di Paolo Pulina
La straordinaria e "scomoda" figura di don Primo Mazzolari, a 50 anni dalla morte (avvenuta il 12 aprile 1959), è stata ampiamente rievocata dai periodici diocesani di tutt’Italia, compresi quelli sardi. Ho visto che questi ultimi hanno giustamente messo in evidenza l’eccezionale magistero ecclesiale del "parroco dei lontani" (come amava definirsi) ma non hanno accennato al legame di don Primo con una incarnazione al massimo livello del "genio sardo": Grazia Deledda, Premio Nobel per la Letteratura per l’anno 1926. Da dove hanno tratto origine i rapporti di conoscenza e di frequentazione tra queste due personalità? Palmiro Palmesani, che aveva sposato Grazia Deledda a Cagliari nel 1900 mentre era segretario dell’Intendenza di Finanza e prima che esplodesse (a Roma, dove subito si trasferirono) la fama letteraria della consorte, era nato a Cicognara, frazione di Viadana, in provincia di Mantova. Il marito accompagnava periodicamente al proprio paese natale la scrittrice, la quale non si sottrasse al gusto di conoscere un paesaggio geografico ed umano del tutto diverso da quello sardo e di produrre narrazioni (come "Nostalgie", 1905; "L’ombra del passato", 1907; "Annalena Bilsini", 1927) ambientate proprio in luoghi caratteristici della pianura padana. Don Primo Mazzolari era nato il 13 gennaio 1890 al Boschetto, nella periferia di Cremona, da una famiglia di contadini. Ordinato prete nel 1912, insegnò dapprima lettere nel Seminario di Cremona. Nel 1915, dopo che il fratello era stato ucciso in guerra, volle operare come cappellano militare e fu in Francia e nell’Alta Slesia. Ritornato a casa nel 1920, il 31 dicembre 1921 fu nominato parroco a Cicognara e, in seguito alla fusione delle due parrocchie, il 10 luglio 1932 divenne parroco di Bozzolo, rimanendovi fino alla morte. Fiero oppositore del fascismo, fu attivo anche nel movimento della Resistenza (si veda il volume di Stefano Albertini "Don Primo Mazzolari e il fascismo, 1921-1943", edito nel 1988 dalla Fondazione "Don Mazzolari"). Dopo la Liberazione, invitò i cristiani ad impegnarsi nella vita politica. Sulle pagine del suo quindicinale "Adesso" si batté per la difesa dei poveri e per il rinnovamento della Chiesa. Si pronunciò a favore dell’obiezione di coscienza e fu implacabile nella condanna di ogni guerra. Poco tempo prima di morire, fu accolto in udienza da Papa Giovanni XXIII, il quale lo abbracciò e lo qualificò davanti a tutti come "la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana". Don Mazzolari pubblicò molti libri. In alcune pagine di "Tra l’argine e il bosco" (1938) riprende la commemorazione di Grazia Deledda scritta a distanza di due mesi dalla sua scomparsa (Roma, 15 agosto 1936; era nata a Nuoro il 27 settembre 1871) apponendovi il titolo "Grazia Deledda parrocchiana". Ecco le parti essenziali della testimonianza di don Mazzolari: "Il comm. Palmiro Madesani, marito di Grazia Deledda, quella sardignola che scrive tanti libri, è del mio paese, e la moglie, con compiacenza poco insulare, ma tanto amabile, parlando e scrivendo, lo chiamava ‘il mio paese’. [La prima volta che il parroco di Cicognara la vide a messa ] prese posto vicino ai banchi dei piccoli come una buona nonna venuta a rendersi conto dei nipotini non molto savi. Il parroco, come sempre, parlò più ai piccoli che ai grandi, a due passi da lei che ascoltava, la testa soffocata da un cappello larghissimo e senza gusto. Appena muoveva il capo, le brillavano gli occhi bellissimi in un volto che non fu mai bello, ma che l’età componeva amabilmente all’ombra dei capelli tutti bianchi. Pochi giorni dopo parroco e parrocchiana si ritrovarono a colazione in una delle tante case ospitali del paese. Per levarsi quegli occhi che lo scrutavano il parroco le avrebbe volentieri parlato anche di libri, dei suoi, che non conosceva affatto; infine, finì per chiedere: ‘Come trova il paese?’. ‘Assai cambiato, cominciando dal parroco. Qui non avrà trovato agnelli. Vedo però che sa prenderli. Anch’io ci sto bene’. Parlava pochissimo: frasi brevi, seguite da interminabili silenzi. Si diceva da qualcuno che, essendo a corto di motivi sardi, fosse venuta a razziare sul Po. Infatti era piena di piccole curiosità: fermava per la strada certi tipi, interrogava volentieri i vecchi mugnai di acqua, si faceva portare in barca da Pinon in lunghi giri senza meta: osservava, chiedeva, fissava cose e persone con strana insistenza. C’era chi la schivava per non farsi fotografare da quei suoi due occhi. Avevano paura di finire sul libro com’era capitato ad altri. Per trovar tipi s’assoggettava all’ardua impresa dei desinari interminabili. Spesso, dopo una di queste imprese conviviali, me la vedevo capitare in casa. E si buttava stancamente sopra una sedia di fronte alla Madonna del Borgognone. Erano discorsi discontinui con lunghe pause e riprese lontane: un’anima fuori del comune che sentiva il bisogno d’aprirsi all’ultimo prete di campagna. Diceva: ‘Mio marito si occupa molto di religione: io mi accontento di credere alla maniera dei miei’. Non so di preciso che intendesse; mi pareva di capire che anche in religione si lasciava vivere abbandonandosi al ricco e profondo istinto della sua razza e della sua terra, senza scegliere né levigare. È una maniera poco raccomandabile specialmente per chi scrive libri e ha un mondo di lettori che leggono a un qualche modo e che a un qualche modo capiscono: ma io ebbi l’impressione, confermatami più tardi dalla lettura, che con quel suo naturale la Deledda non avrebbe saputo far molto diverso. In certuni l’unica forza è il grezzo, un grezzo che a purgarlo e a incivilirlo ci vuol più di una esistenza. In Grazia Deledda la scrittrice non mi pareva congiunta né alla sposa né alla mamma, ma a qualche cosa di primigenio. Come cultura, sapeva tanto e non sapeva nien
te perché le molte cose che apprendeva si fondevano nel colore della sua anima oppure non esistevano neanche. Non ho mai trovato una scrittrice così poco colta e nello stesso tempo così capace di servire una cultura e arricchire le lettere di un Paese. Di quel soggiorno in parrocchia ne venne fuori un libro ‘Annalena Bilsini’, né bello né limpido. Aveva promesso di mandarmelo, poi deve essersi accorta che non era un dono per il parroco e non me lo spedì: attenzione di buona parrocchiana, che m’è piaciuta. Sarebbe stato meglio che il libro avesse avuto un’altra aria. [Come si vede, a don Primo Mazzolari non difettava la schiettezza dei giudizi, anche nei confronti di un Premio Nobel per la Letteratura! ndr]. Nel 1926, quando le assegnarono il premio Nobel – davanti al mezzo milione anche i miei scopai cominciarono a stimare il mestiere di scrivere libri – mandai a nome di tutti i parrocchiani due parole di contento. Ecco la risposta: ‘Nonostante la fatica e la baraonda di questi giorni non voglio tardar oltre a ringraziarla, pregandola di essermi interprete dal suo santo altare, presso il popolo della mia Cicognara, di tutta la riconoscenza ed il mio amore. Evviva Cicognara!‘ ".