all’aiuto di altri studiosi (H.A. Paraskevaidou, L. Godart),  proprio esso, lungi dal recare l’agognato soccorso,  decreta il crollo di un edificio ormai fatiscente, dimostrandosi pertanto, essere i "Fenici" mai esistiti.

Mikkelj Tzoroddu www.sardegnastoria.it

 

UN PEZZO DI STORIA DELL’EMIGRAZIONE A MORENO IN ARGENTINA

LA MORTE DI EDUARDO AGUIRRE, SARDO ACQUISITO

Come un fulmine a ciel sereno la triste notizia della prematura e inaspettata morte di Eduardo Aguirre  ha sconvolto dolorosamente familiari e amici, gli ascoltatori di "Sardegna nel Cuore", la confraternita della Mercede e della Nuestra Señora de Buenos Aires, direttivi delle associazioni Italiane di Argentina e quanti conoscevano quella serena giovialità, quella voglia di sorridere sempre, di dare una mano spontanea e generosa. Raul Eduardo Aguirre nato il 20 marzo 1937 a Mataderos, uno dei quartieri più tradizionali della città di Buenos Aires, nel 1965 ha conosciuto Teresa Fantasia, un’emigrata sarda originaria di Pattada. Si sposano il 31 ottobre del 1970  giorno che Teresa compie 29 anni. Nel 1975 nasce Juan Paolo. Eduardo integrato alla Famiglia Fantasia, si iscrive come socio e inizia frequentare e collaborare con il circolo Sardo di Buenos Aires. Nel 92 la visita pastorale di Monsignor Otorino Pietro Alberti che vuole celebrare la messa per la Comunità Sarda presso la Basilica situata nel quartiere Caballito a pochi isolati della Sede del Circolo Sardo, risulta una rivelazione per Teresa che aveva chiesto spesso perché i sardi non celebravano mai un santo patrono, come facevano le altre associazioni italiane delle altre regioni: scopre che detta basilica era stata costruita per onorare alla Madonna che aveva dato il nome alla città capitale di Argentina! Santa Maria de Buenos Aires ,patrona Massima della Sardegna! Da quel momento Teresa affiancata da Eduardo, prende a cuore la missione di partecipare alla celebrazione delle Festività Patronale indossando il costume sardo, diffondendo inoltre  la devozione alla Patrona della Sardegna e di Buenos Aires ripristinando il gemellaggio tra Cagliari e Buenos Aires. Alla Madonna di Bonaria è consacrato il circolo Sardegna della Città di Moreno. Il 12 agosto 1997 Eduardo e Teresa accompagnano il parroco mercedario Carlos Gomez  al palazzo del governo di Buenos Aires alla cerimonia della realizzazione del programma "Nuestra Señora de Buenos Aires visita los barrios de la ciudad". Eduardo e Teresa vestiti di sardi assieme a un gruppo di sardi del circolo, e dei membri della confraternita e altri mercedari  portano la storica immagine denominata "de las procesiones" in pelegrinaggio ai principali e più tradizionali quartieri di Buenos Aires. Eduardo inoltre ha collaborato Teresa  nella produzione e realizzazione della trasmissione radiofonica "Sardegna nel cuore" in onda da oltre 11 anni, guadagnandosi l’affetto degli ascoltatori. Molti quartieri e città di Argentina come ad esempio Resistencia (Chaco) Maciel (Santa Fe) Ciudad Alberti e Beriso (Buenos Aires) lo hanno visto sfilare accanto a Teresa indossando con orgoglio il costume sardo e portando lo stendarto  del Madonna di Bonaria. Le cenere di Raul Eduardo Aguirre riposano nella Basilica de Nuestra  Señora de Buenos Aires, come è giusto che sia  per chi è stato scorta di onore e portastendarto della Madonna di Bonaria e di Buenos Aires.

