Da sarda, una finestra aperta sul mondo: il concetto d'emigrato, il concetto di confine

di Michela Murgia

 

La stanza dove lavoro io da sulla strada e ogni tanto quando me ne allontano qualche ora capita che mi dimentichi di chiudere la finestra. Questa svista non manca mai di gettare nel panico i miei familiari. Il dialogo che periodicamente si ripropone è grosso modo il seguente:

– Hai lasciato ancora la finestra aperta.

– Può darsi. Dov’è il problema?

– E’ pericoloso, possono entrare extracomunitari.

Sorvolando sul fatto che gli unici extracomunitari che circolano nei pressi di casa mia sono svizzeri e australiani in vacanza, fa ridere da morire pensare alla mia finestra nel ruolo impegnativo di confine della comunità europea; peraltro la Sardegna è tra tutte le regioni italiane sicuramente la meno interessata dai flussi migratori stranieri. Casomai siamo noi sardi che ancora oggi spopoliamo l’isola migrando verso altre mete più professionalmente appetibili, agevolati anche dal fatto che sempre più spesso ci laureiamo in altre regioni. Se ci si aggiunge il fatto che il mio paese ha una microcriminalità interna insignificante e le pochissime rapine in villa le fanno dei sardissimi balordi, sono obbligata a chiedermi da dove derivi questa idea tanto collettiva quanto infondata di un imminente pericolo "straniero" qui. Certamente la loro parte la fanno i telegiornali, che per ovvi motivi politici hanno il loro interesse a presentare certe notizie in modo da dare l’impressione che ci siano frotte di stranieri alle porte che non vedono l’ora di entrare per infilarci gli ombrelli negli occhi. Credo che la facilità con cui crediamo a questa panzana abbia a che fare con il disastroso concetto di "confine", degenerato a metro che regola i rapporti tra persone attraverso categorie facilmente falsificabili come quella di "straniero" e di "familiare". La gente passa il tempo a guardare sospettosamente ogni faccia etnicamente differente che incontra per strada, per poi scoprire che quello di cui avrebbe dovuto avere più paura era il suo italianissimo vicino di casa. Il rafforzamento di questo pernicioso concetto di confine, esasperato fino a coincidere con la serranda della mia finestra di casa, è dovuto anche ai termini che si usano per definire chi si sposta. In italiano si usano due parole, immigrato e emigrato, che indicano entrambe la direzione del flusso migratorio rispetto al confine nazionale. E’ la linea tra un dentro e un fuori la discriminante per identificare con chi si ha a che fare, spesso anche sul piano etico: l’emigrato è il mio povero nonno in miniera in Belgio, l’immigrato è musulmano, brutto, sporco e malintenzionato. Alla lingua sarda questo concetto di dentro/fuori è del tutto estraneo: il migrante è senza distinzione un disterrau, cioè uno sradicato dalla sua terra, che sia mio nonno, che sia il nordafricano che vende oggettini in spiaggia. Il confine sparisce del tutto dalla parola e se c’è, casomai è quello del migrante, non il nostro. Certamente questa accezione dipende dalla esperienza diretta e involontaria di emigrati sardi, che non si è mai chiusa e ci ha insegnato a leggere gli spostamenti forzati come una privazione dolorosa delle radici. Devo capire come sia stato possibile che, partendo da questo concetto del tutto neutro, i nostri vecchi siano poi arrivati a pensare che gli stranieri stiano invadendo malignamente la Sardegna, mentre è evidente che abbiamo l’opposto problema di una terra interna sempre più spopolata. E’ un timore basato su una realtà virtuale, ma mi fa capire che si può essere disterraus senza essersene mai andati: basta avere i piedi qui e la testa dentro il televisore.

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