di Massimiliano Perlato
A volte le cose vanno, forse, come devono in effetti andare. Michael Jackson che girava in carrozzina con la mascherina (di seta) davanti alla bocca e dormiva (dicunt) sotto la tenda ad ossigeno trasmetteva un’immagine malsana e disperata, così come malsane e disperate erano le sue abitudini di vita e le sue tensioni psico-sessuali, tipo quella di riempirsi la casa di bambini con la complicità di genitori che concedevano figli e progettavano cause milionarie. A volte le cose vanno, forse, come devono andare, e un personaggio del genere (vestito così, conciato così, ridotto così) non so quante speranze di vita potesse covare. La domanda classica era: ma a settant’anni, come sarà Michael Jackson? Avrà la stessa faccina bianca e levigata da settecento operazioni, incastonata sul corpo di un settantenne fiaccato da una vita che non ha aggettivi? Andrà in giro con i capelli lunghi tinti, gli occhialoni neri, la cipria sulla faccia, il vestito nero con la camicia bianca, il cappello a larghe falde, la badante al fianco? Sapere che è morto vent’anni prima, in fondo, non sorprende. La storia dell’arte è piena di gente vittima del suo stesso essere artista, così come in fondo è povera di normalità, perché i grandi artisti (ma anche quelli medi, e forse anche quelli piccoli) non sono gente normale. Sai che shock sarebbe trovare Mick Jagger in posta a pagare il canone Rai, o Bruce Springsteen al bar a comprare un gratta e vinci, o i Pooh in spiaggia in slip e canotta. Michael Jackson non è mai stato normale. Era già una star mondiale quando i coetanei facevano le elementari. Poi si è messo in proprio e ha fatto musicalmente delle cose notevolissime per chi ama un certo pop. Anzi, diciamolo: era un artista pazzesco, lui e i suoi gridolini, il suo moon walking, certi suoi pezzi che non per nulla li canticchia l’umanità. Come il novanta per cento degli artisti non si è rassegnato a diventare vecchio. Anzi, lui – essendo avanti – non si è rassegnato nemmeno a diventare venticinquenne, trentenne o quarantenne. Ha cominciato molto prima degli altri a inseguire le sue ossessioni, che forse per la loro precocità sono diventare ossessioni improponibili, malatissime, orripilanti, ributtanti. L’ho sempre giudicato attraverso un doppio binario: grande artista e corpo rovinato, grande artista e fantoccio horror, grande artista e uomo (letteralmente e sostanzialmente) rivoltante. Leggo che spendeva ogni anno 30 milioni di dollari più di quanto guadagnava, e la cosa mi fa impressione (se spendo 30 euro più di quanto guadagno, mi viene la labirintite). Con il solo "Thriller", il disco più venduto da quando esiste la parola disco (e che rimarrà il disco più venduto della storia dell’uomo, perché oggi certe cifre sono pura fantascienza), ha guadagnato cifre a tali zeri da comprarsi tutto il possibile, compresi i diritti dei Beatles, atto musicalmente e finanziariamente che lo aveva reso inviso a mezzo mondo. Tutta roba che ha poi dovuto rivendersi pezzo per pezzo per pagarsi bambini, mogli, avvocati, tende a ossigeno eccetera. Tra venti giorni avrebbe dovuto tornare sul palco a Londra per una serie di concerti che gli avrebbero fruttato una montagna di soldi per pagarsi (vedi sopra). Uno così costretto a mettere all’asta gioielli e soprammobili: no, dai, non è gente normale, e lui era i meno normali dei già poco normali. E’ morto cadendo come una pera nel soggiorno di casa, pluf!, una roba grottesca alla Tim Burton, com’è giusto che sia. Questo non poteva arrivare a settant’anni, non sarebbe stato congruo. Pare lasci duecento milioni di dollari di debito, che potrebbero essere una giusta causa per crollare come una pera un giorno qualunque del tuo cinquantesimo anno. Lascia un bel po’ di musica che fa piacere ascoltare. Io ne ho sempre un paio fra i miei di vinile. Certi pezzi di Michael Jackson – un bel pop senza pretese – volano ben distanti da facce rifatte, pelli sbiancate, bambini nel lettone, soldi e vite scialate. Ciao Jacko, mi mancherai. Anzi, no, non mi mancherai.