Teresa Fantasia

LA "CENERENTOLA" DI ROSSINI TORNA A SASSARI DOPO 14 ANNI

UNA FAVOLA NELLA FAVOLA

Torna a Sassari, dopo 14 anni la "Cenerentola di Rossini. E lo fa con un’esplosione di colori che dipingono a pennellate forti, senza mai cadere nella banalità o nell’eccesso, un classico senza tempo. L’opera rossiniana in due atti è la seconda proposta del cartellone dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis: nomi d’eccezione per costumi "incredibili". I colori brillanti degli abiti di scena, arricchiti dai dettagliati trucchi dei personaggi fanno da contrasto alla linearità di una scenografia bicroma.Ad indossarli nomi noti del panorama lirico nazionale e locale. L’orchestra di Stefani Vignati accompagna la regia di Gianni Marras che riconferma le intuizioni che l’avevano fatto apprezzare qualche anno fa con "La pietra del paragone". Ecco allora che la classica fiaba ammicca a personaggi e situazioni contemporanee: si distinguono  la cagliaritana Francesca Pierpaoli nel ruolo di Tisbe e Maria Carla Curia in quello di Clorinda e il mezzosoprano Daniela Pini in quello di Cenerentola.  Un frizzante Antonio Vincenzo Serra veste i panni di Dandini, cameriere del principe di Salerno: il giovane baritono sassarese  che il pubblico Teatro di Spoleto, a marzo 2008, ha proclamato "miglior cantante" tra i finalisti del "Comunità Europea" (tra i più importanti concorsi italiani per voci liriche), accoglie gli applausi del pubblico verdiano per la carica espressiva  e il timbro pulito. Non da meno il basso Paolo Pecchioli nel ruolo di Alidoro  filosofo e maestro del principe  Don Ramiro interpretato dal tenore Daniele Zanfardino e il convincente Don Magnifico di Antonio De Gobbi. Decisa e pulita la performance del coro polifonico "Santa Cecilia" diretto da Gabriele Verdinelli mentre troppo accademica per alcuni versi la direzione di Vignati. "Cenerentola, ossia la bontà in trionfo", venne rappresentata per la prima volta al teatro Valle di Roma il 25 gennaio 1817 con il coltralto Geltrude Righetti Giorgi che aveva già calcato la scena come Rosina del Barbiere di Siviglia, ora nel ruolo di Angelina/Cenerentola e fu il prodotto di una collaborazione geniale, quella Rossini- Ferretti che in brevissimo tempo riuscì a dar vita a un’opera in grado di tener testa e superare per diverso tempo Il Barbiere di Siviglia". Ad ispirar la Cenerentola rossiniana furono altri due libretti d’opera, Cendrillon di Charles Guillaume Etienne per Nicolò Isouard del 1810  e Agatina, o la virtù premiata < /span>di Francesco Fiorini per Stefano Pavesi del 1814 senza tralasciare, ovviamente, la celebre favola di Charles Perrault. La velocità di realizzazione fu poi possibile grazie all’uso della tecnica dell’"autoimprestisto": Rossini si servì di musiche di alcuni brani precedentemente composti: il rondò di Angelina è tratto dall’aria del conte di Almaviva del Barbiere "Cessa, di più resistere" e la sinfonia è tratta da quella della "Gazzetta". Nella versione lirica scompare quasi del tutto l’elemento magico: il filosofo Alidoro sostituisce la fatina e una coppia di smanigli prende il posto della celebre scarpetta di cristallo. Via anche la crudele matrigna ed ecco apparire un grottesco Don Magnifico, nobile decaduto e decadente che, dopo aver sperperato i soldi della figlia minore, spera di maritare una delle sue figlie con il re di Salerno.  Ma l’idea della fiaba nella fiaba è palese sin dai primi istanti del primo atto quando, mentre le sorellastre Clorinda e Tisbe, figlie di don Magnifico, si pavoneggiano davanti allo specchio, Cenerentola fa il suo ingresso in scena cantando una canzone malinconica, "C’era una volta un re" che lascia presagire il suo destino. L’opera rossiniana riprende poi, come da copione delle opere buffe e dei drammi giocosi, il tema dello scambio di persona  Don Ramiro lascia che sia Dandini, il suo cameriere a fingersi il principe di Salerno, per poter "tastare" il terreno e scoprire quale delle figlie di Don Magnifico è per lui esempio di bontà e purezza. Ma le due sorellastre si rivelano "un esempi di insolenza e vanità" mentre Cenerentola s’innamora del principe quando è ancora nelle vesti di scudiero. Grazie al filosofo Alidoro riesce a partecipare al ballo completamente velata e a donare al principe/cameriere un braccialetto promettendo di sposarlo qualora lui, ritrovandola, la accettasse anche nella sua condizione di miseria. L’immancabile lieto fine vede il trionfo dei sentimenti, "e alla fine trionfò la bontà" e il perdono degli antagonisti. La Cenerentola di Rossini aveva già solcato il palcoscenico del teatro Verdi di Sassari nel 1970 con la regia di Marcella Govoni e nel 1978  con la direzione di Beppe De Tommasi. Il ritorno sulle scene lo scorso novembre,  dopo l’assenza dal 1995 vede il debutto dei coloratissimi costumi della sassarese Luisella Pintus che,  realizzati con materiali riciclati, rivestivano l’opera di modernità e strizzavano l’occhio al celebre cartone animato Disney del 1950 e a una serie di personaggi e situazioni note e classiche. La scena del banchetto ricalca quella di Miseria e Nobiltà di Totò e il filosofo Alidoro, ricorda due "maghi" classici, Silvan e  quello dello spot Galbusera.  E l’immancabile finale conferma il tributo al celebre cartoon disneyano con l’apparizione della celebre scarpetta di cristallo. Cenerentola si riconferma ancora una delle favole più amate e, come sottolineato nel corso della tavola rotonda che precede la rappresentazione, più diffuse al mondo. E non poteva allora mancare la Sardegna che tra i suoi Contos de foghile, racconta la storia di una Cenerentola meglio nota, nella tradizione sarda, come Ottighitta.  

