ricerca redazionale
Sotto il mantello verde della foresta più vasta del Mediterraneo è nascosta una parte della storia dei popoli che hanno civilizzato la Sardegna. Nel profondo Sulcis, in un bosco di 70 mila ettari, la presenza dell’uomo è segnata da un reticolo di strade sterrate, alcune stazioni della Forestale e una decina di ovili. Per il resto, solo alberi. Un bosco di lecci, sughere, corbezzoli sotto i quali vivono più di duemila cervi, e poi daini, cinghiali, volpi, donnole, ricci. Ma, ed è quello che ci riguarda, custodisce tracce importanti di chiese bizantine e medievali, ruderi di villaggi romani, necropoli puniche, nuraghi e monumenti megalitici del Neolitico. Un autentico tesoro, quasi sconosciuto all’archeologia ufficiale ma ben noto ai tombaroli che da decenni operano indisturbati in questo paradiso naturalistico. Recenti scoperte hanno permesso di ritrovare i segni di una frequentazione umana assai più intensa di quanto si ritenesse finora. Ciò è stato reso possibile dal lavoro di una pattuglia di archeologi che, grazie ai finanziamenti assegnati ai Comuni dai fondi del Piano Paesaggistico regionale, sta perlustrando monti e valli da Capoterra a Teulada, da Pula a Siliqua. Una scoperta che contraddice le conoscenze del passato in base alle quali si riteneva che, fin dal periodo neolitico, questo vasto territorio fosse in gran parte spopolato. Si pensava che gli antichi insediamenti umani avessero solo lambito i monti coperti dalla grande foresta del Sulcis, ma le nuove scoperte impongono di accantonare questa ipotesi e lasciano spazio a nuovi affascinanti scenari. Ora che emergono resti di villaggi, strade, monumenti, si può cominciare a tracciare una storia diversa. Il bosco del Sulcis, conosciuto finora per le miniere di ferro e il taglio del legname che ha fornito ingentissime quantità di carbone vegetale (attività per il cui sfruttamento sono state costruite nell’800 le prime ferrovie della Sardegna) e, in tempi più recenti, per le sue straordinarie valenze naturalistiche, sta offrendo nuovi motivi di interesse che, se adeguatamente valorizzati, potranno fornire opportunità di sviluppo economico in un’area dove il tasso di disoccupazione è tra i più alti dell’Isola. Nei monti di Capoterra, la prima sorpresa è arrivata seguendo il tracciato di una mulattiera che si addentra in un bosco di lecci. Qui, l’alluvione del 22 ottobre 2008 ha scavato solchi profondi e, dilavando lo strato superficiale di terra, ha messo in luce alcuni filari di pietre grossolanamente squadrate. Un esame più accurato ha permesso di accertare che si tratta delle fondamenta di una serie di edifici romani risalenti al secondo secolo dopo Cristo. Più a monte, ripulendo dai rovi una fitta macchia di vegetazione, è emersa una roccia alta e sottile, un menhir antropomorfo, che reca impressi evidenti segni lasciati dall’intervento umano. E le scoperte sono continuate pochi chilometri più avanti, dove emerge tra la vegetazione un circolo megalitico formato da un roccione granitico circondato da una serie di massi disposti a semicerchio. La ricerca di nuovi siti archeologici continua e, sicuramente, riserverà ulteriori sorprese. Rese possibili dal lavoro meticoloso degli archeologi in questo oceano verde che cela con ostinazione le tracce dei nostri lontani predecessori. Ma non va trascurata l’importanza della collaborazione fornita dai profondi conoscitori di questo territorio: pastori, cacciatori e, soprattutto, guardie forestali. L’auspicio è che questo immenso patrimonio possa essere tutelato e valorizzato. Perché l’archeologia non deve essere vista come intralcio a uno sviluppo edilizio dissennato ma come una ricchezza in termini non solo culturali ma anche economici. La presenza di insediamenti nuragici, micenei, punici e romani nella pianura costiera di Capoterra e Sarroch era nota, attestata com’è da ruderi di nuraghi, ville ed edifici termali. Ma gli insediamenti umani pareva si arrestassero ai primi contrafforti dei monti del Sulcis, nei millenni passati, ancor più di oggi, ricoperti da una lussureggiante foresta. Fino ad oggi, a confermare la convinzione che la foresta del Sulcis fosse sempre rimasta un territorio marginale, abitata solo da sporadici gruppi di cacciatori e di pastori, era anche il silenzio delle fonti storiche che citano quest’area soltanto in riferimento a un episodio avvenuto nel V secolo dopo Cristo. Lo storico bizantino Procopio da Cesarea, nel parlare della dominazione dei vandali nel Nord Africa, racconta di scontri con gli abitanti della Mauritania che, nel 455, vennero deportati in gran numero nel sudovest della Sardegna. Da questo nucleo sarebbero originari gli abitanti del Sulcis che, forse non a caso, vengono chiamati ancora oggi maurreddinos. L’esistenza di alcuni ruderi di capanne proprio al centro di questi monti, in una località nota col nome di Bidde Mores, ha fatto ritenere in passato, pur in assenza di altri riscontri, che questo fosse il paese nel quale si stabilirono gli esuli nordafricani. La realtà che sta emergendo dalle ultime ricerche è assai più complessa in quanto sono stati individuati decine di insediamenti umani, quasi tutti precedenti i fatti narrati da Procopio. Se la deportazione delle genti nordafricane avvenne come racconta lo storico bizantino, di certo quei popoli trovarono nel sud dell’Isola una terra già colonizzata.