Mariella Cortès

 

1989 -2009: A VENT’ANNI DALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

CELEBRAZIONE DI UN FALLIMENTO

Alla fine è arrivato. Il ventesino anniversario della caduta del Muro. Sì, perché per chi quei fatti li ha vissuti o anche semplicemente visti accadere in contemporanea, quello era il Muro con la maiuscola. Erano giorni di fervente attesa. Dopo quattro anni di Gorbachov al potere in URSS se ne erano già viste e sentite tante, specie nell’ultimo periodo, che l’evento in sé, per quanto incredibile potesse sembrare al momento, era maturo da mesi. E lì per lì la gioia e la sensazione di un peso che cadeva dallo stomaco della vecchia, cara Europa prevalevano su tutto il resto. Non c’era nemmeno tutta quest’ansia di decretare la fine del comunismo. Era qualcosa di più umanamente basilare, un senso di affettività verso la storia, di riconciliazione con una parte di noi stessi. Ma naturalmente, gli spin-doctor e i grandi affaristi per i quali lavoravano, ossia quelli che già avevano in mano i paesi ricchi, autoproclamatisi vincitori della guerra al "socialismo reale", erano all’opera da tempo per ammannirci una delle più grandi operazioni di egemonia culturale e di imposizione ideologica della storia umana. Tra la "fine della storia" conclamata dal politologo Francis Fukuyama e la conquista della ribalta da parte della "globalizzazione" ci sono più nessi di quanto si posa supporre a prima vista. Il tutto, naturalmente, legato a una brutale imposizione di sistemi produttivi e speculazioni a vasto raggio di cui oggi possiamo ben dire di vedere alcune conseguenze macroscopiche, ma che erano già abbastanza chiare, nelle loro linee tendenziali, sin dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso (leggere Il secolo breve di  E. Hobsbawm per credere). Guerra, devastazioni ambientali (queste sì veramente globali), erosione dell’apparato di diritti e libertà civili conquistati a partire dalla Rivoluzione Francese, crisi economiche e politiche, sono tutti frutto di tale gloriosa vittoria del "mondo libero" (come enfaticamente, specie negli USA, da tempo amano definirsi i privilegiati del pianeta). Le conseguenze del passaggio di fase dovuto alla caduta dell’URSS (più ancora che a quella del Muro, mero simbolo dal significato sovradimensionato) si sono manifestate con una certa celerità. La prima Guerra del Golfo, la "Tangentopoli" italiana, la finanziarizzazione spinta e senza remore dell’economia mondiale, sono alcuni epifenomeni che, in ambiti diversi, possono esservi ricondotti. Il mondo si è incamminato verso un destino ignoto e difficile da prevedere, dopo decenni di apparente e confortevole stasi (confortevole per alcuni, non per tutti, ovviamente). In generale, comunque, quella della guerra fredda è stata l’epoca del maggiore progresso che, in ogni campo, l’umanità abbia mai
conosciuto. Anche, e non secondariamente, perché sulla scena storica all’ideologia dominante, e al sistema capitalista che ne era la struttura portante, si affiancavano, in termini dialettici, altri attori. Il grande spauracchio del comunismo ha fatto in modo che i paesi democratici a economia capitalista abbiano dovuto accogliere per forza di cose dei regimi di tipo grosso modo keynesiani, comunque aperti a pratiche di riformismo politico che attenuavano gli effetti deleteri connaturati nel capitalismo in quanto tale. Questo ha consentito indubbi progressi civili e sociali in una ampia area del mondo. Contemporaneamente, è stato possibile per molti paesi e molti popoli avviare un processo di emancipazione storica che altrimenti avrebbe avuto vita ben più dura. Quel che sia stato di tali processi è altra faccenda. Molto di quanto sta capitando adesso, specie di negativo, è addebitabile a questa fase di transizione post-Muro in cui ci traviamo a vivere. Come tutte le fasi di transizione, anche questa comporta una vasta e assortita congerie di traumi e sofferenza per la parte più svantaggiata dell’umanità. La cosa che sembra di poter dire con una certa sicurezza, alla fin fine, è che la storia non è finita affatto e che, comunque si evolvano le cose, sarà ancora a lungo necessaria la presenza sulla scena della storia degli apparati politici di tipo statale, magari avviati verso una evoluzione di tipo comunitarista e reticolare, chissà. Certo, non potremo più affidarci con la coscienza a posto all’illusione che siano meccanismi virtuosi automatici connaturati nel capitalismo puro a guidare l’umanità verso la propria sopravvivenza su questo pianeta, e nemmeno a garantire benessere e libertà alla maggioranza della popolazione umana. Il Muro (e ciò che rappresenta) è caduto più in nome del consumismo che della libertà politica. In questo senso è stata una indubbia vittoria del capitalismo, più che dei diritti umani e  delle libertà civili. Non mi sento di accodarmi al coro dei trionfatori sul grande nemico, il comunismo. Sarà una grandiosa messa in scena mediatica, priva di referente storico e volta essenzialmente a legittimare l’esistente, specie nei suoi aspetti più deleteri. Preferisco riflettere su quanto ci sia ancora da fare per rendere il mondo un posto migliore per i tanti nostri simili esclusi da qualsiasi possibilità di vita dignitosa e libera e per evitare che questo pianeta diventi ben presto un deserto inospitale
.

Omar Onnis

 

DIETRO LA SENTENZA DI STRASBURGO UN MURO DI SILENZIO

GIU’ I CROCIFISSI

Cosa c’è dietro la dibattuta e repentina sentenza della corte di Strasburgo?  In questo caso vi è la stessa cosa che si può trovare dietro il tanto discusso crocefisso, il muro. Strasburgo sentenzia e l’Italia china il capo senza batter ciglio appigliandosi, in buona parte dei casi, al principio di laicità e al relativo articolo della Costituzione Italiana. Ma non è questa la giustificazione né tale sentenza va intesa come un passo verso il progresso o come una maggiore integrazione all’interno dell’Unione Europea. La decisione di abolire il crocefisso dalle scuole è un colpo di piccone a una parte fondamentale della nostra storia. La più importante. Si parla spesso di  integrazione culturale, razziale, religiosa ma si cala un velo insormontabile nel momento in cui ci si ritrova a dover difendere la propria identità. E qua, attenzione, andiamo oltre il discorso religioso. Si può essere credenti, atei o agnostici ma negare di esser profondamente legati alla religione cristiana, equivale a negare il nostro essere europei. Lutero abolì le icone e spogliò le chiese di tutta la magnificenza di altari e statue di gusto classico, barocco o rinascimentale che ornavano la navata delle chiese  ma il crocefisso rimase al suo posto. Segno della fede, legame con il passato. È una storia che va avanti da duemila anni. Possibile ci sia voluto solo un decreto per distruggerla? Mi viene automatico, soprattutto in vista delle recenti celebrazioni, il paragone, all’inverso, con il muro di Berlino. Con la differenza che quando vent’anni fa si abbatteva il simbolo di una guerra ideologica prima ancora che materiale, l’umanità faceva un grosso passo avanti, guardava fiera al progresso e al futuro lasciandosi alle spalle i tremendi anni dei conflitti mondiali. Ecco, noi ora ricostruiamo il nostro personale muro di Berlino. Personale perché accettando a testa bassa la sentenza di Strasburgo ci stiamo relegando, silenziosamente dall’altra parte del muro quasi vergognandoci di essere quello che siamo. Oriana Fallaci ci aveva visto giusto. E, da "atea cristiana", come si definiva, aveva condannato il nostro ripudio silenzioso della religione cristiana, intesa come storia, in virtù del tacito assenso. Ma non è un nuovo paganesimo ad attenderci dietro l’angolo. E il tutto non va visto come una critica ai recenti fatti che hanno avuto come protagonisti i credenti musulmani. Di certo, loro non l’avrebbero mai permesso. Non avrebbero mai approvato ritenendola, invece, un’offesa alla loro società. E non parlo degli estremisti. Parlo dei credenti moderati,quelli che ogni giorno si inchinano in direzione della Mecca e che portano avanti il loro credo senza scendere a compromessi. I monaci tibetani manifestano in piazza a costo della vita per  difendere il proprio diritto alla libertà. E noi, non solo accettiamo, ma puntiamo il dito verso chi si oppone. In molti vedono la fede cristiana come una semplice istituzione. In realtà è un mattone portante della nostra storia comune che traspira ancora in tutta la nostra società. Dietro un crocefisso ci sono storie di uomini, c’è la storia dell’arte e della letteratura, ci siamo noi. E come in ogni storia va accettata e ricordata con le negatività e le positività che essa trascina con sé senza farla però finire nel baratro di un semplice "si".  

Mariella Cortès

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Un commento

  1. Mariella Cortès (Sassari)

    Massimiliano! Grazie davvero di cuore! Non so davvero come ringraziarti! Sei una persona fantastica e spero di abbattere presto questo muro di virtualità e poter fare con te e Valentina una bella chiacchierata face to face!

    Entro domani ti invio il pezzo della lirica e quello pisano! Un forte abbraccio

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